sabato 31 marzo 2012

Il rapporto tra l’uomo e gli animali

4/7/2010

Mangiare carne nuoce ed inquina

Il rapporto tra l’uomo e gli animali nella nostra società è di tipo autoritario.
In Occidente si confrontano due correnti di pensiero antitetiche nei confronti degli animali: quella prevalente, di sfruttamento e dominio in nome di una supposta superiorità dell’uomo, che ha il suo epicentro nella Genesi, ma trova conforto anche nel pensiero di Aristotele e di San Tommaso d’Aquino, fino a Cartesio e Kant e quella meno seguita, basata su rispetto ed empatia verso il mondo animale in nome della comune appartenenza al mistero della vita, che risale a Pitagora ed attraverso Hume e Voltaire giunge fino a Bentham e Darwin.
In Oriente viceversa il rispetto per tutti gli esseri viventi raggiunge l’eccesso di alcuni fanatici, che camminano con una mascherina per evitare il rischio di ingerire accidentalmente qualche insetto. Le vacche sacre pascolano beate per le vie delle metropoli indiane, mentre tutti coloro che credono nella reincarnazione sanno che le trasmigrazioni da animale ad uomo sono previste e frequenti.
Per amare e rispettare gli animali non è sufficiente coccolare cani e gatti, scandalizzarsi per l’insulso spettacolo della corrida o firmare petizioni per fermare il massacro delle balene o la caccia alle tigri ed agli elefanti, bensì bisogna vietare l’uso delle cavie nella sperimentazione dei farmaci e addirittura dei cosmetici e meditare sulla strage annuale di miliardi di animali(dieci solo negli Stati Uniti): per una dissennata alimentazione iperproteica, la quale nuoce alla salute, provoca danni irreparabili all’ambiente ed affama metà della popolazione mondiale.
Polli, conigli, tacchini, vitelli, galline, uccelli e pesci di ogni specie e di ogni misura, esseri viventi che forse non parlano o almeno noi non li intendiamo, ma certamente percepiscono la sofferenza, essendo dotati di fibre nervose specifiche simili alle nostre.
Vi è un pressante motivo economico che dovrebbe convincerci più di qualunque altro argomento dell’assurdità di consumare proteine animali e non vegetali. Infatti affinché noi possiamo mangiare carne gli animali debbono consumare enormi quantità di vegetali, per cui gran parte dei terreni viene dedicata alla produzione di mangime a scapito dell’alimentazione delle popolazioni più povere, con un incremento sostanziale dei costi, perché il prodotto finale che arriva in tavola costa molto più dei vegetali a parità di potere nutritivo. Gli allevamenti poi, per via delle abbondanti deiezioni e dei conseguenti gas che vengono a liberarsi, incide pesantemente sull’inquinamento ambientale e sui delicati equilibri della biosfera.
Inoltre vi è poi una considerazione di ordine biologico basata sulla circostanza che la nostra specie, per quanto divenuta onnivora, possiede un intestino molto lungo simile a quello degli erbivori, diversamente da quello corto dei carnivori.
Le conseguenze sono una difficoltà digestiva con lunghe permanenze nell’intestino, fenomeni di decomposizione e di fermentazione, che incidono su un’aumentata frequenza del cancro al colon nelle popolazioni che consumano molta carne, una patologia quasi sconosciuta tra gli africani e gli orientali.
Per chi volesse approfondire l’argomento consiglio di consultare sul web i miei articoli”Aboliamo la caccia anzi la carne” e “Gli animali hanno un’anima?”.
Sulle confezioni di carne dovrebbe essere obbligatorio, come per il fumo, indicare il grave pericolo che corre la salute del consumatore: non solo cancro, ma anche diabete, arterioslerosi, iperazotemia, obesità ed infinite altre malattie.
Senza parlare delle terribili condizioni in cui sono costretti a vivere i nostri alimenti…, prima di finire nella nostra pancia. Un eccesso di crudeltà senza giustificazione che precede lo sterminio ed anche purtroppo senza speranza  che possa nascere una sensibilità etica sull’argomento, purtroppo etica e morale latitano sulle questioni umane, figuriamoci quando si tratta di animali!

Napoli, i napoletani ed il Gay pride

1/7/2010

Sabato scorso un gigantesco e variopinto corteo è sciamato per le strade cittadine portando una nota di allegria ed un invito alla tolleranza: erano i partecipanti al Gay pride, il giorno dell’orgoglio omosessuale, festeggiato per la prima volta nella nostra città.
L’evento al quale hanno aderito non meno di 50.000 persone è stato preceduto da intense giornate di riflessione e di approfondimenti, dalle tavole rotonde alla presentazione di libri sull’argomento; si è inoltre messo a fuoco l’esigenza di una normativa specifica che includa l’aggravante per il reato di omofobia, una pratica disdicevole che ha visto una vergognosa impennata negli ultimi tempi in città come Roma e Milano.
La manifestazione da piazza Cavour a piazza Plebiscito si è svolta sotto lo sguardo divertito e compiaciuto di tutti i napoletani, che, pur non prendendo parte direttamente alla sfilata, la osservavano incuriositi additando il carro più esotico o più pruriginoso, mentre alcuni, i più anziani, esclamavano senza malizia: “ non mi ero mai accorto che a Napoli ci fossero tanti ricchioni”.
La città, patria dei femminielli e riconosciuta capitale mondiale della tolleranza non poteva comportarsi altrimenti. Nella sua storia millenaria si è nutrita di diversità, facendo prevalere l’alieno sull’identità.
Napoli nella sua lunga storia, più volte millenaria, non ha conosciuto né il ghetto né l’Inquisizione, perché il carattere peculiare che ci contraddistingue da sempre è la tolleranza, che oggi, pur tra tante pressanti emergenze, ci fa progettare a Ponticelli una grande moschea e che in futuro ci permetterà certamente di rappresentare un ideale laboratorio sperimentale di convivenza tra popoli eterogenei e culture diverse.
Il napoletano, come dimostrano recenti statistiche, non vede di buon occhio l’omosessuale più o meno dichiarato, quello politically correct, che oggi, altrove, va tanto di moda ed è apparentemente accettato da una società ipocritamente buonista, ma ha sempre accettato la figura del femminiello, che  da noi può vivere quasi sempre, soprattutto nei quartieri popolari, in una atmosfera accogliente, segnata dal consenso e dal buonumore.
Nel variegato universo omosessuale, ancora mal classificato sia scientificamente che culturalmente, il pianeta costituito dai femminielli napoletani occupa un’isola  privilegiata.
Nato in uno squallido basso, privo di aria e di luce, in una famiglia in cui la promiscuità è la regola, e dove i figli, tanti, dormono tutti assieme in un unico letto, il femminiello trova il pabulum ideale per sviluppare le sue particolari tendenze; è sempre l’ultimo dei figli maschi, cocco di mamma, al cui modello di dolcezza femminile tende spontaneamente, decidendo, ad un certo momento, senza essere incalzato da cause organiche o costituzionali, di appartenere: di essere donna!Nei quartieri popolari è raro che questa decisione venga giudicata una disgrazia, la famiglia non pensa nemmeno lontanamente di allontanarlo, perché sa bene che anche la società del vicolo lo accetterà senza problemi, anzi poco alla volta lo utilizzerà bonariamente come un factotum buono per mille piccoli servizi, dall’aiuto nel fare la spesa al rammendo degli abiti, mentre nessuna mamma avrà timore di affidargli i suoi bambini, anche piccoli, se dovrà allontanarsi per qualche ora dal basso per un’improvvisa incombenza.
Il femminiello gode quindi di una bonaria tolleranza in tutti i quartieri poveri della città, dove collabora attivamente all’arcaica economia del vicolo e dove, per la cultura popolare, non è mai un deviato, ma al massimo uno stravagante, che ama travestirsi ed imbellettarsi come una donna, assumere movenze e tonalità vocali caricaturali, amplificate da una gestualità quanto mai espressiva.
Il popolino lo accetta volentieri e lo utilizza frequentemente come valvola di sfogo di malumori e aspettative insoddisfatte, scaricandogli  addosso, senza malizia, una valanga di improperi in un cordiale quanto irripetibile turpiloquio, condito di frasi onomatopeiche ad effetto, comunque senza mai isterismi o inutili intenzioni moralistiche.
Volgarmente è chiamato ricchione dal popolino, che ignora di adoperare un termine assai antico e di origine spagnola. Furono infatti i nostri dominatori per tanti secoli ad introdurre, all’inizio del Cinquecento, nel nostro dialetto la parola orejones, con la quale si indicavano gli omosessuali, eredi della dinastia incaica, che si facevano forare ed allungare i lobi delle orecchie come segno distintivo.
Di giorno il femminiello fa vivere al quartiere momenti di gustosa ilarità, quando va a fare la spesa o semplicemente passeggia guardandosi intorno. Truccati pesantemente soprattutto alle labbra, indossano camicette scollate e pantaloni attillatissimi, che a fatica nascondono una dimenticata, ma sempre imbarazzante appendice sessuale. Nonostante la cultura modesta, hanno spirito mordace, senso del ridicolo e la battuta sempre pronta. Raggiungono il massimo della teatralità dal verdummaro, quando palpeggiano e scelgono le zucchine più lunghe e più dure o si beano accarezzando i meloni più tondi. Quando entrano in un negozio il divertimento è assicurato, vengono accolti con piacere dagli astanti e qualche ragazzo impertinente li sfruculea, canticchiando qualcuno dei motivi dedicati a loro dai neomelodici o la celebre canzone di Pino Daniele, che racconta la storia di un travestito di nome Teresa.
La diffusione capillare della droga, anche se giunta in ritardo nella nostra città, perché ad essa si opponevano famosi camorristi, come lo stesso Cutolo, ha travolto equilibri secolari ed anche la comunità dei femminielli ne ha risentito vistosamente. La  peste del XXI secolo, l’AIDS, ha cominciato a dilagare, riducendo a larve e fantasmi vaganti tanti omosessuali, costretti a diventare miseramente posteggiatori abusivi o mendicanti. I vicoli dei quartieri spagnoli, dopo il sisma del 1980, sono stati progressivamente occupati da extracomunitari, dalla cultura lontanissima dalla nostra, per cui è scomparso quell’ambiente familiare del vicolo, con la sua economia ed i suoi  rapporti interpersonali molto stretti, quasi maniacali. La vita quotidiana nelle stradine sopra via Toledo era scandita da un senso di socializzazione e di appartenenza fortissimo, ancor più stretto per chi viveva nella stessa strada. Il senso della vita comunitaria tra il popolino si è affievolito lentamente dal dopoguerra in poi, per deteriorarsi maggiormente con l’arrivo di cingalesi e capoverdiani. Un dato eminentemente urbano, non derivato dalla civiltà contadina, che ha caratterizzato per secoli i nostri vicoli e che oggi è al capolinea. Scomparso il proprio territorio protetto i femminielli si trovano oggi alla deriva senza bussola e senza consenso sociale. Devono combattere con i viados brasiliani, importati massicciamente dalla malavita, portatori di una sottocultura diversa, legata unicamente al moloch dei nostri giorni infelici: il denaro.
Cambieranno, scompariranno, come sono scomparse le nostre puttane, sostituite egregiamente da albanesi e nigeriane? Sembra sia in atto una vera e propria mutazione cromosomica. In ogni caso i femminielli di domani saranno diversi da quella specie, che ha allignato per 25 secoli all’ombra del Vesuvio, costituendo una caratteristica, nel bene e  nel male, della nostra amata città.
L’importante è che una manifestazione come quella di sabato serva a rinsaldare il carattere tollerante dei napoletani e sia di monito ad essere ogni giorno rispettosi dei diritti dei diversi, soprattutto quando per diverso si intende il disabile o l‘extra comunitario.

