martedì 17 dicembre 2013

Le Modalità di Resistenza al Contatto



La qualità del contatto dipende dal tipo e dall’entità dei meccanismi di difesa che mette in atto
la persona quando entra in relazione. In gestalt, tali meccanismi di difesa sono chiamati
modalità di resistenza al contatto. Tale modalità sono patologiche soltanto nel momento in cui
sono croniche e abituali e sono utilizzate per evitare il contatto. Esse sono:

  • la confluenza,
  • la proiezione,
  • la retroflessione,
  • l’introiezione
  • e la deflessione

Nella confluenza si vive un rapporto simbiotico con l’altro e non vi è reale percezione del confine Sé -altro da Sé: è una sorta di “simbiosi” dell’individuo con la comunità, madre, compagna. Segna l’appartenenza, la comunione. Il “ritiro” che segue, permette di riprendere possesso del “confine-contatto” e di ritrovare la singolarità e differenza. La confluenza si incontra anche in molte coppie, in cui ciascuno dei due partner non si autorizza alla minima attività autonoma, vissuta come tradimento. A livello sociale si assiste, analogamente, a tutte quelle adesioni secondo fanatismo e dogmatismo senza alcuna differenziazione autentica. Il terapeuta lavorerà sul territorio di ciascuno e sul confine al fine di autorizzare il soggetto confluente a emanciparsi senza il timore di essere abbandonato. La confluenza è, pertanto, patologica soltanto se la percezione di qualcosa non porta ad una discriminazione dei punti di diversità e di unicità che la distinguono. Le parti in precedenza separate vengono legate, ma senza la creazione di qualcosa di funzionale. Il terapeuta lavorerà sul territorio di ciascuno e sul confine al fine di autorizzare il soggetto confluente a emanciparsi senza il timore di essere abbandonato.

Nella proiezione attribuiamo all’altro aspetti, bisogni, emozioni, pensieri che invece appartengono a noi. E’ la tendenza ad attribuire all’ambiente la responsabilità di qualcosa che trae origine da sé, ad esempio il paranoico diffidente rimprovera a tutti coloro che lo circondano l’aggressività che lui stesso proietta sugli altri. Esiste, comunque, una proiezione “sana” che permette la comprensione degli altri. L’intervento terapeutico è facilitato dal
lavoro di gruppo mediante il quale avviene il confronto e la presa di coscienza: infatti, in esso si instaura un rapporto di autenticità e di solito il “proiettore”, si riconosce.

Nella retroflessione si rinuncia a qualsiasi tentativo di influenzare il nostro ambiente, diventando entità autosufficiente: io invado il mio stesso mondo interno (io mi amo troppo= retroflessione). Si rivolge a se stessi l’energia mobilitata, nel fare a sé ciò che vorremmo gli altri ci facessero.
La maggior parte degli impulsi retroflessi contiene aggressività e da ciò che ha origine il senso di colpa. la terapia, nella retroflessione, consisterà nell’incoraggiare qualsiasi espressione delle emozioni, amplificare quest’ultime, laddove è opportuno fino a una catarsi liberatoria, grazie anche ad oggetti transazionali, simbolici, rappresentando la persona odiata/amata.

Nell’introiezione l’individuo si sente soddisfatto di sé se fa coincidere i propri bisogni con quelli dell’altro o dell’ambiente. Attraverso le introiezioni, la cultura ci trasmette le norme, i codici di comportamento, il linguaggio. L’introiezione definisce dentro di noi i «devo» e i «non devo», che rendono accettabili o inaccettabili le nostre idee, i nostri valori, le nostre azioni.
La persona, quando usa l’introiezione, si adatta passivamente all’altro e alle situazioni che ne derivano. Utilizza molte energie per minimizzare le inevitabili differenze dall’altro e per spegnere l’aggressività che serve per discriminare ciò che va assimilato da ciò che va rifiutato.
Se gli altri agiscono in un modo contrastante dal suo, preferisce adeguarsi agli altri per non contrapporsi. Ad esempio, una persona può avere introiettato «devo essere responsabile nel mio lavoro». Qualora si trovasse oberato dal troppo lavoro, perché i colleghi hanno scaricato su di lui anche il proprio lavoro, e se la persona vive l’introiezione in modo rigido e non flessibile, si sentirà in dovere di farsi carico anche del lavoro che gli altri gli hanno passato, per adeguarsi alla sua forte norma interna. Il confine-contatto risulta facilmente invaso dagli introietti. Per rendere più funzionali il terapeuta è attento a sviluppare la consapevolezza del processo di scelta personale. In Gestalt, il terapeuta cerca esplicitamente di sviluppare l’autonomia del suo assistito, la sua responsabilità e assertività, e di smascherare, dunque, qualsiasi rifugio illusorio nell’introiezione.

Infine la deflessione, definita da Polster come: “manovra per distogliersi dal contatto diretto”, è un modo di togliere il calore al contatto attuale, per mezzo di circonlocuzioni, parlare troppo, ridere su ciò che si dice, non guardare direttamente la persona con cui si parla, essere astratti piuttosto che specifici ... parlare su piuttosto che parlare a, e banalizzare l’importanza
di ciò che si è appena detto”. In determinate situazioni, tale meccanismo potrebbe essere funzionale, quando abbiamo la consapevolezza che in uno specifico momento vogliamo evitare il contatto, perché abbiamo bisogno di tempo per noi, per riflettere o perché scegliamo consapevolmente di non entrare in contatto. Abbiamo la libertà delle nostre scelte. Ciò che conta per la Gestalt è esserne consapevoli perché solo così si è veramente liberi di scegliere.


www.psiconapoli.com
www.psicodangelo.it

venerdì 1 novembre 2013

ANNA DI FUSCO UN’ARTISTA TRA MODERNITÀ E LAICA SPIRITUALITÀ


di Pietro di Loreto



Anna Di Fusco
fig.1-percezioni di Anna Di Fusco

Estro e anticonformismo ma anche intuizioni e percezioni profonde in un’operazione concettuale che si pone come una sfida allo sguardo del pubblico
Anna Di Fusco è un’artista che pur con poche esposizioni alle spalle, tuttavia presenta una capacità elaborativa stupefacente: un’esordiente le cui prove pittoriche veramente stupiscono, perché appare già in possesso di una capacità comunicativa e di un bagaglio espressivo consolidato, tipico cioè di chi –come lei- da tempo si cimenta nella pittura e quindi non certo per un gioco o per caso si sottopone oggi al giudizio dei critici e degli addetti ai lavori, oltre che degli amanti delle belle arti.
I suoi lavori iniziali e poi le sollecitazioni scaturite dall’ambiente intellettuale che ha frequentato e che frequenta ne hanno plasmato la personalità, che ci appare oggi già piuttosto solida, estrosa ed anticonformista. Lo dimostrano bene molte delle sue opere (figg.2,3,4) che, nel corso del tempo, hanno delineato un percorso mentale non certo stravagante e neppure insolito e tuttavia assolutamente personale, frutto di un fare pittorico e di una tecnica i cui esiti incrociano molte delle esperienze e delle personalità artistiche affermatesi dopo la metà dello scorso secolo.

fig.2-materico argento

fig.3-sempre più in alto

fig.4-la via dorata


Certamente può appare ingenuo e fuori luogo proporre paragoni (che peraltro risulterebbero oggi forse troppo impegnativi per un’autodidatta), con altri movimenti artistici ed altre esperienze formative; tuttavia è anche vero che spetta al lavoro del critico individuare le radici e i retroterra più consoni per definire una poetica che ambisce a trovare un suo spazio e a proporsi in modo originale nel mondo della contemporaneità, partendo com’è ovvio dalla contaminazione e dall’assemblaggio di formule artistiche differenti che tuttavia non contrastano né certamente nascondono il momento finale della personale meditazione.
Ed in questo senso è facile pensare a vari ascendenti, alla minimal art, o alla pop art, o all’arte povera; ma, nel nostro caso, quella di Anna Di Fusco è come un’operazione concettuale : quei frammenti di vetri sparsi su molte tele (fig.5,6), quasi che l’artista desiderasse ricomporre e dar luce ad un cammino interiore -e che in qualche caso ci pare perfino poter indicare come una sorta di trascendenza- sembrano richiamare in modo più appropriato alla mente la forza creativa del ‘gesto’.