La Caporetto di Pomigliano

28/6/2010

Una nuova era nei rapporti tra capitale e lavoro

All’inizio degli anni Settanta il governo varò una serie di provvedimenti per migliorare le condizioni economiche della Campania: la tangenziale di Napoli, l’unico tentativo serio di contrastare un traffico a croce uncinata senza eguali, che mortifica la città ed annichila commercio e vivibilità e l’apertura a Pomigliano d’Arco della fabbrica d’auto più a sud d’Europa.
A metà del decennio, nel 1975, vi sarà la posa della prima pietra della nuova linea metropolitana; attendiamo ancora ed aspetteremo per decenni, la posa dell’ultima.
L’idea di localizzare nella piana più ferace d’Italia uno stabilimento industriale, strappando migliaia di addetti alla vocazione naturale di contadini ed artigiani, alle prospettive accattivanti di uno sviluppo turistico e condannandoli all’alienazione della catena di montaggio, fu una scelta sciagurata, pari a quella di distruggere una spiaggia favolosa, sita nel cuore della città, per far sorgere un mostro d’acciaio puteolente, che ha impestato l’aria ed inquinato il mare per decenni ed infine ha ingoiato migliaia di miliardi di passivo con l’illusione di forgiare una classe operaia.
Da Pomigliano, imbottita di assunzioni clientelari e di cafoni strappati alle campagne, oltre che di reduci da aziende decotte e fallite, sono uscite macchine difettose, prodotte costantemente in perdita, al punto da travolgere nel baratro la gloriosa Alfa Romeo. Subentrata la Fiat, la fabbrica è divenuta il tempio della conflittualità permanente, dell’assenteismo selvaggio, della rissosità sindacale e dell’anarchia aziendale.
Nel frattempo i tempi sono cambiati e dopo la caduta del muro di Berlino una manodopera sterminata dagli Stati ex comunisti ha invaso l’occidente, disposta a lavorare indefessamente ed a prezzi stracciati, mentre la Cina prima ed ora anche l’India, Paesi con popolazioni che superano complessivamente i due miliardi di individui, hanno cominciato a produrre senza sosta ogni tipo di merce a prezzi dieci o venti volte inferiori a quelli europei.  
Gli Italiani, i Francesi, i Tedeschi, gli Inglesi, schiavi di un consumismo sfrenato, hanno trasformato le loro metropoli in giganteschi centri commerciali, dove la ricchezza del passato viene consumata in un’orgia di acquisti incontenibile, mentre i paesi emergenti investono capitale, per migliorare il loro apparato industriale e produrre la maggior parte dei beni venduti in questi faraonici ipermercati, affollati a tutte le ore da un esercito gaudente, in trance bulimica, di appartenenti alla classe del dolce far niente; almeno fino a quando, finite le risorse monetarie, il commercio sarà paralizzato da una crisi devastante che  travolgerà oriente ed occidente, che crolleranno in condominio.
La manodopera europea diverrà il vero proletariato del pianeta e, finita l’era delle illusioni, dovremo fare i conti con il nostro definitivo declino.
Ma torniamo a Pomigliano e al diktat della Fiat, irata per l’interruzione del dissennato piano di rottamazioni, che prevede regole severissime in contrasto con i contratti collettivi e derogando ad alcune prerogative, come il diritto di sciopero, forse obsolete, ma almeno fino ad oggi garantite dalla nostra Costituzione. 
L’industria dell’auto mondiale è afflitta da un’irreversibile eccesso di capacità produttiva, valutabile intorno al 40%, per cui o ci si allinea ai costi delle nazioni emergenti o si è semplicemente fuori mercato. Si tratta di scegliere tra lavorare di più o non lavorare affatto. La globalizzazione è oramai ad uno stadio molto avanzato: dopo aver spostato le produzioni lì dove il costo del lavoro è irrisorio, i lavoratori docili ed i sindacati inesistenti, i diritti una pura fantascienza, oggi si cerca disperatamente di spingere verso il basso i salari ed aumentare l’orario da trascorrere in fabbrica. La conclusione è che invece di attivarsi per migliorare la situazione in Asia sono i nostri lavoratori che devono divenire cinesi. Invece del sogno promesso dal progresso di lavorare di meno e di consumare di più, dovremmo lavorare di più e consumare di meno.
In Germania, nel mentre la Merkel infrange le regole comunitarie sulla concorrenza, la Opel accetta, a parità di retribuzione, di passare da 38 a 47 ore lavorative; in Francia la settimana di 35 ore diviene giorno dopo giorno un imbarazzante ricordo. 
Non è più il tempo di pelose prediche ai lavoratori del terzo mondo di non divenire vani adulatori di automobili e telefonini, come noi siamo stati e siamo ancora, abbiamo dato un pessimo esempio di incontinenza accaparratoria, dobbiamo cercare di essere seri. 
Ai politici ed agli intellettuali il gravoso compito di ridisegnare un mondo nel quale vi possa essere un tollerabile equilibrio tra avidità del capitale ed esigenze dei lavoratori, tra diritti e doveri, tra caos e civiltà.