fig.5-l'ascensione

fig.6-mare d'inverno


Ma se di ‘azione gestuale’ si deve parlare il riferimento è più alla tensione emotiva di un Rotko che non al dripping di Pollock, come in effetti appare in una delle prime prove, dove il colore rosso intenso dello sfondo è come investito da larghe spatolate trasversali bianche (fig.7) . Opera appassionata, perfino rabbiosa: non si può fare a meno di notare un fervore, una sorta di urgenza che percorrerà poi buona parte dei lavori successivi, nati come da un incastro tra espressionismo ed astrazione, dove quasi si esalta la fisicità delle aree nelle tele attraversate da rettangoli o meglio ‘crateri’ bianchi rossi neri, ed in altre formate da stesure di acrilico crude e intense (figg.8,9,10).
I colori sono applicati con una forte saturazione, privi quasi di sfumature e toni mediani e tuttavia tali da poter realizzare un calibrato equilibrio cromatico, così da evidenziarne al meglio il valore espressivo, determinante per far risaltare il significato.

fig.7-contrasto

fig.8-crateri rossi

fig.9

fig.10

Ma mai , si deve dire, sull’utilizzazione di tali richiami compare un compiacimento cedevole, un’evocazione surreale dei valori del subconscio. L’arte di Anna Di Fusco ci pare piuttosto agire a livello di natura e nella natura, laddove sembra trovare le forme esemplari per il suo fine didascalico. La sua opera diviene così espressione di un atteggiamento assertivo, che è sintesi di ambiente, materiali e intenzioni dove si può cogliere –perché traspare senza alcuna mediazione- un forte spirito di modernità ma anche di laica spiritualità, se si può dire, in un certo senso obbligata in un’artista le cui trascorse esperienze di lavoro e di viaggi hanno certo generato un’apertura mentale internazionale, tanto verso le letterature che verso le arti internazionali e, per sua stessa ammissione, tutt’altro che chiusa nel suo piccolo mondo di immagini o nella rievocazione dei grandi del passato, ed anzi ben affacciata sulle esperienze artistiche del nostro tempo .
E tuttavia la volontà di affermare oggi la sua consapevole presenza e di comunicare una propria cifra stilistica non si accompagna affatto al tentativo di ‘agganciare’ lo spettatore, né ci pare miri a richiedere il conforto del punto di vista neutrale di chi osserva.
Lo dimostrano gli ultimi lavori dell’artista, frutto di un sentire pittorico non riducibile a dati pregressi, ma che si proietta addirittura ‘oltre’, come se fosse una specie di sonda che cerca di penetrare in sentieri ancora non ben esplorati in ambito artistico (figg.11,12,13,14,15,16).
Certo, con la sua pittura di Anna Di Fusco ha la legittima ambizione di voler evidenziare le proprie intuizioni e dar corpo alla percezione delle proprie esperienze quotidiane, ma dichiarando immediatamente però, per le forme che delinea e per i materiali con cui compone, la propria differenza e ponendosi anzi come una specie di bersaglio allo sguardo del pubblico.
E’ questo probabilmente il modo migliore, per quanto si può ritenere possibile, di sottrarsi alla patetica schiera dei semplici riproduttori di immagini.

fig.11

fig.12

fig.13

fig.14
fig.15

fig.16

domenica 8 settembre 2013

UN REGISTA VIOLENTO, POLITICO – OCCASIONALE

Pasquale Squitieri,

Pasquale Squitieri,  nato a Napoli nel 1938, è uno dei più celebri registi italiani. Per un periodo si è dedicato alla scenografia e per un altro alla politica, cambiando italicamente molte casacche, rivestendo per due anni la carica di senatore.
Squitieri è legato sentimentalmente dagli anni '70 all'attrice Claudia Cardinale, che ha anche recitato in alcuni suoi film: Il prefetto di ferro, Corleone, Claretta, Li chiamarono... briganti! , I guappi. Guarito da un tumore,  afferma di continuare a fumare accanitamente.
Laureato in Giurisprudenza, negli anni '60 si impiegò al Banco di Napoli dal quale fu licenziato per aver fatto pagare un assegno poi risultato falso. Per questo motivo, nel 1981, fu condannato per peculato ad 1 anno di carcere, scontandone cinque mesi. Sempre negli anni ’60, fu arrestato e poi assolto per una rissa con un poliziotto che aveva insultato l'attrice Annamaria Guarnieri. 
Debuttò nel cinema come regista e sceneggiatore di  Io e Dio (1969), prodotto da Vittorio De Sica, con Josè Torres e Gregorio Di Lauro e, sulla falsariga di registi come Sergio Leone, si dedicò brevemente al genere spaghetti western, con Django sfida Sartana (1970) e La vendetta è un piatto che si serve freddo (1971). Entrambe le pellicole furono firmate con lo pseudonimo William Redford. 
In seguito, Squitieri abbandonò il  nome d'arte e cominciò ad occuparsi di tematiche più attuali e realtà allora poco raccontate della società italiana con alterne fortune perché a grandi successi seguirono clamorosi flop di pubblico e critica. Pellicole come  Camorra (1975), L'ambizioso (1975), Il prefetto di ferro (1977), Corleone (1978),  Il pentito (1985) riguardano i contatti tra mafia e politica; Viaggia, ragazza, viaggia, hai la musica nelle vene (1974) e Atto di dolore (1990) hanno come tema principale la droga; Gli invisibili (1989) il terrorismo; L'avvocato de Gregorio (2003) le cosiddette “morti bianche”; Razza selvaggia (1980) e Il colore dell'odio (1990) affrontano l'argomento immigrazione;  Li chiamarono... briganti! (1999) è un  film sul brigantaggio postunitario che narra la storia del suo maggiore rappresentante Carmine Crocco: quest'ultima opera, molto discussa, fu immediatamente ritirata dalle sale cinematografiche. Con  Stupor mundi (1997), invece, su incarico delle Fondazioni Federico II di Jesi e Palermo, il regista si catapulta nel medioevo con un lungometraggio sulla figura dell’imperatore Federico II, lo “stupor mundi”, come viene universalmente conosciuto, ispirata all'opera letteraria di Aurelio Pes "Ager Sanguinis": anche in questo film, tra i protagonisti, c’è  Claudia Cardinale. 
Tornando all’impegno politico, nel 1971 Squitieri sottoscrisse la lettera aperta a L'Espresso sul caso Pinelli, nota anche come appello contro il commissario Calabresi. Nell'ottobre dello stesso anno fu tra i firmatari di un'autodenuncia pubblicata su Lotta Continua in cui esprimeva solidarietà verso alcuni militanti e direttori responsabili del giornale inquisiti per istigazione a delinquere a causa del contenuto violento di alcuni articoli, impegnandosi a «combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato».
Negli anni si spostò a destra e nel 1994 fu eletto senatore nelle liste di Alleanza Nazionale per il collegio  Andria-Barletta. In quella legislatura fece parte delle commissioni Industria, Commercio, Turismo, e Vigilanza Rai.
Nel 1996 si  ricandidò al Senato con il Polo per le Libertà nel collegio di Nola, ma ottenne il 40,2% dei voti, risultando sconfitto dal rappresentante dell'Ulivo, il filosofo Aldo Masullo. Si  iscrisse poi al Partito Radicale Transnazionale, collaborando ad alcune campagne del Partito.
Nel 2013 si espresse molto duramente contro l'europarlamentare leghista Mario Borghezio, affermando che "fa schifo, bisogna eliminarlo fisicamente", paragonandolo ai nazisti del processo di Norimberga.
E veniamo all’incontro-scontro che ebbi con il personaggio nel 2004 in occasione della presentazione del mio libro “ Achille Lauro superstar” ad un gruppo di parlamentari  presso la libreria Montecitorio di Roma. Ruggiero Guarini, che mi aveva aiutato  ad organizzare  l’incontro, me lo aveva proposto come relatore. Io non seppi dire di no, nonostante conoscessi il carattere intemperante del regista per le confidenze di alcuni amici; uno, condomino del suo appartamento in via Petrarca a Napoli, l’altro che aveva avuto una particina in uno dei suoi film. Me lo avevano dipinto rissoso e maleducato e durante la conferenza ne ebbi la conferma quando, venuto il suo turno, cominciò a dire minchiate a ripetizione e ad infangare la figura del Comandante: fortunatamente, più che le proteste del moderatore,  ebbe effetto la selva di fischi  del pubblico che convinsero il regista a lasciare l’aula, salutato da pernacchie liberatorie.
Per chi volesse rivedere questa scena disgustosa non ha che da collegarsi alla teca televisiva di Radio Radicale, le cui telecamere inviate dal mio amico Bordin, immortalarono lo svolgimento della presentazione.

Pasquale Squitieri
Pasquale Squitieri e Claudia Cardinale


L'ANIMATORE DEL TEATRO BELLINI.


Tato Russo

Tato Russo, all’anagrafe Antonio, nato a Napoli nel 1947, è attore e regista teatrale, scrittore e musicista, ma soprattutto è benemerito, perché da quasi vent’anni ha riportato all’antico splendore il teatro Bellini, ridotto da anni a squallido cinema di film a luci rosse, molto amato dai filonisti, perché se si era in piacevole compagnia, con una piccola mancia alla maschera, si poteva usufruire di un palco per cui, oltre alle luci rosse, ne capitavano di tutti i colori.
Laureato in giurisprudenza con lode all'università Federico II di Napoli, fin dall’età adolescenziale rivela una predisposizione per la recitazione e la scrittura. A vent'anni scrive il primo romanzo: Samba di un coniglio uomo e mette in scena con piccole compagnie amatoriali alcuni suoi lavori in dialetto napoletano, come Fatti di famiglia, Quindici luglio, Sant'Errico, Meglio la morte, La ‘ncunia e lu martiello, Operetta napoletana, Mò vene Natale.
Allievo dell'attrice Wanda Capodaglio, inizia la sua carriera nel mondo del teatro ufficiale entrando prima in piccole compagnie di sperimentazione (Mario e Maria Luisa Santella) poi nelle compagnie di Mico Galdieri, Pupella Maggio e Nino Taranto.
Nel 1972 fonda, con l'attore Nello Mascia, la cooperativa teatrale "Gli Ipocriti". Dopo la rottura con Mascia, fonda  una sua compagnia che chiama "Compagnia Nuova Commedia" con l'idea di rappresentare soltanto i suoi testi teatrali: La tazza d’argento, I vecchi, La commedia della fame, Cimiterio, Il sessantotto, La parolaccia, Il matrimonio, Pulcinella capitano del popolo, Il sole, in collaborazione con Luigi Compagnone.
Ha collaborato alla creazione di circuiti teatrali (Consorzio Teatro Campania) ed alla creazione di festivals teatrali (Dyonisiae di Pompei, Magna Graecia di Taranto, Pianeta Spettacolo, Ischia Play Island), alla riapertura del Teatro delle Arti, del Teatro Diana ed infine del meraviglioso Teatro Bellini di Napoli ed al rilancio di altre strutture della Campania.
Attratto dal teatro comico napoletano rappresenta le sue commedie Forse una farsa, Mi faccio una cooperativa, La farsa sciocca ed inizia le sue prime riscritture di commedie del teatro classico con Pulcinella medico per forza da Molière, e Sogno di una notte di mezza estate da Shakespeare.
Le musiche per i suoi spettacoli  sono  spesso composte dallo stesso Russo sotto lo pseudonimo di "Zeno Craig".
Nel 1980 e negli anni successivi stabilisce la sua attività al teatro Diana di Napoli, dove mette in scena La bella e la brutta epoque, Cafè Chantant, Sò muorto e m'hanno fatto turnà a nascere, Flik e Flok.
Terminato il rapporto con il teatro Diana, mette in scena Socrate immaginario, Due gemelli napoletani, Avanvarietà, La bisbetica domata, La villeggiatura, Week end, Irma la dolce, Le stanze del castello.
Nel 1986, con Luciano Rondinella, Mario Crasto De Stefano e Stefano Tosi acquisisce il Teatro Bellini di Napoli. Dopo alcuni anni impiegati nella ristrutturazione dello storico teatro napoletano (a Napoli si diceva : ’O San Carlo p’’a grandezza,’o Bellini p’’a bellezza) il Bellini riapre nel 1988 con L'opera da tre soldi di Brecht. Seguono le rappresentazioni delle sue riscritture di Napoli Hotel Excelsior, I Promessi Sposi, Palummella zompa e vola, Il candelaio da Giordano Bruno, La tempesta, La commedia degli equivoci ed Amleto da Shakespeare, Tre calzoni fortunati, le operette Scugnizza e  La Vedova allegra, ‘O Munaciello, A che servono questi quattrini, La signora Coda,  Troppi santi in paradiso, Il paese degli idioti, Due gemelli napoletani dai Menecmi di Plauto, Il fu Mattia Pascal da Pirandello, Vacanze a Capri (La villeggiatura), Lu miedeco pe fforza, La commedia degli equivoci, Pulcinella degli spiriti,  Socrate sono io, Lu marito dindon, Rose rosse per me e le opere musicali Masaniello, Viva Diego, I promessi sposi, Il ritratto di Dorian Gray, dei quali firma regia, libretti e musiche, queste ultime in collaborazione con i maestri Mario Ciervo e Patrizio Marrone.
Negli stessi anni scrive un altro romanzo, La stanza dei sentimenti perduti, e quattordici libri di poesie: Cient'e una notte dint'a una notte, Momenti e Maledizioni, Sotto e ‘ncoppa, Mater dolorosa, Scarrafunnera, Teste di croci, Mmescafrangesca, Scippe e scarte, Ancora mi innamorano gli sguardi, La felicità nella coda dei cani,Seminando il grano, C’è vita sulla terra?,  Esercizi Spirituali, Antichi Segni.
E’ stato anche sceneggiatore per la televisione nei quattro episodi de Il maresciallo  e per Teresa Raquin.
Con la sua compagnia è stato ospitato in Russia, in Francia, in Tunisia, in Grecia, in Svizzera, a Cuba ed ha partecipato a molti festival internazionali. Al Globe Theatre di Londra è l'unico attore italiano a figurare nella galleria di ritratti dei celebri interpreti scespiriani.
Nel 2004 è stato nominato Cavaliere al merito della Repubblica Italiana.

Tato Russo

Tato Russo, Il ritratto di Dorian Gray

locandina di il fu Mattia Pascal


L’INTELLETTUALE CRONISTA DELLA STORIA.