Una strage che grida vendetta

21/6/2010

a giorni saranno trenta anni dalla strage di Ustica, uno dei tanti misteri che soffocano la nostra storia recente, sulla quale si è detto e non detto  e sono stati versati fiumi di parole inutili.
A ricordare la triste ricorrenza nessuna cerimonia ufficiale, le interviste reticenti ai politici dell’epoca, che sanno e non dicono ed un bel libro di Rosario Priore, il giudice che indagò a lungo, ostacolato in ogni modo, sulla tragica esplosione del Dc9 dell’Itavia e sulla morte di ottanta persone.
Ma trovare la verità non dovrebbe essere difficile e mi permetto di consigliare la via da percorrere a chi volesse, giornalista o magistrato, sapere cosa successe realmente nei nostri cieli.
Gli Americani conoscono da sempre l’esatto svolgersi degli avvenimenti, anche se hanno sempre rifiutato di collaborare.  A Napoli, alla rada, stazionava una portaerei che con i suoi radar teneva sotto controllo tutto il Mediterraneo, mentre dall’alto ai satelliti non sfugge un metro quadrato di territorio; tutto registrato e conservato.
Negli Stati Uniti esiste una legge sacrosanta a baluardo della libertà d’informazione:il Freedom of Information Act, che consente al semplice cittadino di accedere  direttamente ai documenti, anche all’epoca riservati, della pubblica amministrazione civile e militare. 
Le informazioni che ci interessano sono lì che attendono di essere compulsate, ci sarà qualcuno di buona volontà che vorrà adoperarsi per farci conoscere la verità?

Avvelenati, un coraggioso libro di denuncia

16/6/2010

Avvelenati, scritto a quattro mani da Giuseppe Baldassarro e Manuela Iatì (Città del sole editore), due giovani giornalisti calabresi, è uno dei tanti reportage figli dell’ultimo capitolo di Gomorra, dedicato allo scandalo dello smaltimento dei rifiuti tossici ed al triangolo della morte. 
L’argomento focalizzato sono le famigerate vecchie navi affondate a decine lungo le coste italiane, soprattutto al sud, nelle cui stive si sospetta che siano contenuti rifiuti tossici estremamente pericolosi, incluso scorie nucleari.
Fece scalpore nei mesi scorsi il caso della vecchia carretta del mare da anni nel golfo di Cetraro, ai limiti delle acque territoriali, che si rivelò, dopo accurate e costosissime indagini, una bufala e si appurò che l’affondamento era stato provocato unicamente per frodare l’assicurazione. 
Il libro è scritto con passione e giovanile entusiasmo, un difetto alcune volte, ma la giovinezza non è certo una colpa, è semplicemente uno stato transitorio, dal quale si guarisce poco alla volta, giorno dopo giorno.
L’ipotesi che per smaltire sostanze altamente inquinanti sia necessario affondare la nave è una clamorosa ingenuità, paragonabile a sbarazzarsi dell’acqua sporca gettando la tinozza con dentro il bambino, come pure evocare il complotto, in faccende di quotidiana criminalità più o meno organizzata, serve solo a intorbidire il problema, distogliendo l’attenzione mediatica sull’argomento, che conserva una incombente gravità.
Se una nave deve liberarsi di un carico compromettente, quale soluzione migliore che aprire una botola in mare aperto ed in acque internazionali, per poi ritornare a caricare e scaricare altre infinite volte.
Al libro ha collaborato un magistrato, il dottor Cisterna, a lungo titolare della pubblica accusa in processi calabresi per inquinamento ambientale, al quale abbiamo chiesto quali provvedimenti legislativi sono necessari per giungere a colpire realmente e severamente i colpevoli di disastri ecologici, i cui danni saranno scontati anche dalle generazioni future.
“Bisogna lavorare soprattutto nella prevenzione, controllando accuratamente tutti i passaggi delle sostanze pericolose, dalle fabbriche che le producono come scarto dei processi di lavorazione fino alle discariche speciali dove vanno ammassate ed inertizzate.
Anche io credo che i controlli vadano fatti nei porti, luoghi spesso sotto tutela militare nei quali fino a pochi anni fa era vietato anche scattare una innocente fotografia”.
Con l’auspicio che l’Italia quanto prima adegui la sua normativa a quella europea, molto più severa, non resta che leggere questo libro, al quale auguriamo la migliore fortuna  per l’ingrato compito di risvegliare la nostra coscienza civile che troppo spesso sonnecchia.

La sindrome di Caravaggio

10/6/2010

E mo' basta !!
Non sappiano se la mostra apertasi lo scorso sabato a Firenze a Palazzo Pitti, Caravaggio e caravaggeschi a Firenze, conoscerà lo stesso straordinario successo di massa di quella tuttora in corso a Roma alle Scuderie del Quirinale, certo è che per entrambe si deve  dire che siamo di fronte ad un fenomeno tale da produrre esiti differenti rispetto a quanto probabilmente gli stessi organizzatori non avessero previsto. Ma per capirci bene occorre andare per ordine.
Non era difficile prevedere che in questo 2010, a quattrocento anni della morte -in circostanze ancor non del tutto chiarite- di Michelangelo Merisi da Caravaggio (fig 1), un incombere di manifestazioni, rievocazioni, convegni, pubblicazioni avrebbero letteralmente messo alla prova l'attenzione del  pubblico, particolarmente attratto tanto dalle vicende di vita quanto dalle geniali creazioni del grande artista. Non era difficile prevederlo, considerato l'enorme successo che garantisce, a chi organizza mostre o stampa libri, la sola citazione  del nome del Caravaggio;  Freud avrebbe probabilmente spiegato casi come questo con il fenomeno della 'identificazione' (che per la psicanalisi è appunto “la prima manifestazione di un legame affettivo con un altra persona” ; cfr S.Freud, Psicologia delle masse ed analisi dell'io),che spiega bene come masse intere di persone possano arrivare ad identificarsi con qualcuno, in forza di un legame affettivo primo, cioè originario, primigenio. Ed era perfino ovvio che facendo forza su questo 'legame' il mercato avrebbe giocato la sua partita con il profluvio di iniziative di cui parlavamo, cui è davvero un'impresa dare un senso che non sia quello meramente 'pratico' di sfruttamento dell'evento con  la trasformazione di un appuntamento in qualche modo storico in 'battage', lancio pubblicitario, vetrina massmediologa.
Si dirà – ed è vero- che non bisogna generalizzare, che in qualche caso alcune benemerite ricerche, come vedremo, hanno determinato anche degli sviluppi, e tuttavia la sarabanda spesso improvvisata e forzata cui si è assistito e si sta ancora assistendo rischia, se non l'ha già determinato, di creare un fenomeno ben diverso da quello della identificazione, cioè, sempre per rimanere in ambito freudiano, la 'rimozione', cui il medico viennese associava quello ancor più preoccupante, per quanto stiamo dicendo, della 'resistenza', il meccanismo psichico che non consente ai contenuti rimossi di ritornare coscienti. 
Accadrà, insomma, com'è già avvenuto, che di nuovo Caravaggio -stavolta non per cambiamento dei gusti artistici, ma per eccesso di sovraesposizione, ovvero per una sorta di saturazione- verrà messo in soffitta? Ci auguriamo di no, ma il rischio bisogna metterlo in conto. Da questo punto di vista, le parole della nuova Sovrintende del Polo museale romano, Rossella Vodret, che ha preannunciato, dopo la mostra delle Scuderie, una nuova iniziativa espositiva stavolta dedicata ai “pittori caravaggeschi minori “ (sic!) come Cecco del Caravaggio, Bartolomeo Manfredi, Jean Valentin ecc, suonano piuttosto come una minaccia che come una promessa.  La domanda, come si dice in questi casi, sorge spontanea : cui prodest ? Non si discutono, ovviamente, i capolavori esposti al pubblico, che anzi in qualche caso (fig.2) sono di difficile fruizione ; molti però si chiedono quali siano i contributi di novità e di analisi della poetica del geniale pittore lombardo; ci si chiede insomma quanto possano giovare simili 'eventi', se è vero che restano irrisolte molte questioni legate tanto alla vicenda umana, quanto a quella artistica del Merisi.