Nello Ajell
Nato a Napoli nel 1930, Nello Ajello è stato, prima che giornalista ed intellettuale, un uomo di grande cultura e di elevata statura morale.
I primi passi li ha mossi a Napoli collaborando a Nord e  Sud, la prestigiosa rivista laica, meridionalista ed europeista, fondata nel 1954 da Francesco “Chinchino” Compagna, avendo come dirimpettaia politica ed intellettuale la social-comunista Cronache meridionali. I passi successivi prima con Mario Pannunzio a Il Mondo, poi con Olivetti, in seguito a L’Espresso , di cui è stato a lungo condirettore, per finire con La Repubblica, che lo ha visto tra i fondatori e  le firme d’eccellenza.
La sua scomparsa ha privato la cultura italiana di un elemento di spicco. Ci mancano la sua prosa elegante e distaccata e la speranza è che la sua lezione non vada dimenticata troppo presto. 
Ajello è stato un napoletano dall’ironia sottile, con radici molto profonde nella storia intellettuale e civile della sua città, ma costituzionalmente estraneo ed avverso a tutti i cliché sulla napoletanità. Sin da giovanissimo si era mosso, come ha voluto ricordare l'esponente più illustre della  particolarissima genìa di napoletani anglosassoni, Giorgio Napolitano, «al confine tra giornalismo, cultura e politica». E lo aveva fatto da giornalista che non avrebbe scambiato con nessun altro il suo mestiere, di cui pure conosceva alla perfezione i limiti. Era consapevole che chi scrive per un giornale  traccia  parole su un foglio che durerà qualche minuto o al massimo qualche ora ma, nello stesso tempo,  sa che ogni parola deve essere ben ponderata, come se destinata a durare in eterno.
Ajello era imbevuto di una cultura che era stata alle radici dell’Europa, ma aveva ben compreso che oggi l’Europa bisognava cercarla altrove. Era un napoletano fino al midollo, con quell’ironia e quella trascuratezza un po’ dandy ed amava la battuta in grado di condensare un racconto.
Fu sempre un uomo libero, vicino alle idee della sinistra, ma senza lodi sperticate, anzi con disincanto ed una nota di pessimismo. Appartenente ad una corrente di pensiero illuminista e laica, fu  cronista della storia e seppe raccontare senza timore le contraddizioni del Novecento.
Una parte della sinistra lo detestava per alcuni suoi libri come Intellettuali e PCI dal 1944 al 1958, Il lungo addio o Intellettuali e PCI dal 1958 al 1991.
I suoi volumi sull’argomento sono basati su una ricchezza di documentazione ed un’abilità interpretativa non comune per uno scrittore, che i comunisti li aveva frequentati, ma sempre a distanza di sicurezza.
Nel 1978 un certo clamore aveva suscitato la sua Intervista sullo scrittore scomodo (Moravia).
L’ultimo suo libro Taccuini del Risorgimento, pubblicato nel 2011, ci racconta giorno per giorno, a volte ora per ora, le vicende italiane dal 20 febbraio al 17 marzo 1861.
All’indomani della sua scomparsa, avvenuta l’11 agosto 2013, è stato ricordato con affetto da colleghi ed estimatori. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha commentato così la sua scomparsa: “Apprendo con sincera commozione, nel segno di un’antica amicizia, la dolorosa notizia della scomparsa di Nello Ajello a breve distanza dalla morte della sua consorte Giulia. Il ruolo così fortemente ed efficacemente svolto da Ajello si è collocato al confine tra giornalismo, cultura e politica. Le sue analisi critiche sulle politiche culturali, anche ed in particolare del Pci, hanno lasciato il segno per la loro accuratezza e acutezza”. “Nel tempo dell’informazione consumata come un piatto ad un fast food, il giornalismo colto e brillante di Nello Ajello risplende di luce perenne” è invece la riflessione del segretario della Federazione  Nazionale della Stampa, Franco Siddi.  Federico Orlando e Beppe Giulietti, presidente e portavoce di Articolo 21lo ricordano come "un giornalista colto, libero, ironico, distante da ogni forma di servile encomio e di oltraggio postumo, verso poteri e potenti di turno".
E’ difficile riassumere il tratto principale del carattere di una persona, soprattutto quando si parla di un giornalista di lungo corso come Nello Ajello. Non hanno dubbi, però, due suoi amici come Ermanno  Rea e Raffaele La Capria: il tratto principale del suo carattere era l’ironia. “L’ho sempre stimato come uomo e come giornalista – ricorda commosso Rea – tant’è che quando fui nominato presidente della Fondazione Premio Napoli lo volli subito in giuria. Era un uomo di una cultura enorme, direi quasi enciclopedica, uno spirito corrosivo dalla battuta fulminante, me se dovessi indicare la prima e più singolare caratteristica della sua persona, senza dubbio mi viene in mente l’ironia, per la precisione un’ironia malinconica, spesso anche drammatica”. Rea si dice restio ad indicare certi aspetti della personalità come quelli tipici di un popolo, eppure in questo caso è disposto a fare un’eccezione, perché “Ajello era talmente pronto alla battuta ironica ed al distacco in grado di sdrammatizzare che forse possiamo anche dire che in questo si evinceva ancora il suo legame con Napoli”.
Anche La Capria conferma che “parlare con lui era sempre una sorta d’incanto, di magia, e poi il suo umorismo lo rendeva il perfetto esponente di una borghesia napoletana illuminata e raffinata che, dopo la scomparsa di Antonio Ghirelli,  ha perso un altro dei suoi migliori esponenti”.
Se poi la Capria è convinto che Ajello sia stato come giornalista uno dei pochi laici capaci di giudizi misurati e ponderati su tutte le più grandi questioni affrontate, “un esponente della migliore cultura crociana”, per Rea “ è stato un uomo veramente libero, né anticomunista né comunista, in un’epoca in cui era facile prendere parte per l’una o per l’altra fazione”. Quello che pure colpisce è  la morte di Ajello a pochi giorni da quella della moglie Giulia, deceduta il 25 luglio, quasi che il legame umano e professionale di un grande del giornalismo contemporaneo sia stato frutto anche di  “un legame particolare con l’altra metà della propria vita”, come sottolinea Rea, perché in fondo “il mestiere del giornalista è comprendere il mondo nei suoi meccanismi più articolati e creare legami più o meno forti, a cominciare dalle persone più vicine”.
Proprio la grande umanità e la grande capacità di immedesimarsi nelle persone ed entrare nei fatti, secondo il giornalista e critico letterario Enzo Golino che ha frequentato per cinquant’anni Ajello, è la cifra più significativa del suo giornalismo. ”Insieme  abbiamo partecipato decenni orsono alla fondazione della rivista diretta da Francesco Compagna “Nord e Sud”, e da allora l’ho sempre visto come un maestro. Era di una cultura incredibile. E  sapeva guardare ai fatti del Sud senza mai scadere in trionfalismi meridionalistici, oggi forse un po’ troppo di moda”. Di un illuminato scetticismo, per Golino aveva  indubbie doti giornalistiche soprattutto culturali. “Con Nello Ajello -  dice “se ne va un pezzo del migliore giornalismo italiano. E se ne va un grande uomo”.
Nello Ajello

Ajello, Cederna, Scalfari, Benedetti, Corbi e Zanetti

Alberto Moravia e Nello Ajello

Nello e Giulia Ajello

DESTINAZIONE MARTE.

Francesca Esposito

Nel 2016 Dreams, un sofisticato strumento per misurare temperature e tempeste, atterrerà su Marte e sarà la napoletana Francesca Esposito, astrofisica dell'Osservatorio Astronomico di Capodimonte dell'Istituto Nazionale di Astrofisica, a dirigere la stazione meteo marziana. Sembra una notizia incredibile, invece è pura verità: Napoli è alla ribalta non per  notizie negative, ma perché, anche se i giornali non ne parlano, nella nostra città ci sono giovani brillanti, impegnati nella ricerca, in grado di produrre risultati significativi a livello internazionale.
Per ogni ciclica ondata di cervelli in fuga da Napoli, ce n’è almeno uno che sceglie di rimanere ed accettare di misurarsi con difficoltà maggiori di chi invece si è trasferito oltre confine.  E’ il caso della quarantenne Francesca Esposito che da oggi ufficialmente, grazie all’accordo siglato in Francia al salone aereospaziale di Le Bourget, sarà a capo del coordinamento della stazione meteo che viaggerà a bordo della missione europea ExoMars.
E’ una grande soddisfazione per l’Europa perchè, per la prima volta nella storia, un lander europeo atterrerà su Marte e su questo lander ci sarà molta ricerca made in Naples. 
In questi giorni la Esposito si trova in Marocco per compiere una serie di test su una stazione meteo simile a Dreams che su Marte arriverà in una zona quasi equatoriale dell’emisfero Sud, in un periodo particolarmente complicato come quello delle tempeste di polvere. 
Dreams, che in italiano significa “sogni”, è il nome del pacchetto di strumenti scientifici installati a bordo del lander: il nome non è casuale considerato che mettere le proprie competenze al servizio della ricerca su Marte è sempre stato il sogno dell’astrofisica napoletana e del team internazionale di una cinquantina di ricercatori che coordinerà.
Francesca Esposito dice che le batterie della stazione marziana si esauriranno dopo quattro giorni, dopo di che l’analisi dei dati raccolti permetteranno di conoscere qualcosa in più sulle tempeste marziane di polvere che si formano con l’arrivo della primavera nell’emisfero Sud, sulla temperatura, sull’umidità, sui campi elettrici, sulla pressione e sul vento.
Questa spedizione, ad esempio, cercherà di comprendere, grazie ad appositi sensori, la causa delle forti scariche elettriche e dei fenomeni simili ai nostri fulmini, presenti  costantemente sul pianeta rosso, così come la natura dei veri e propri tornado di polvere che possono arrivare anche a cento metri di altezza, spostandosi sulla superficie  marziana a forte velocità, oscurando a volte quasi l’intero pianeta, dando luogo ai cosiddetti “dust devis”, ossia “demoni di polvere”. Questi ultimi sono presenti anche sulla Terra, ma i “diavoli di sabbia” marziani possono essere maggiori fino a cinquanta volta in ampiezza e dieci volte in altezza rispetto a quelli terrestri.
Il fine ultimo di questa, come di tutte le missioni verso Marte, rimane però quello di permettere, forse entro il 2050, lo sbarco dell’uomo, che ovviamente dovrà avvenire con la conoscenza dell’ambiente circostante e dei fenomeni più o meno pericolosi ad esso legati. 
“Sapere che un pezzo di Napoli contribuirà a questo avvenimento ripaga ampiamente la mia scelta di rimanere a Napoli” sottolinea  la Esposito.
“Pensare di far atterrare una sonda quando si scatenano le grandi tempeste di polvere, per poterne studiare il grado di pericolosità per le future missioni umane  - osserva Massimo Della Valle , direttore dell’Osservatorio  astronomico di Capodimonte dove esiste uno dei migliori centri al mondo per l’analisi di polveri spaziali  - è un’impresa, che segna probabilmente il primo passo concreto verso l’esplorazione umana del pianeta rosso”.