Per non correre il rischio di scatenare le solite polemiche filologico-iconografico-attributive, nella mostra romana si è deciso di esporre solo opere 'universalmente' riconosciute; eppure proprio a mostra in corso è sorto il 'caso' della Presa di Cristo nell'orto,  della National Gallery di Dublino (fig 3) probabilmente ridimensionata a 'replica' a seguito della riapparizione, è il caso di dire, di una tela dello stesso soggetto ma di più ampie dimensioni, a suo tempo derubricata a copia da Roberto Longhi, ma risorta a nuova vita dopo un eccellente restauro e grazie alla tenacia di un noto antiquario romano. D'altra parte però qualche enigma è stato sciolto. E' il caso del capolavoro dipinto da Caravaggio per Ciriaco Mattei nel 1602, (fig 4) che, grazie al lavoro di Sergio Guarino, ora  non dovrebbe più dar luogo a problemi interpretativi: il giovane sorridente che abbraccia l'ariete è proprio un San Giovannino.


La scelta 'istituzionale' dei curatori della mostra romana (Rossella Vodret e Francesco Buranelli; ma va notata la presa di distanze dell'ex sovrintendente, nonché ideatore della mostra, Claudio  Strinati) ha comportato la rinuncia a dipinti 'discussi', quali, tra i più noti, il Ragazzo che sbuccia un melangolo (fig 5) la Maddalena in estasi (fig 6) la Vocazione dei santi Pietro e Andrea (fig 7); ci si chiede tuttavia quando si potrà arrivare a sciogliere, in un senso o nell'altro, la questione della autografia di questi dipinti, anch'essi capolavori, se non si è approfittato del confronto diretto con opere 'sicure' (ma abbiamo visto, poi mica tanto!) in questa circostanza. Si è notato, d'altro canto, in una iniziativa a carattere dichiaratamente 'istituzionale' l'assenza di studiosi tra i più noti e preparati tra i 'caravaggisti', quali, ad es., Ferdinando Bologna e Maurizio Marini, al quale ultimo peraltro si deve il repertorio più esauriente su Caravaggio e che non compare  neppure tra i ringraziamenti.



Diverso ma speculare il discorso per la mostra fiorentina. Qui, peraltro, bisognava tener presente che inevitabilmente sarebbe nato il confronto con la grande iniziativa curata quarant'anni fa da Evelina Borea, Caravaggio e caravaggeschi nelle Gallerie fiorentine .  E sotto questo punto di vista, occorre riconoscere subito i meriti del curatore, Gianni Papi, da tempo impegnato sul fronte degli studi caravaggeschi, con ricerche e scoperte che hanno rivoluzionato alcuni tradizionali impianti interpretativi (si pensi soltanto agli studi sulla fase romana di Ribera, culminati con l'identificazione -che però non trova ancora tutti gli studiosi concordi- nello 'Spagnoletto' del  Maestro del Giudizio di Salomone (fig. 8)) . E tuttavia, se la scelta 'istituzionale' dei due curatori romani ha privilegiato criteri restrittivi, a Firenze si è probabilmente esagerato all'incontrario. Forse nell'ansia di non farsi oscurare dall'evento delle Scuderie, si è andati oltre: da un parte, forzando, in saggi pure apprezzabili, dati documentari non ancora esaurienti per  cercare conferme a malsicure supposizioni (l'ipotizzato approdo fiorentino di Caravaggio, il mistero  della sua tragica morte, ecc) , dall'altro, presentando in mostra opere di incerto lignaggio e di attribuzione controversa. 

Il risultato è non già di aver chiarito aspetti ancora nell'ombra o dibattuti, bensì esattamente l'opposto. Pensiamo, ad es, alla ri-attribuzione a Caravaggio di un ritratto di cardinale (fig 9) ora creduto Benedetto Giustiniani, presentato invece a suo tempo (nella mostra La Regola e la Fama. San Filippo Neri e l'arte, Roma  1995) come Cesare Baronio da John Thomas Spike, che lo attribuiva a Caravaggio, con successo scarsissimo e consenso nessuno; oppure al Ritratto di Maffeo Barberini (fig.10) proprietà Corsini, già espunto da Longhi, ma accettato da altri valenti studiosi, tra cui, oggi, lo stesso Papi, Mina Gregori e Keith Christiansen, autore di una lunga scheda in catalogo, dove però, al di là di una conclamata sicumera,  manca la sola cosa che avrebbe smentito la non autografia caravaggesca, cioè la contestazione di un documento pubblicato nel lontano 1967 da C. D'Onofrio che attestava pagamenti del dipinto Corsini al pittore Niccodemo Ferrucci (un allievo del Passignano, 'modesto' secondo Papi, 'buono' secondo Marini); e tuttavia, se in questo caso si è platealmente sorvolato sul dato documentario per privilegiare, a conferma di un'ipotesi attributiva, la tecnica e la forza compositiva dell'opera, anch'essa risorta dopo un accurato restauro, non altrettanto si è fatto con il discusso Cavadenti (fig 11)  del tutto 'fuori linea' rispetto alla produzione caravaggesca post-romana, ma confermato, con un' insistenza quasi accorata dalla Gregori nella scheda, su base documentaria.



Compaiono poi numerose opere tratte dai depositi degli Uffizi e lodevolmente messe a confronto per una lettura esauriente; faranno certamente discutere due dipinti assegnati a Ribera, come San Pietro e San Paolo (fig 12) e San Paolo eremita, (fig 13) (in questo caso nella scheda prudentemente si è aggiunto 'e bottega') come farà discutere il 'passaggio' di certe attribuzioni da un artista ad una altro esclusivamente su basi stilistiche, come nel caso, per citarne solo uno, del famoso Suonatore di liuto (fig 14), ora assegnato interrogativamente a Simon Vouet, dopo una serie di attribuzioni ad artisti fiorentini.  Ma questo è nell'ordine delle cose, ed anzi è senz'altro positivo riproporre opere di una certa importanza, o di portarne alla luce altre di sicuro interesse, come nel caso del Ritratto di giovane con colletto a lattuga (fig 15) dato anche come  probabile Autoritratto di Cecco del Caravaggio; almeno di questo occorre dare atto Ma la sensazione di 'saturazione' e di stanchezza che ormai si percepisce intorno a simili 'eventi', rischia di generalizzarsi e suggerirebbe da adesso in poi molta prudenza: è quello che ci sentiamo di dover suggerire.
PDL




La sindrome di Caravaggio
La sindrome di Caravaggio si manifesta in maniera diversa a seconda  colpisca un comune mortale o un celebre studioso, eventualmente specialista riconosciuto dell’opera del sommo pittore lombardo.
Nel primo caso si avverte in maniera lampante, soprattutto se si è al cospetto dei dipinti dell’ultima fase, pregni di sangue e di dolore, di patimento e di morte, la presenza del male, una sensazione incombente che toglie il fiato ed induce a pensieri tristi e commendevoli. 
Nei bambini induce spesso un pianto disperato alternato a singhiozzi. Ne ebbi la conferma quando, in occasione della mostra napoletana sull’Ultimo Caravaggio, tenutasi alcuni anni fa a Capodimonte, le maestre si lamentavano di non poter portare in visita le loro scolaresche, perché la visione delle opere era traumatizzante per i pargoli. 
Anche io, col mio gruppo di Amici delle chiese napoletane, organizzai una decina di visite guidate ed i frequentatori avevano un’età media di settant’anni, eppure l’effetto non era dissimile, incubi notturni nei giorni successivi, che colpivano prevalentemente  signore  d’annata e sensazioni di angoscia, che perduravano settimane anche in generali in pensione e attempati professionisti e magistrati.
Una sottovariante della morbosa patologia, una sorta di sindrome di Stendhal al massimo grado, si avverte poi nel guardare la celebre Medusa degli Uffizi, un quadro straordinariamente bello ed orrifico in egual misura, che induce una vertigine di sensazioni terebranti da indurre la perdita dell’equilibrio, mentre alcuni soggetti urlano a squarciagola.
Ma lo scopo di queste brevi considerazioni sulla sindrome era a margine dell’esaustivo articolo dell’amico Pietro Di Loreto sull’ondata incontenibile di nuove attribuzioni a Caravaggio di quadri assolutamente inadeguati,  da parte di critici anche di fama internazionale.
Si potrebbe ipotizzare un motivo meramente economico alla base di questa mania attribuzionistica, perché un quadro che diventa Caravaggio al posto di copia o di ignoto caravaggista aumenta di oltre mille volte il suo valore venale. Da poche decine di migliaia di euro a svariate decine di milioni. Invece l’ansia incontenibile che spinge a dare la paternità del Merisi a quadri improbabili è dettata unicamente dal desiderio per ogni studioso di divenire famoso per la scoperta, carpendo la celebrità dell’artista. 
Non si potrebbero spiegare altrimenti errori clamorosi del passato: uno fra tutti quello di battersi per l’autografia del Cavadenti, un quadro di una mediocrità sconcertante, da parte di una studiosa dell’autore riconosciuta internazionalmente come Mina Gregori. 
Ed all’incontrario la vicenda del Martirio di S. Orsola, già di proprietà della sede napoletana della Banca Commerciale(non inseguiamo di chi è ora dopo infiniti accorpamenti tra istituti di credito), che nonostante richiamasse a viva voce l’autografia, anche per la presenza in primo piano dell’autoritratto del pittore, è rimasta  a lungo nell’anonimato o sotto nomi assurdi come il Preti, prima della decisiva scoperta dei documenti.
Alla mostra attualmente a Firenze, affianco a capolavori, si presentano due nuovi Caravaggio…, mentre l’ultima rivista di storia dell’arte ne presenta addirittura sette.
Dobbiamo giustamente dire Basta!!!, un minimo di serietà ci vuole.
Gli studiosi affetti dalla sindrome e sono molti farebbero meglio a farsi curare da uno psicanalista, invece di vaneggiare con nuove  sensazionali scoperte.
P.S. Sulla mostra fiorentina fa testo il competente commento del professor Di Loreto, vorrei solo aggiungere, da napoletanista immarcescibile, un parere sui due pseudo Ribera: il primo è copia da un originale perduto, il secondo è di un ignoto spagnolo, contemporaneo del valenzano, di cui non mi sento di dare un nome preciso.
AdR