Marte,il pianeta rosso

immagine di Marte


sabato 7 settembre 2013

Il salotto di donna Elvira

Elvira Brunetti

Per oltre dieci anni il salotto letterario artistico di Elvira Brunetti della Ragione ha costituito un vero e proprio cenacolo, un faro nel deserto culturale napoletano.
Ogni mercoledì alle 17 una cinquantina di amici si riunivano negli eleganti saloni della villa posillipina di donna Elvira e dopo aver consumato al piano superiore il fatidico thé con annessi pasticcini, accoglievano l’ospite di turno, il quale Avrebbe discusso per un paio d’ore su un argomento di cui era esperto, dalla letteratura all’arte, dalla storia di Napoli alla filosofia ed al cinema, per rispondere poi alle domande degli ascoltatori.
Nel corso degli anni i sono alternati oltre 100 relatori: scrittori, giornalisti, registi, docenti universitari.
Possiamo affermare senza tema di esagerare che la migliore in intellighenzia napoletana è passata per il salotto, spesso rimanendovi poi come frequentatore.
Alle riunioni settimanali ogni tanto si aggiungevano delle conferenza a più voci su argomenti di ampio respiro, dalla letteratura francese alla filosofia tedesca, ospitate da celebri istituzioni come il Grenoble o l’Istituto Italiano degli Studi Filosofici.
Il sabato e la domenica si passava poi, sotto la guida del sottoscritto, a visitare mostre, chiese, monumenti, privilegiando luoghi negati alla fruizione che venivano aperti per l’occasione, spesso dopo un oblio di decenni e non mancavano spedizioni lontano da Napoli, a Roma, Firenze, Milano, Salerno, Ischia, Capri, in occasione di importanti rassegne artistiche.
Dopo una sosta forzata la sua riapertura è imminente ed attesa con spasmodica fibrillazione dai tanti amici del mercoledì, ansiosi di poter partecipare alle cerimonie del tempio del sapere

L’EPOPEA DELLA CANZONE NAPOLETANA E LA LEGGENDARIA MIGNONETTE

Gilda Mignonette


Prima di entrare nell’argomento, occorre fare una necessaria premessa: dopo l’Unità d’Italia, milioni di meridionali furono costretti ad emigrare alla ricerca di pane e lavoro e per un’eternità, dal porto di Napoli, partirono quotidianamente piroscafi stracolmi di famiglie dignitose con abiti laceri, valigie di cartone e lacrime agli occhi, che vedevano lentamente scomparire il Vesuvio fumante all’orizzonte, avviandosi verso l’ignoto. Li attendeva la quarantena, controlli medici minuziosi, la vergogna di elemosinare un qualsiasi lavoro, carne da macello disposta a tutto pur di sopravvivere. Vanamente cerchereste nei libri di storia traccia di questo genocidio silenzioso, che ha privato per sempre il Sud di ogni speranza di riscatto e sviluppo, mentre l’America è cresciuta economicamente anche grazie al silenzioso lavoro di questi ultimi della terra.
A New York ed in tutte le grandi metropoli, gli italiani si raccoglievano in enclave dove perpetuavano usi e riti con più convinzione che nella madre patria, dalla processione in onore di San Gennaro all’ascolto d’antiche melodie, per cui all’arrivo di un artista italiano, meglio se napoletano, il successo era favorito da un pabulum ideale costituito da nostalgia, ricordi, voglia di distrarsi dimenticando la tristezza del presente con un tuffo nel passato. 
E’ proprio a New York che, Griselda Andreatini, in arte Gilda Mignonette, divenne una delle cantanti napoletane  più celebri ed apprezzate oltreoceano. Nata a Napoli, nel popolare quartiere della Duchesca, il 28 ottobre 1886, aveva iniziato la sua carriera nei teatri di varietà e nei cafè chantant di Napoli riscuotendo notevole successo. Dal 1910 al 1915 iniziò un giro di tourneè che la portarono in Spagna, Ungheria, Russia, Argentina e Cuba. Nel 1919 debuttò nella prosa al fianco di Raffaele Viviani nel ruolo di “Carmilina 'a stiratrice” nella commedia Lo sposalizio.
Nel 1924, a 38 anni, partì per New York: doveva restarci un paio di mesi ma ci rimase oltre 20 anni. Il suo pubblico era formato da italiani emigrati nel nuovo continente, ma anche da americani veri che si lasciavano conquistare da questa sciantosa dotata di forte presenza scenica e  forte carattere che si faceva largo a gomitate ed aveva perfino il coraggio di affrontare la mafia: per tutti era la “Regina degli emigranti”. Realizzò oltre 250 incisioni con le maggiori case discografiche. Il suo maggiore successo, "A cartulina 'e Napule", è una canzone struggente scritta da Pasquale Buongiovanni, che per vivere faceva l'imbianchino. Una delle sue ultime interpretazioni fu "Malafemmena", che registrò poco prima della morte. In America incontrò anche l’amore, Frank Acierno, un italo americano, proprietario di un teatro, che divenne  suo manager. Al loro matrimonio partecipò Rodolfo Valentino e, quando l’attore morì prematuramente, Gilda volle dedicargli una canzone. Quella della Mignonette fu una vita avventurosa ma anche piena di successi e soddisfazioni. Durante gli anni trascorsi in America, era ritornata più volte in Italia ma nel 1953 aveva deciso di ritirarsi dalle scene e ritornare definitivamente a Napoli. Si imbarcò con il marito sul piroscafo Homeland ma, 24 ore prima dell’arrivo, ebbe un malore e morì. Era l’8 giugno 1953. Sul certificato di morte vennero riportate le coordinate del punto in cui si spense, latitudine 37' 21' Nord. Longitudine 4' 30' Est.  E’ sepolta nel cimitero di Poggioreale.
Gilda Mignonnette è ancora ricordata come una delle più appassionate ed intense interpreti della canzone napoletana: ne è prova lo spettacolo teatrale Gilda Mignonette - La regina degli emigranti,andato in scena il 30 e 31 agosto scorsi, in prima nazionale, al Todi Teatro Festival 2013, protagonisti Marta Bifano e Massimo Abbate, regia di Riccardo Reim, che, in una versione più ampliata, sarà portato in scena a New York e Washington dal prossimo dicembre.


Gilda Mignonette

Gilda Mignonette

FERDINANDO IL RE DI NAPOLI

Ferdinando Ventriglia

Ferdinando Ventriglia è stato uno dei più noti banchieri italiani, per anni alla guida del Banco di Roma e del Banco di Napoli. La prima volta che Ferdinando varcò la fatidica soglia di via Toledo aveva soltanto 21 anni ed era già laureato in Economia e Commercio.
“Studia, altrimenti finirai ragioniere della Centrale del Latte” gli ripeteva il padre, le cui aspettativa non andarono deluse. Appena laureato nel 1948 si mise ad insegnare all’Università, ma l’ambiente accademico non era di suo gradimento, eppure l’appellativo di «‘O PRUFESSORE» gli è rimasto per tutta la sua carriera che si è intrecciata con il Banco di Napoli per mezzo secolo.
Per almeno venti dei 47 anni che  ha trascorso nel gotha del sistema bancario italiano, Ventriglia è stato sicuramente uno dei volti più immutabili del Potere. 
Il nomignolo di "Re Ferdinando" era davvero tagliato su misura per lui perchè è stato, per la storia del Banco di Napoli, ed in parte per la storia economica del Paese, un vero e proprio monarca di tempra borbonica. 
Era dotato di grande capacità di sintesi, di vedute d' assieme e felici intuizioni prospettiche oltre ad una conoscenza tecnica del sistema bancario probabilmente unica in Italia. 
La sua ultima dote, non meno importante, era un rapporto di contiguità con la politica, che ha reso tristemente famosa nel tempo buona parte dei banchieri italiani. Era inoltre dotato di un notevole fiuto degli affari, con una inclinazione rivolta alla trama finanziaria segreta, tesa al raggiungimento ed alla conservazione del potere.
Democristiano, nel 1947 si era iscritto alla FUCI, Federazione degli universitari cattolici,  presieduta  all’epoca  dal giovanissimo Giulio Andreotti. Di lì a poco, l’assunzione al Banco di Napoli. I tre anni trascorsi  all’Ufficio Studi  gli insegnarono  gli intrecci tra politica (con la quale è utile avere rapporti senza mai diventarne protagonista) e  finanza  in tutti i suoi  aspetti, anche giuridici, nei quali Ventriglia si rivelò un vero maestro.
La sua carriera fu repentina e folgorante. Negli Anni 50 il democristiano Pietro Campilli, ministro del Mezzogiorno, intuì in lui il brillante economista che era e se lo portò a Roma come braccio destro. Subito dopo, agli inizi degli Anni Sessanta, il ministro del Tesoro, il democristiano Emilio Colombo, lo volle al suo ministero.
Nel 1966 Ventriglia ritornò al Banco di Napoli, di cui divenne direttore generale. 
Tre anni dopo, nel 1969, fu nominato amministratore delegato del Banco di Roma, allora disastratissimo sul piano dei conti,  rimanendovi fino al 1975 dopo aver rimesso in ordine il bilancio e rafforzato la struttura patrimoniale dell' istituto. 
In quegli anni, per avere finanziato incautamente, soprattutto con le sue consociate estere, alcune delle tante società di Michele Sindona, patron della Banca Privata, già in crisi di liquidità, Ventriglia si ritrovò convocato dai giudici nel processo per bancarotta del banchiere siciliano, uscendone bene, "con le mani pulitissime", disse all' epoca trionfante. 
I suoi detrattori, viceversa, pensarono e raccontarono una storia diversa: Ventriglia si salvò dall' incriminazione perchè aveva in tasca la famosa "lista dei 500", elenco di quel gruppuscolo di potenti che avevano esportato capitali oltre frontiera depositandoli presso la Finabank di Sindona che morirà per  un caffè avvelenato nella sua cella del carcere dell’Ucciardone di Palermo. 
Ventriglia ha sempre negato di avere giocato l’arma del ricatto per uscire dal processo senza conseguenze  ma quest’avventura giudiziaria, benché senza strascichi, gli precluse l’opportunità di essere nominato, nel 1974, governatore della Banca d’Italia al posto del suo amico Guido Carli, che lo aveva designato suo successore: per stoppare la sua nomina, Ugo La Malfa  fece riferimento proprio alla lista dei 500. 
Ma la carriera di Re Ferdinando non si fermò perché  nel 1975 fu parzialmente ricompensato con un altro prestigioso incarico, quello di direttore generale del Tesoro, dove rimase fino al 1977 guadagnandosi l' encomio solenne della comunità finanziaria per aver negoziato il mega-prestito del Fondo monetario che consentì all' Italia di respirare un po' d'ossigeno a cavallo tra i due shock petroliferi. 
Dopo quest’altra parentesi politica, ritornò in ambito bancario, prima con la presidenza dell' Isveimer ed infine, nel 1983, con il grande definitivo rientro come direttore generale del "suo" Banco di Napoli che, sotto di lui,  fino alla fine degli anni Ottanta, crebbe sotto ogni aspetto fino a quando le fameliche correnti politiche che si spartivano il potere cittadino, non pretesero di entrare nel consiglio di amministrazione del glorioso Istituto di credito che, nel 1991, fu il primo a trasformarsi in Spa per cui Ventriglia, da direttore generale, assunse la carica di amministratore delegato.  
Per alcune nomine giudicate illegittime al vertice della Fondazione, fu destinatario di un avviso di garanzia e fu sospeso da ogni incarico.
Ventriglia, già consumato dal male, uscì indenne anche da questa vicenda ma, ormai, la sua carriera era finita. Morì nel 1994. 
Scrivere sulla vergognosa operazione di spoliazione del più antico istituto di credito del mondo da parte di una politica dominata dalle ragioni del nord e da un apparato burocratico servo dei diktat del Tesoro e della Banca d’Italia non è stato facile per me, nonostante provenga da una famiglia che da generazioni ha servito onorevolmente nel Banco: mio fratello, già direttore ed oggi pensionato, ma ancora, con entusiasmo, attivo nel sindacato e nella stesura del battagliero periodico “Senatus”, mio padre, all’epoca vice direttore della sezione di credito industriale, mio nonno, impiegato prematuramente scomparso durante l’epidemia di spagnola del 1918.
Senza salire oltre nell’albero genealogico, ho respirato da ragazzo quell’atmosfera di rispetto che circondava il dipendente del Banco di Napoli, forte di stipendi lauti e delle sue quindici mensilità. Una situazione sociale distante anni luce dall’approssimazione e dalla sciatteria che contraddistinguono oggi i rapporti con la clientela.
La politica di ristrutturazione e di vendita del Banco di Napoli da parte del Tesoro è da inserirsi nell’ottica della politica di ristrutturazione del settore creditizio, partito negli anni ’90, che ebbe inizio con la legge Amato-Carli (legge n. 218 del 1990), che prevedeva la trasformazione degli Istituti di credito di diritto pubblico in Società per Azioni. Il Banco di Napoli fu il primo a cambiare la forma giuridica, nel Luglio del 1991.
La ristrutturazione del settore creditizio ebbe carattere squisitamente politico, legato sostanzialmente all’obiettivo di adeguare il settore creditizio agli standard del resto d’Italia e di avviare il processo di integrazione europea tramite il consolidamento del settore bancario. 
Il processo di ristrutturazione portò alla scomparsa dei centri decisionali al Sud e nelle isole, rendendo la quasi totalità degli istituti dipendenti da gruppi del Centro-Nord Italia o esteri fino a giungere al fatale triennio 1994 – 96, con la scomparsa del marchio fagocitato da un processo di accorpamento del credito, per comparire di nuovo, recentemente, anche se solo nel nome, per assecondare i desideri di una clientela di vecchia data, che si sentiva frustrata nell’entrare in filiali dove, oltre a non trovare più volti noti, nei quali riponeva la sua incondizionata fiducia, capeggiava la scritta delle banche conquistatrici.
Si deve preservare la verità per le nuove generazioni, ben sapendo che la storia la scrivono i vincitori, spesso, servendosi di cronisti asserviti, che occultano documenti scomodi e favoriscono la damnatio memoriae sull’accaduto.
Nessuno si preoccupa di citare  tutti gli atti parlamentari di quei pochi meridionalisti che difesero la centralità dell’operato del Banco di Napoli, a difesa degli interessi di tanti piccoli imprenditori del sud, che rimasero inascoltati perché cominciava a premere la questione settentrionale e tutto il Mezzogiorno veniva quotidianamente descritto dalla stampa come il luogo del clientelismo e dell’inefficienza.
Fu adottato il sistema dei due pesi e due misure, con un’eccessiva prudenza contabile,  che condusse alla perdita del patrimonio ed alla successiva scomparsa del Banco di Napoli. Il sud perse la sua banca di riferimento secolare e migliaia di imprese furono costrette al fallimento con gravi contraccolpi sull’occupazione e con un grave impoverimento socio culturale.
Fu uno dei danni più gravi inferto ai danni del Mezzogiorno in nome della supremazia del mercato, proprio alla vigilia di una drastica inversione di rotta degli Stati più liberisti del mondo, che hanno adottato la ricetta delle partecipazioni statali immettendo ingente liquidità per salvare traballanti colossi della finanza e dell’economia.
Alcuni aspetti tecnici dell’operazione sono difficilmente afferrabili dal lettore meno versato in economia, anche se risalta come truffaldino il criterio adottato all’epoca per valutare il Banco di Napoli, da parte dell’advisor del Tesoro, la Rotschild, che nel 1977 ritenne equo il prezzo di 61 miliardi di lire per acquistare il 60% del glorioso istituto da parte dell’Ina e della BNL e dopo circa due anni ritenne altrettanto equo un prezzo di 3600 miliardi per la vendita del 56% dello stesso Banco al Sanpaolo – Imi, dando luogo ad una vergognosa plusvalenza.
Non è il solo punto oscuro del criminale atto di sabotaggio e di desertificazione verso il Sud ed aspettiamo tutti che sull’argomento voglia quanto prima scrivere una penna alla Saviano, che gridi tutta la rabbia repressa dei meridionali, dimostrando che i delinquenti non si annidano solo nell’inferno di Scampia o Secondigliano, ma anche tra i colletti bianchi che siedono boriosi al Tesoro o nei consigli di amministrazione delle grandi banche del Nord.
Ferdinando Ventriglia