di Achille della Ragione e Pietro Di Loreto

Un nuovo libro sui misteri di Napoli

7/6/2010

Su personaggi napoletani celebri e misteriose leggende sulla città esistono infiniti libri da riempire una sterminata biblioteca, ma il nuovo:” Napoli, uomini, luoghi e storie della città smarrita”(Intra moenia editore), scritta a quattro mani da Antonio Emanuele Piedimonte ed Arianna Scognamiglio getta nuova luce sull’argomento ed attraverso 40 itinerari scandaglia una Napoli senza tempo e permette di conoscere storie e leggende, luoghi e palazzi, fiabe ed inchieste.
Rivivono come d’incanto antichi teatri e mitici caffè, stanze segrete e storie misteriose, vicende torbide di sesso ed esempi di santità, luoghi poco noti come il giardino segreto della medium Eusapia Palladino e monumenti sgarrupati, ma pregni di storia palpitante come il palazzo Donn’Anna o l’Albergo dei poveri.
Un viaggio nel nostro glorioso passato per approfondire la nostra civiltà millenaria e quale migliore viatico di successo della seducente copertina, nella quale si staglia procace un’affascinante sirena. La fontana delle zizze, una statua che pochi conoscono nonostante si trovi nel cuore della città a due passi dell’università

Le battaglie di Andrea De Lione

1/6/2010


Il capitolo del De Lione battaglista è lungi dall’essere delineato con precisione, anche se negli ultimi anni la critica gli ha restituito una serie di dipinti precedentemente assegnati al maestro Falcone, come nel caso della Battaglia con due cavalieri in primo piano a sinistra (tav. 1), di collezione privata napoletana, nella quale all’orizzonte svetta l’identica montagna che compare nella Battaglia con David e Golia (tav. 2) conservata nel museo di Capodimonte o la Scena di Battaglia interpretata anche come Conversione di Saulo (tav. 3) transitata di recente come inedito presso la Dorothem di Vienna, ma già pubblicata da Brejon de Lavergnèe.


L’ansia di restituire al De Lione delle opere ha portato anche a degli errori clamorosi da parte di specialisti dell’artista come la Novelli Radice, che gli assegnava gli affreschi di Villa Bisignano, già dimora del celebre mercante Roomer ed alcuni disegni sicuramente eseguiti dall’Oracolo, come la Morte di Saul (fig. 1) del museo del Louvre o il Combattimento tra Turchi e Cristiani (fig. 2) dello Staatlische Museen di Berlino.


A tal proposito invitiamo ad esaminare attentamente l’affresco raffigurante la Battaglia tra Israeliti ed Amalechiti (fig. 3) nel quale compaiono assieme tutti i caratteri distintivi del Falcone, dal cavallo rampante alla vezzosa coda con le treccine, dal caduto in primo piano(presente anche nel disegno parigino) alla collinetta col cespuglio che rammenta la Solfatara, dalla selva di lance al guerriero urlante (fig. 4), ripresa puntuale del Presunto ritratto di Masaniello (fig. 5), per via di una scritta apocrifa, della Pierpont Morgan Library di New York, uno splendido esito di straordinario vigore e dallo stupefacente impatto visivo, secondo il Saxl un adattamento di un disegno di Leonardo eseguito in vista della realizzazione della battaglia di Anghiari. La scoperta dell’affresco e la sua data di esecuzione al 1647, in coincidenza con la rivolta del famoso capopopolo, rende tra l’altro alquanto improbabile l’identificazione del foglio come ritratto e non come semplice studio preparatorio.


Gli inizi del De Lione, non solo nel campo dell’affresco, ma anche sul tema specifico della battaglia, avvengono nella bottega del Corenzio, assieme al fratello Onofrio, a tal punto che parte della critica più avvertita tende a ritenere che alcuni scompartimenti nella sala degli ambasciatori nel Palazzo Reale di Napoli possano essere stati eseguiti da Andrea, ad esempio la Battaglia contro i Mori (tav. 4) e secondo il De Vito anche la Conquista delle Canarie (tav. 5) e Alfonso re del Portogallo in Castiglia (tav. 6).
Entrato nella bottega falconiana Andrea si distingue, pur nel rispetto formale e nell’uso di tipologie del maestro,  nell’assimilazione dell’estrosa eleganza, inventiva e pittorica del Castiglione, presente in città nel 1635, prediligendo una maggiore libertà espressiva e l’utilizzo di una tavolozza dai colori vivaci nella quale “ squillanti tocchi di azzurro, rosso e verde accendono i toni dal bruno al rossiccio tipici della tavolozza napoletana”(Creazzo).
L’influsso del Castiglione segnerà il suo stile per circa un ventennio, a seguito probabilmente di una collaborazione nella bottega romana del genovese, ipotizzata, ma solo parzialmente documentata e sarà palpabile in tutta quella serie di dipinti che faranno di Andrea, prendendo a prestito la felice definizione del Soria, il Maestro delle scene bucoliche.
Una caratteristica che possiamo constatare nella sua pittura, che lo differenzia dal maestro è “lo sfoltimento delle figure, preferibilmente riprese di profilo anziché in profondità e con una più rifinita ricerca di stilizzazione”(Sestieri).
Se ritorniamo alla Conversione di Saulo (tav. 3), alla quale possiamo collegare la più modesta tela di identico soggetto (fig. 6) transitata a Roma presso Finarte nel 1974, possiamo evidenziare il prelievo dal Falcone del classico polverone, che si confonde col cielo, l’accuratezza nella resa espressiva dei volti e dei brani dal naturale, mentre domina una certa asimmetria nella rappresentazione degli spazi. Ricca è l’ambientazione paesistica, potente il dinamismo dei personaggi, accurata la definizione dei chiaroscuri e dei dettagli cromatici intensi nel bianco e nel blu che potenziano la tavolozza. La presenza sullo sfondo del Cristo tra gli angeli dà un tocco di sacralità all’episodio incentrato sui due uomini intenti a soccorrere Saulo caduto dal cavallo. Il soggetto sacro diviene così un” mero pretesto per rappresentare la forza dei cavalieri in azione e i movimenti di armature e cavalli impennati” (Compagnone). Alla luminosità del cielo si contrappone il colore bruno della terra, piena di figure e con un cane in primo piano.