LO SCRITTORE OPERAIO

Erri De Luca

Erri De Luca nasce nel 1950 a  Napoli in una famiglia della media borghesia. Dopo gli studi al Liceo Umberto si trasferisce a Roma dove abbraccia l’azione politica, respingendo la carriera diplomatica alla quale era avviato. Negli anni ’70 è dirigente attivo del movimento d’estrema sinistra Lotta Continua. Sarà in seguito operaio qualificato alla FIAT, magazziniere all’aeroporto di Catania, camionista e muratore: come tale lavorerà in cantieri francesi, africani ed italiani. Benché non avesse smesso di scrivere dall’età di vent’anni, il suo primo libro, Non ora, non qui, è pubblicato in Italia soltanto nel 1989. Ha praticamente quarant’anni al momento di questa prima pubblicazione e continua a lavorare nell’edilizia. Durante la guerra nella ex Iugoslavia, è conducente di convogli umanitari per la popolazione bosniaca. Autodidatta, ha imparato numerose lingue tra cui l’yiddish e l’ebraico per tradurre la Bibbia, alla quale dedica ogni giorno un’ora di lettura, anche se si dichiara non credente.
Ha ricevuto, in Francia, il premio France Culture nel 1994 per Aceto, arcobaleno, il Premio Laure Bataillon nel 2002 per Tre cavalli (congiuntamente alla sua traduttrice francese, Danièle Valin) ed il Femina Étranger, ugualmente nel 2002, per il romanzo Montedidio. E’ collaboratore de Il Mattino, La Repubblica, Il Manifesto ed altri quotidiani. Per la sua compagna, la brigatista Barbara Balzerani, ha scritto Ballata per una prigioniera.
Vive nella campagna romana ed è amante della lettura. Suoi libri preferiti sono La montagna di Thomas Mann ed il Don Chisciotte di Cervantes. Nel 2003 ha fatto parte della giuria del Festival di Cannes.
Nel 2011 partecipa alla trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio, dove ha presentato l’ultimo libro I pesci non chiudono gli occhi edito da Feltrinelli.
Erri De Luca ha esordito come poeta nel momento in cui la sua consacrazione ad autore di culto è già avvenuta. Nel 2002, a 52 anni, la collana “bianca” di Einaudi pubblica Opera  sull'acqua, sua prima prova poetica. Nei lavori di De Luca compaiono spesso le figure di Cristo e  della Madonna, in special modo ne In nome della madre (Feltrinellí 2006), racconto in prosa  cui si alternano, non a caso, all’inizio ed alla fine, alcuni componimenti in versi. Il senso paolino della croce come “scandalo”, pietra d’inciampo, è perfettamente rivissuto dallo scrittore, che da non credente dichiarato, non può essere tacciato  di devozionismo e racconta la storia di Cristo quasi come una provocazione mentre la Madre, che già conosce il destino che Dio ha riservato loro, si sforza umanamente di tenerlo all’oscuro della storia, proteggendolo dalla sua stessa identità divina, per farne solo un bambino come gli altri.
Nella poesia inedita Pietre c’e ancora un richiamo a Gesù, lo sconosciuto accovacciato in terra che invita chi è senza errore a tirare per primo la pietra  di lapidazione:
“Pietre
So le pietre da lanciare, in pochi contro molti
e ho visto pietre contro armi da fuoco.
Ho maneggiato pietre sui cantieri
ho abbattuto pareti, costruito case.
Ci sono stati giorni per lanciare pietre
e gli anni per rinchiuderle nei muri.
Ma non conosco le pietre di lapidazione
scagliate all'indifeso.
Chi è senza errore, tiri lui la prima,
disse lo sconosciuto accovacciato in terra.
Chi è senza errore: non chi si è dato autorità di legge.
Chi è senza errore ha diritto di alzarsi per colpire.
Chi è senza errore: perchè non lo farà.
Chi lancia pietre di lapidazione profana il regno minerale,
la materia di vulcani e stelle,
il letto dei fiumi e i frantumi dei fulmini.
Chi lancia pietre di lapidazione
possa il suo braccio irrigidirsi in pietra
e lui sia maledetto di rimbalzo”.
Pietre è un inno contro la guerra. E la guerra De Luca l’ha conosciuta nella ex Jugoslavia, dove si è recato  per essere “volontario muratore di  pace”, descrivendo l’emozione provata a Mostar, sul ponte assurto a simbolo di quell’assurdo conflitto: "Fu a causa del ponte. Vengo da una città di mare, senza fiumi, il ponte per me era una figura astratta della geometria e la sagoma rara dell' arcobaleno. Sapevo dalla narrativa che ci dormivano sotto quelli senza riparo. Poi in una città lontana dalla mia, ne attraversai uno a piedi, affacciandomi al parapetto per vedere la corrente. L' ho amato subito, al primo passaggio e a prima vista. Ho amato le sue zampe piantate una di qua e una di là a saltare lo sbarramento delle acque. Fu a causa del ponte, di quello distrutto dai Croati di Mostar ovest, fu quell' abbattimento che mi agitò e mi prese per il bavero. Era un antico manufatto musulmano, in pietra bianca, la perfetta parabola di un sasso lanciato da una sponda e caduto sopra quella opposta. Era lo Stari Most, il Vecchio Ponte di Mostar est, la sponda musulmana. Aveva quattro secoli di tuffi, di piedi che staccavano lo slancio dal suo bordo per infilarsi nella schiuma verde della Neretva, dopo quindici metri circa di caduta. I musulmani della sponda est avevano cercato di proteggerlo, rivestendolo di copertoni di camion. Era diventato una barca coi parabordi fuori: questo è il suo ultimo fotogramma, prima dello schianto, in un giorno di novembre del ' 93. Eretto dai turchi nel 1556, il maestoso Ponte di Mostar crollò il 9 novembre 1993 per un colpo di mortaio esploso dalle truppe croato-bosniache. Lungi dal costituire un obiettivo strategico, lo Stari Most era il simbolo della convivenza pacifica tra le due parti della città, quella croata e quella musulmana. I lavori di ricostruzione sono cominciati il 7 giugno del 2002 e il nuovo ponte sul fiume Neretva è stato inaugurato il 23 luglio 2004”.
Notevole è il nuovo lavoro di Erri De Luca, Il giorno prima della felicità, (Feltrinelli ), romanzo sulla Napoli che si ribella. E’ un contenitore di storie che ruota intorno al rapporto paterno tra un orfano dei Quartieri nei primi anni '50 ed il portiere del suo palazzo, don Gaetano. Il ragazzo, "lo Smilzo", apprenderà dal suo maestro quel che c'è da sapere per cavarsela, ma anche l'appartenenza al popolo della sua città. Una specie di "iniziazione della coscienza". Le storie di don Gaetano danno luce alla storia del ragazzino, monca di memoria. Sullo sfondo la Napoli delle Quattro Giornate, che si ribella e conosce la libertà, una città diversa ed opposta rispetto all’attuale, dove la politica trova poco spazio ed è difficile combattere "contro un nemico che è Napoli stessa".