Il diverso stile del De Lione si può cogliere chiaramente nella famosa Battaglia contro i Turchi (tav. 7) del Louvre, firmata e datata 1641, la quale costituisce una testimonianza basilare dell’evoluzione in senso grechettiano del pittore e permette di creare una sorta di ideale spartiacque per una pertinente collocazione temporale, precedente o successiva, della sua produzione. Al dipinto si può accostare un San Giacomo alla battaglia di Clavijo, siglato, transitato presso la Finarte di Roma, il quale è talmente simile a quello in esame da poter essere identificato come il suo pendant e due quadri molto simili,  raffiguranti una Battaglia fra Cristiani e Turchi (fig. 7), il primo di collezione privata milanese, il secondo (fig. 8), siglato, in una raccolta napoletana. In entrambi un groviglio di corpi intrecciati spasmodicamente ed i cavalieri turchi che rovinano a terra incalzati da armigeri e piccoli fanti dotati di archibugio.


L’episodio descritto, frazionato in vari episodi, culminanti con la conquista di una vetta, nasconde probabilmente un episodio storico preciso di difficile individuazione. Nella composizione spicca la figura dell’arciere (tav. 10) identica nella Battaglia tra Ebrei ed Amalechiti (tav. 8) del museo di Capodimonte di molti anni più tarda.
Il De Vito ha sottolineato la presenza di colori come l’ocra, il verde stinto, il rosso brillante ed il giallo verdognolo e la maniera più libera nel proporre volti ed emozioni, come nei dipinti di argomento biblico bucolico, che vanno collocati ad anni successivi.


Gli inizi del De Lione battaglista vanno ricercati nelle tele pendant già in collezione Nicolis a Torino, l’una firmata, l’altra siglata, che furono presentate alla mostra Civiltà del Seicento. Esse rappresentano la Battaglia tra Ebrei ed Amalechiti ( tav. 9) e L’Assalto ad una città fortificata con navi che sbarcano soldati (fig. 9). Entrambe sono caratterizzate da una inedita soluzione compositiva con “ il primo piano occupato da una mischia di cavalieri seduti su imponenti cavalli, mentre il secondo piano e lo sfondo sono popolati da una ressa di cavalli minuscoli” (Brejon de Lavergnée). Del tutto assente l’influsso del Castiglione che caratterizzerà i suoi lavori successivi, mentre tangibili sono dei prelievi letterali dalla produzione del Falcone, come nel caso di Giosuè, ritratto in alto a destra su di una collinetta o nel personaggio munito di corazza che afferra la briglia di un cavallo nemico, presente simile nella celebre tela del maestro nel museo del Louvre.


Altre due tele da collocare prima dell’incontro col Grechetto, molto vicine a quelle già Nicolis,  sono le due gemelle apparse sul mercato antiquariale e poi confluite nella collezione Barracco a Napoli, con la sigla ADL apposta sulla groppa del cavallo e con le figure “un po’ legnose ed impacciate anche se correttamente illuminate secondo le regole della scuola locale intorno agli anni ’30, risalente a Caravaggio” (De Vito).




Salviamo subito Villa Bisignano

26/5/2010


“Villa Bisignano è una perla del Barocco smarritasi in un mare di degrado in uno dei quartieri periferici della città: Barra. Essa fu nel Seicento dimora di Gaspare Roomer, ricchissimo mercante, proprietario di una delle più importanti collezioni d’Europa, ricca di oltre mille dipinti. Nel Settecento il palazzo fu proprietà del principe di Bisignano, che l’arricchì ulteriormente di colonnati, fontane, scaloni ed uno straordinario orto botanico. La villa, oggi, proprietà comunale, ospita un plesso scolastico, mentre 4-5 famiglie hanno occupato abusivamente il resto del palazzo. 
Trattandosi di Napoli un abuso quasi normale, ma tra gli ambienti occupati c’è l’antica biblioteca, che raccoglie un prezioso ciclo di affreschi del famoso pittore Aniello Falcone, miracolosamente scampato. La famiglia impossessatasi dei locali respinge vigorosamente qualsiasi visitatore, inclusi i professori di storia dell’arte della scuola, mentre numerosi piccioni coabitano nell’abitazione e sull’elegante porticato sono state erette abusivamente delle verande. Uno scandalo macroscopico che grida vendetta, possibile solo a Napoli. 
Della triste vicenda avevo informato, sfruttando una personale amicizia, il sottosegretario Sgarbi, il quale aveva promesso il suo immediato intervento. Purtroppo dopo due giorni, per le note vicende politiche, l’onorevole è decaduto dall’incarico, per cui non ci resta che indirizzare il nostro accorato grido di dolore al sovrintendente Nicola Spinosa, di cui è noto l’attaccamento ai beni consegnati alla sua tutela, ma soprattutto è proverbiale la focosa grinta con la quale sa difenderli, per cui possiamo attendere fiduciosi”.
Questa lettera è di una sconfortante attualità come dimostrano gli articoli comparsi su alcuni quotidiani napoletani nei giorni scorsi, i quali, in occasione del maggio dei monumenti, increduli, accennavano alla vicenda, parlando di leggenda metropolitana, come se si trattasse dell’invenzione di una sfrenata fantasia.
Si tratta purtroppo di una triste e perdurante verità e l’unico cambiamento è stato il pensionamento del sovrintendente, per il resto, tutto è rimasto invariato, come denunciavo in un’accorata missiva(quella tra virgolette) pubblicata il 29 settembre 2002 da Il Mattino e nei giorni successivi da altri quotidiani napoletani.

P.S. allegate tre foto degli affreschi dal mio libro Aniello Falcone opera completa, che riuscii a scattare dando del denaro al turpe occupante, il quale permise anche una frettolosa visita della sua… casa agli Amici delle chiese napoletane, l’associazione fondata da mia moglie Elvira.    
     

Fuoco su Napoli

22/5/2010
Un rutilante romanzo verista di Ruggero Cappuccio




Dopo Gomorra scrivere a Napoli e su Napoli è divenuto difficile, perché gli editori chiedono insistentemente storie di camorra con la speranza di ripetere il best seller, mentre gli scrittori cercano di seguire il filo dell’ispirazione. 
Ruggero Cappuccio nel suo Fuoco su Napoli trova la formula giusta, adoperando la forma del romanzo fantastico, intriso di una prosa  forbita ed elegante, per restituirci una spietata indagine socio antropologica sulla sfortunata città e sui suoi maldestri abitanti.
Immagina che Diego, il protagonista della storia, un camorrista pseudo perbene,  sia riuscito a sapere una notizia sconvolgente: tra cinque mesi i Campi Flegrei erutteranno cenere e lapilli, distruggendo gran parte di Napoli e dintorni. 
Minacciando gli scienziati riesce a fare in modo che nulla trapeli del nefasto evento e si scatena, attraverso gli agenti immobiliari ad una gigantesca speculazione, vendendo le sue case ed i suoi negozi situati in zone che verranno distrutte ed acquistandone altrettanti in quartieri che non saranno interessati dalla calamità naturale. 
Il risultato sarà uno spropositato arricchimento personale, ma anche la realizzazione di un sogno, l’avverarsi di una palingenesi: ricostruire la città a misura d’uomo, restituendole vivibilità e dignità, dopo secoli di devastazioni e di scempi edilizi.
Con il pretesto dello fantasia, l’autore indaga su Napoli ed i napoletani, presentando un quadro sconfortante di anarchia e di sfacelo morale, che ha colpito principalmente la borghesia, responsabile di essere venuta a patti con la plebe, ma soprattutto con la criminalità più o meno organizzata.
Dio non abita più qui è la conclusione sconsolata del lettore, ma ci penseranno le fiamme ardenti del vulcano a rimediare, creando le condizioni per la rinascita di un’antica civiltà.

Il ministro credeva di stare a Napoli

22/5/2010

Napoli ed i napoletani hanno un cuore grande e talune abitudini di vecchia data non sono state incrinate dall’egoismo e dall’indifferenza oggi imperanti. Basta recarsi in qualsiasi caffè del centro storico, naturalmente non elegantemente vestiti, e chiedere se vi è qualche caffè “sospeso”. 
Quasi sempre la risposta sarà positiva e il poveraccio potrà sorbire con calma la preziosa bevanda, ringraziando col pensiero il generoso quanto sconosciuto donatore, che ha pagato anche per chi non può pagare. Probabilmente il nostro ministro, fortunatamente ex, credendo di stare a Napoli, aveva cominciato a girare per gli studi notarili, chiedendo se qualcuno avesse acquistato una casa o almeno mezza per uno sconosciuto bisognoso. Ma non si trovava nella nostra città, altrimenti alla prima richiesta sarebbe stato apostrofato, senza cattiveria: “Ca nisciuno è fesso”. 

Mille giovani al giorno da 150 anni

20/5/2010

150 anni fa mille giovani garibaldini si imbarcarono da Quarto per andare al sud a fare l’Italia, da allora ogni giorno, ininterrottamente, mille giovani sono costretti a compiere il percorso inverso dal sud verso il nord, alla ricerca di un lavoro e di un futuro decente, perché la vecchia patria non esiste più e la nuova non ha voluto o non  è stata in grado di procurarglielo. 
L’emorragia continua imperterrita con alti e bassi; una sorta di genocidio silenzioso che raggiunse un picco negli anni Sessanta, ma che da tempo ha ripreso lena, privando le regioni meridionali delle migliori energie, dei laureati con lode e di tutti coloro che si sentono ingabbiati nelle maglie di una società pietrificata.  
Tante generazioni perdute che hanno lasciato il sud in balia di politici corrotti, amministratori inefficienti ed eterne caricature di Masaniello. 
Il fiume di denaro pubblico che lo Stato ha elargito per decenni è stato clamorosamente dilapidato, usato, non per investimenti produttivi, ma unicamente per consolidare un vacuo consenso elettorale, perpetuando il proliferare di squallide oligarchie locali, di cricche e di camarille colluse con la criminalità organizzata.
E mentre ogni anno trecentomila garibaldini alla rovescia sono costretti a lasciare gli affetti ed il luogo natio per cercare altrove la dignità di esistere, l’incubo della crisi economica e del federalismo fiscale rischia di far deflagrare una situazione esplosiva tenuta in coma da flussi di denaro a perdere. 
Se l’idea di eguaglianza e di solidarietà dovesse cedere il passo ad una deriva separatista al sud non resterà che cercare di capeggiare una federazione di stati rivieraschi del Mediterraneo, di mettersi a capo di popoli disperati, avendo come punti di riferimento non più Roma, Milano e Bruxelles, bensì Tripoli, Algeri ed Alessandria d’Egitto.

Carlo Carafa un illustre personaggio della Napoli seicentesca

19/5/2010

Era il 1977, sembra ieri, invece è trascorsa gran parte della mia vita, la professione andava a gonfie vele, per cui con mia moglie Elvira decidemmo di poter acquistare un po’ di quadri del Seicento napoletano, del quale eravamo appassionati.
Avevo l’abitudine di acquistare il Mattino il sabato notte per poter leggere in anteprima la rubrica delle vendite. All’epoca i tanti giornali come Bric brac o Fiera città non esistevano e l’unico modo per fare un affare era quello di telefonare prima degli altri. Fui attratto da un annuncio originale: ”Vendo 13 quadri del Seicento 13 milioni”. Pareva una vendita a peso e la curiosità si mischiò alla meraviglia quando scoprimmo che l’ignoto venditore abitava nella Pignasecca, uno dei tanti quartieri diseredati della città.
Preso l’appuntamento esitavamo a salire. Era un palazzo buio e puteolente alle spalle dell’ospedale dei Pellegrini, senza ascensore e bisognava raggiungere il quinto piano. Ci facemmo coraggio e salimmo. Ci ricevette uno zotico dal volto patibolare, che ci mostrò le tele accantonate in un angolo della cucina. 
Scoprimmo che il personaggio era un impiegato dell’istituto delle Opere pie di Napoli ed aveva acquistato i quadri per una mangiata di fave ad un’asta giudiziaria provocata dalla richiesta della giunta Valenzi di tributi arretrati. 
I dipinti erano in pessimo stato di conservazione, ma avevano delle cornici molto appariscenti. Chiedemmo di poter tornare con un esperto e l’improvvisato venditore ci ingiunse di fare presto, perché aveva bisogno di spazio dovendo a giorni fare le bottiglie di pomodoro.
Tempo ventiquattro ore ed eravamo di nuovo alla carica accompagnati dal dottor Ciro Fiorillo, funzionario della sovrintendenza, che ci fece scegliere sei quadri. Ricordo uno in particolare che disse di comprare, anche se si sarebbe dovuto buttare la tela, ne sarebbe uscito uno splendido specchio, invece poi il restauro riesumò un lavoro di Giovan Bernardo Lama.
Tra questi acquisti ero stato attratto da un austero personaggio(fig. 1) che contavo di spacciare con gli amici per un celebre antenato, ma la pulitura evidenziò una scritta in latino dalla quale trapelava l’identità del soggetto: Carlo Carafa, il fondatore della Congregazione dei Padri Pii Operai. Il nobiluomo è raffigurato nell’atto del comando con l’indice della mano sinistra rivolto verso l’alto e con nella mano destra una bacchetta impugnata in senso d’autorità.
Non potendo trasformarlo in un trisavolo mi dedicai a studiare la sua vita, raccogliendo qualche notizia inedita che voglio ora trasmettere ai miei pochi ma affezionati lettori.
Carlo Carafa apparteneva alla famosa famiglia napoletana, che con i Caracciolo ed i Capece, costituirono le famose tre”C”(non quelle del caffè) del vicereame, che ora alleate, ora nemiche del popolo, crearono la leggenda di Napoli fedelissima alla corona di Spagna. Egli nacque nel 1561 a Mariglianella di Nola da don Fabrizio Carafa e da donna Caterina di Sangro. Rimase orfano a cinque anni e stette in collegio dai Gesuiti. Entrò poi nella Compagnia di Gesù, ma dovette uscirne perché malato di tubercolosi. Ristabilitosi dopo energiche cure si dedicò sorprendentemente alla carriera militare.
A 23 anni divenne capitano di fanteria nella guerra contro i Luterani nelle Fiandre e contro i Turchi, liberando la città di Patrasso.
Ritornato a Napoli, dopo essersi lasciato trasportare, per un periodo, dal “bollore delle passioni” e dai cattivi esempi tipici delle milizie, decise di prendere l’abito di Chiesa; ritornò a studiare Filosofia e Teologia: il primo Gennaio del 1600 venne ordinato sacerdote.
Dopo aver a lungo meditato in solitudine in una grotta di tufo naturale ai piedi della collina di San Martino fu nominato dall’Arcivescovo di Napoli, nel 1602, Visitatore generale della sua Diocesi. I mesi di isolamento e preghiera gli fornirono la forza necessaria per travolgere la città con la sua battaglia in favore dei poveri, dei diseredati e delle donne perdute. In questo periodo fondò il Conservatorio delle Illuminate, detto poi del Soccorso. 
Si distinse per la dedizione che dava agli ammalati dell’Ospedale degli Incurabili di Napoli, impegno che continuò per tutta la vita, anche se non più a tempo pieno. 
Insieme ad alcuni sacerdoti napoletani, iniziò nel 1602 la predicazione di missioni rurali, percorrendo a piedi i paesi e le contrade dei dintorni di Napoli, sollevando gli oppressi, istruendo gli ignoranti, confortando i moribondi, istituendo conservatori e orfanotrofi, fondando chiese e conventi in Napoli e provincia. 
Istituì così nel 1602 la Congregazione della Dottrina Cristiana, che nel 1621 cambierà il nome in Congregazione dei Pii Operai, con lo scopo dell’assistenza e istruzione della gente rurale delle campagne e dei sobborghi della città, che era maggiormente abbandonata. 
Nel 1606 costruì il Santuario della Madonna dei Monti ai Ponti Rossi in Napoli, che divenne la culla della nascente Congregazione e il noviziato dei Pii Operai. Lo sviluppo della Congregazione permise l’apertura di altre case e di chiese a loro affidate, come la chiesa di S. Giorgio Maggiore in via Duomo a Napoli, di S. Nicola alla Carità in via Toledo nel centro di Napoli e a Roma S. Balbina, S. Maria ai Monti e S. Giuseppe alla Lungara. 
Nella sua molteplice attività padre Carlo Carafa evangelizzò le tribù di zingari accampati, allora come oggi, nella periferia della città, assisteva i condannati a morte; cercò inoltre di istruire e convertire gli schiavi maomettani e di far cambiare vita ad infinite meretrici, per le quali fondò appositi ricoveri. Fu l’artefice della grande processione penitenziale da lui guidata per le strade di Napoli, per impetrare la cessazione della disastrosa eruzione del Vesuvio del 1631, fu tanta la partecipazione a quella penitenza, che moltissimi peccatori si convertirono e presero a confessarsi in massa dai Pii Operai nella Chiesa di S. Giorgio Maggiore, altrettanto fecero un gran numero di meretrici, per le quali fu necessario fondare un altro conservatorio detto poi dal popolo “delle Pentite”. 
Sembrava non avesse mai un momento libero; la sua vita era spesa interamente per il prossimo; fu più volte Preposito Generale del suo Ordine, ma quando nel 1633 lo volevano rieleggere, egli rifiutò, dicendo che voleva prepararsi da suddito alla morte, che profetizzò doveva avvenire in quell’anno, infatti morì l’8 settembre 1633 a 72 fra il compianto generale dei napoletani.
Il suo corpo riposa nella Chiesa di S. Nicola alla Carità in Napoli ed è meta tuttora di numerosi devoti.
La sua Congregazione ebbe uno sviluppo notevole fra Napoli, Roma e dintorni nei secoli XVII e XVIII; nel 1656 sfiorò l’estinzione, quando tutti i suoi membri, nell’assistere gli appestati, contrassero la malattia morendo, solo quattro sopravvissero. 
Con le soppressioni napoleonica e post-garibaldina, l’Istituto perse le fonti di sostentamento dell’immensa opera caritatevole che svolgeva e dovette chiudere le varie Case e Opere; nel 1943 la Santa Sede univa ai Pii Operai la Congregazione dei Catechisti Rurali (Missionari Ardorini), fondata dal servo di Dio don Gaetano Mauro. 
Oggi la Congregazione ha assunto il nome di Pii Operai Catechisti Rurali (Missionari Ardorini), per continuare nel presente e nel futuro, le gloriose tradizioni di santità e di servizio alla Chiesa ed alle anime che nei secoli l’ha contraddistinta. 
Un napoletano illustre le cui gesta pochi oggi conoscono e che merita di essere ricordato.