Erri De Luca


DON MAURIZIO DIFENSORE DELLA LIBERTA’



Don Maurizio Patriciello

Don Maurizio Patriciello, parroco di San Paolo Apostolo a Caivano, chiesa posta nel cuore del triangolo della morte descritto magistralmente da Saviano in Gomorra, si batte da anni al fianco della sua gente contro il degrado dell’ambiente, respirando senza timore gli stessi veleni di morte, accendendo attraverso petizioni e denunce l’attenzione su questi territori violentati.
Per anni le sostanze tossiche prodotte dalle industrie del nord, dai fanghi di Porto Marghera agli scarti inquinanti di una miriade di industrie, dal Piemonte al Veneto, sono finiti nelle viscere di questa terra, una volta ubertosa, con la complicità della camorra e di politici corrotti.
Don Maurizio in Chiesa, al posto dei fiori, ha messo dei pomodori, belli a vedersi, ma pericolosi anche solo a toccarli, con un cartello ammonitore:”NON TOCCATELI”. Da tempo nel territorio dilagano dermatosi e, soprattutto, tumori in percentuale enormemente più alta del resto d’Italia.
Quella di don Maurizio Patriciello è una vocazione adulta, nata dopo un’esperienza cattolica e una nella Chiesa evangelica, dopo anni di dubbio e  di allontanamento. Era caporeparto in ospedale ma un giorno «diedi un passaggio in macchina a un frate francescano scalzo. Mi sono incuriosito e ho cominciato a parlargli. Da tempo mi portavo dentro domande cui non trovavo risposta, soprattutto dopo la morte di un ragazzo ventenne arrivato in ospedale dopo aver preso una scossa elettrica. Fra Riccardo mi ha ascoltato, mi ha parlato. Mi sono iscritto a teologia e, un anno dopo, ho lasciato l’ospedale per entrare in seminario. Era il 1984 e avevo 29 anni». L’incarico nella parrocchia di San Paolo apostolo è il primo per don Patriciello. «Un quartiere difficile dove sono stati sommati, soprattutto dopo il terremoto, gran parte delle povertà vecchie e nuove. Il vescovo mi disse di provare , ma di avvisarlo subito se sentivo che non potevo farcela. Non sono ancora andato».
Nel quartiere che, quasi per ironia della sorte, si chiama Parco verde, lo rispettano tutti, soprattutto per questo suo impegno a denunciare i mali che avvelenano anche i figli della camorra.
«Ma non sono un prete ambientalista. Don Primo Mazzolari, che è il mio maestro, amava dire che bisogna aiutare l’uomo a essere più uomo. E io cerco di agire da uomo prima ancora che da cristiano. Perché l’impegno per l’ambiente – che significa impegno per la salute, per l’agricoltura, per lo sviluppo – deve essere di tutti. Per la nostra generazione ormai è tardi, ma noi non possiamo smettere di sperare che questa terra possa tornare a essere fertile e sana».
Difficile crederlo guardandosi attorno. Cumuli di cenere denunciano i roghi con i quali si fanno sparire rifiuti tossici del Nord e scarti del lavoro  nero dei piccoli imprenditori locali. Plastica e copertoni sono combustibile per i veleni sparsi nell’aria. «Un fenomeno, questo dei roghi, che ci è valso il soprannome di terra dei fuochi, ma che», denuncia il prete, «alla fine è pure servito a scoperchiare un pericolo ancora maggiore. Perché quello che si vede in superficie è niente rispetto alle tonnellate di veleno che sono state seppellite qui sotto».
Veleni che stanno inquinando le falde acquifere, i terreni, l’aria e che, secondo le inchieste in corso, raggiungerebbero il loro apice di contaminazione nel 2064. Tante denunce degli ambientalisti ma, lo scrive anche Legambiente nel suo ultimo Rapporto, “nessun intervento concreto fino al grido di dolore di un piccolo e sconosciuto parroco che raccoglieva la voce del popolo inquinato”.
Grazie all’operazione incessante di sensibilizzazione delle coscienze si è giunti alla denuncia di sette vescovi che si sono rivolti a Bruxelles, denunciando il Governo italiano per quella “vera ecatombe” cui non mette fine.
Primo firmatario è il vescovo di Aversa, vicepresidente della CEI, Monsignor Angelo Spinillo: con lui anche gli altri sei vescovi della zona (Caserta, Capua, Acerra, Nola, Pozzuoli e Napoli) che firmano come “vescovi della terra dei fuochi”, ed i sacerdoti delle sette diocesi. 
Un documento molto duro, che chiede “ un inasprimento delle pene per questi reati” e denuncia una situazione in cui “i territori sono terribilmente e incredibilmente feriti e violentati da milioni di tonnellate di rifiuti industriali, altamente tossici, interrati o dati alle fiamme”. 
Sotto accusa i “criminali senza scrupoli”, le “aziende in nero che hanno sversato” e le Regioni del Nord chiamate in causa. 
«Nell’audizione dell’8 luglio», racconta don Patriciello, «ho chiesto che dopo le promesse comincino i fatti concreti. Si sta pensando anche a istituire una polizia ambientale europea che costringa i singoli Stati a intervenire in casi come questo». Che si allargano a macchia d’olio. «Dopo la nostra azione, a Caivano, i roghi sono diminuiti, c’è più monitoraggio, è difficile vedere i camion che in questi anni arrivavano dal Nord uscire dallo svincolo autostradale e lasciare qui il loro carico. Ma questo significa semplicemente che lo stanno portando da un’altra parte».
«Bisognerebbe equiparare i reati ambientali ai reati di mafia, evitare le prescrizioni, costringere i responsabili a pagare, fare in modo che le molto remunerate bonifiche non siano fatte dagli stessi che hanno inquinato per anni». Da un lato della strada ci sono i campi di asparagi, dall’altro cumuli di veleno. «Sono tra i prodotti più rinomati sulle tavole di tutto il mondo», dice il parroco indicandoli. «Oggi sono avvelenati, ma chissà, con l’impegno di tutti, forse questa terra tornerà ancora a essere la Campania felix di una volta».
Chi fa il bene deve saper sopportare l’ingratitudine! “Per colpa tua non vendiamo più niente”, è stato il grido di rabbia dei contadini contro Don Patriciello, invitato a limitarsi  a dire messa.  La contestazione è sorta durante un  sopralluogo con il ministro Nunzia De Girolamo nella Terra dei Fuochi.  Uno degli agricoltori si è avvicinato all’auto sulla quale si trovava Don Maurizio e gli ha gridato contro  con tutta la rabbia che aveva in corpo: ”Ognuno deve fare il suo mestiere. Tu stattene in chiesa a dire messa. Per colpa tua non vendiamo più nulla”. Mentre un altro con modi sgarbati gli ha intimato di farsi i fatti suoi.
La cosa non è sfuggita al ministro, ancora impolverata dal terreno della maxi discarica interrata sotto 10mila metri quadrati di campi coltivati a broccoli, asparagi e finocchi. Il ministro si è catapultato dalla macchina ed è corsa verso Don Maurizio. “Ho visto come l’hanno aggredita – ha detto – la battaglia per la legalità ha i suoi costi, ma io sono con lei e non ci fermeranno”. L’amareggiato commento del  parroco: “Qui tutti devono capire  quale cosa mostruosa ci troviamo ad affrontare. E non possiamo portare ogni giorno sulle tavole di migliaia di famiglie ortaggi e frutta avvelenati da far mangiare ai nostri bambini”.
Una cosa davvero “avvelenata” per la visita del ministro a Caivano.  E che fosse una protesta studiata a tavolino lo dimostra un particolare inquietante.  Dopo il sopralluogo nei campi sequestrati dalla Forestale, il lungo corteo formato da una cinquantina di auto si è avviata verso la strada provinciale, percorrendo una strettissima strada sterrata che corre tra i vari poderi, 
Ad un certo punto tutti sono stati costretti  fermarsi, perché la stradina era bloccata da una OPEL di colore grigio, lasciata in sosta in modo da non consentire nemmeno il transito di un pedone. Dalla radio di bordo degli addetti alla sicurezza è partito l’ordine di individuare il proprietario (si è poi scoperto che era di un agricoltore che si è giustificato affermando che stava  arando il suo campo e per questo non si è accorto di nulla) per farla rimuovere. L’attesa è durata più di venti minuti.
Il sospetto è che i proprietari e gli agricoltori di Ponte delle Tavole volessero togliersi un sassolino dalla scarpa e fare un “dispetto” al sacerdote ed al ministro. Poco prima, infatti, tre contadini che avevano aspettato che il ministro terminasse il sopralluogo, si erano avvicinati gridando la loro disperazione e chiedendo molte volte a gran voce: ”Diteci cosa possiamo e dobbiamo fare “.  Il Ministro ha risposto loro di avere fiducia e si è infilata in auto. La risposta non è stata gradita dai contadini che hanno preso a discutere vivacemente con don Maurizio e l’oncologo Antonio Marfella.
La cosa sembrava essere finita lì, poi è scattata la ritorsione. Con quell’auto grigia a bloccare il corteo ministeriale e la contestazione diretta al parroco  della Terra dei Fuochi che ha incassato la solidarietà del ministro e quella di  Paolo Romano, presidente del consiglio regionale: “ A don Maurizio Patriciello esprimo la più convinta solidarietà per le contestazioni subite ed il più vivo incoraggiamento a proseguire sulla strada intrapresa, che ha consentito di portare alla luce il dramma che, ancora oggi, si consuma nella Terra dei Fuochi”.


Don Maurizio Patriciello




terra dei fuochi

Don Patriciello e l'oncologo Antonio Marfella