Ripristinare la scelta del candidato

17/5/2010

prima di parlare di norme anticorruzione è impellente ripristinare la libertà per il cittadino di scegliere i suoi rappresentanti in Parlamento, abolita da tempo con una sorta di colpo di Stato. Una necessità inderogabile che permetta all’elettore di giudicare il comportamento dei politici, i quali attualmente non devono rispondere a lui, spogliato di ogni potere decisionale, ma unicamente alle segreterie dei partiti, divenuti oramai organi privi di democrazia interna, dipendenti dal volere insindacabile del padre padrone, grande o piccolo che sia.
L’assenteismo crescente ad ogni appuntamento alle urne dipende dalla constatazione che con il voto non si riesce a determinare l’andamento della vita politica e la campagna elettorale si riduce alla stanca ripetizione di slogan preparati da uffici pubblicitari sulla base di sondaggi.
La sensazione di impunità che induce alla corruzione generalizzata dipende in egual misura dalla certezza di non dover fornire spiegazioni all’elettorato e dalla incresciosa sensazione di una giustizia confusionaria in grado, in fase istruttoria, grazie alla grancassa dei mass media, di attirare l’attenzione su casi emblematici, spesso irrogando ingiustificati periodi di detenzione a persone poi ritenute innocenti, ma nella sostanza, dovendo rispettare tre gradi di giudizio con tempi biblici, alla fine le pene irrogate, quando pure si riesce ad incolpare qualcuno, sono risibili e non incutono alcun timore reverenziale.

Onofrio De Leone un frescante alla corte del Corenzio

15/5/2010

Onofrio nasce a Napoli nel 1608, fratello maggiore e collaboratore del più famoso Andrea nei cicli ad affresco.
Allievo di Belisario Corenzio lavorò in parecchie imprese decorative del maestro, seguendone pedissequamente lo stile.
Si sposò nel 1642 con Isabella Sangervasio ed in seconde nozze, nel 1651, con Candida Falcone, sorella di Aniello.
Le sue opere sono tutte a Napoli in chiese e palazzi nobiliari.
Fu impegnato certamente negli affreschi per la sala degli ambasciatori di Palazzo Reale a Napoli, ma la critica non ha ancora identificato con certezza le parti a lui spettanti. Dipinse inoltre due dipinti per una cappella.
In molti lavori è arduo distinguere le mani dei due fratelli e spesso la critica si basa sulla qualità dell’affresco, prediligendo il più quotato Andrea. 
La Novelli Radice ha pubblicato una serie di documenti, nel 1635 e nel ‘36 per affreschi perduti nella chiesa di S. Maria Apparente, nel ’37 in collaborazione con un ignoto quadraturista, tale Domenico Migliacci, per pitture nella casa di Chiaia della duchessa Felice Maria Orsini; infine nel ’43 e nel ’44 per la decorazione di quarantotto ventagli da inviare in Spagna, a dimostrazione che Onofrio era disponibile anche per commissioni di tipo artigianale.
Tra le opere che gli vengono attribuite, ricordiamo nella cappella San Sebastiano in San Pietro a Maiella, eseguite nel 1643 il Miracolo di San Francesco di Paola (fig. 1) e il Miracolo della mula di S. Antonio (figg. 2 – 3 – 4). In questi affreschi le figure sono poste in artificiosi fondali scenografici prive di dinamicità con una funzione puramente illustrativa.



In S. Maria la Nova l’unica scena superstite è il Patto di Assisi, nella cappella di San Francesco, nel quale si palpa un tocco di animazione popolaresca, che indusse il Causa ad assegnargli un San Gennaro esce illeso dalla fornace (fig. 5) della quadreria dei Gerolamini, precedentemente creduto di Niccolò De Simone, una tela modesta ispirata certamente al grande rame eseguito nel 1642 dal Ribera per la Cappella del Tesoro di San Gennaro, di cui riprende il personaggio in fuga con le mani a ventaglio ed i corpi dei guerrieri a terra tramortiti dal prodigio e di conseguenza collocabile cronologicamente intorno alla metà del quinto decennio. Anche in questo dipinto si coglie nella rappresentazione una certa staticità ed una reiterazione di attardati moduli manieristici. 

Nella chiesa di San Paolo nel cupolino del vestibolo della seconda cappella della navata sinistra era affrescato un Paradiso oramai illeggibile, come pure scomparso negli eventi bellici dell’ultima guerra il grande affresco sotto la volta raffigurante il Trionfo della croce nella chiesa di S. Patrizia.
Il ciclo più integro che si conserva del pittore è quello nella sacrestia della chiesa dei SS. Severino e Sossio, firmato e datato 1651, dove egli decorò con scene del Vecchio Testamento le volte e le pareti. Il riquadro più noto è quello raffigurante la Battaglia di Sennacherib (fig. 6), dove, nell’affollata composizione si può leggere una certa drammaticità degli atteggiamenti, anche se sono ripetuti moduli tardo manieristici ispirati al Corenzio ed al Cavalier D’Arpino. Leggermente più moderno è il Convito di Baldassarre (fig. 7), nel quale si può apprezzare qualche vago richiamo stanzionesco.

Un documento di pagamento del 1652, pubblicato da Nappi, per alcuni angioletti in un affresco del Falcone ci conferma la sua partecipazione col fratello alla bottega dell’Oracolo.
La critica, a partire dal De Dominici, non ha molto apprezzato i suoi lavori, per cui la sua fama è stata sempre molto modesta: “non fu corretto né il migliore dei suoi scolari(del Corenzio); dappoichè egli non fu pittore di molta stima” mentre Andrea” fu più studioso e riuscì migliore di lui”.
L’unica studiosa che si è dedicata ad approfondire la sua opera è stata la Novelli Radice, autrice di tre contributi (1976 – 1988 – 1991) sull’artista sulle pagine di Napoli nobilissima.
Morì con la peste del 1656 e lasciò i suoi averi al fratello Andrea che gli sopravvisse per quasi trenta anni.

Foto di Dante Caporali
Bibliografia 
De Dominici B. –  Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, III, pag. 317 – Napoli 1742 – 45 
D’Addosio G. – Documenti inediti di artisti napoletani del XVI e XVII secolo dalle polizze dei banchi, in Archivio storico per le province napoletane XXXVIII,pag. 243 – Napoli 1913
Prota Giurleo U. – Pittori napoletani del Seicento, pag. 63 - 66 – Napoli 1953
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