martedì 17 dicembre 2013

Le Modalità di Resistenza al Contatto



La qualità del contatto dipende dal tipo e dall’entità dei meccanismi di difesa che mette in atto
la persona quando entra in relazione. In gestalt, tali meccanismi di difesa sono chiamati
modalità di resistenza al contatto. Tale modalità sono patologiche soltanto nel momento in cui
sono croniche e abituali e sono utilizzate per evitare il contatto. Esse sono:

  • la confluenza,
  • la proiezione,
  • la retroflessione,
  • l’introiezione
  • e la deflessione

Nella confluenza si vive un rapporto simbiotico con l’altro e non vi è reale percezione del confine Sé -altro da Sé: è una sorta di “simbiosi” dell’individuo con la comunità, madre, compagna. Segna l’appartenenza, la comunione. Il “ritiro” che segue, permette di riprendere possesso del “confine-contatto” e di ritrovare la singolarità e differenza. La confluenza si incontra anche in molte coppie, in cui ciascuno dei due partner non si autorizza alla minima attività autonoma, vissuta come tradimento. A livello sociale si assiste, analogamente, a tutte quelle adesioni secondo fanatismo e dogmatismo senza alcuna differenziazione autentica. Il terapeuta lavorerà sul territorio di ciascuno e sul confine al fine di autorizzare il soggetto confluente a emanciparsi senza il timore di essere abbandonato. La confluenza è, pertanto, patologica soltanto se la percezione di qualcosa non porta ad una discriminazione dei punti di diversità e di unicità che la distinguono. Le parti in precedenza separate vengono legate, ma senza la creazione di qualcosa di funzionale. Il terapeuta lavorerà sul territorio di ciascuno e sul confine al fine di autorizzare il soggetto confluente a emanciparsi senza il timore di essere abbandonato.

Nella proiezione attribuiamo all’altro aspetti, bisogni, emozioni, pensieri che invece appartengono a noi. E’ la tendenza ad attribuire all’ambiente la responsabilità di qualcosa che trae origine da sé, ad esempio il paranoico diffidente rimprovera a tutti coloro che lo circondano l’aggressività che lui stesso proietta sugli altri. Esiste, comunque, una proiezione “sana” che permette la comprensione degli altri. L’intervento terapeutico è facilitato dal
lavoro di gruppo mediante il quale avviene il confronto e la presa di coscienza: infatti, in esso si instaura un rapporto di autenticità e di solito il “proiettore”, si riconosce.

Nella retroflessione si rinuncia a qualsiasi tentativo di influenzare il nostro ambiente, diventando entità autosufficiente: io invado il mio stesso mondo interno (io mi amo troppo= retroflessione). Si rivolge a se stessi l’energia mobilitata, nel fare a sé ciò che vorremmo gli altri ci facessero.
La maggior parte degli impulsi retroflessi contiene aggressività e da ciò che ha origine il senso di colpa. la terapia, nella retroflessione, consisterà nell’incoraggiare qualsiasi espressione delle emozioni, amplificare quest’ultime, laddove è opportuno fino a una catarsi liberatoria, grazie anche ad oggetti transazionali, simbolici, rappresentando la persona odiata/amata.

Nell’introiezione l’individuo si sente soddisfatto di sé se fa coincidere i propri bisogni con quelli dell’altro o dell’ambiente. Attraverso le introiezioni, la cultura ci trasmette le norme, i codici di comportamento, il linguaggio. L’introiezione definisce dentro di noi i «devo» e i «non devo», che rendono accettabili o inaccettabili le nostre idee, i nostri valori, le nostre azioni.
La persona, quando usa l’introiezione, si adatta passivamente all’altro e alle situazioni che ne derivano. Utilizza molte energie per minimizzare le inevitabili differenze dall’altro e per spegnere l’aggressività che serve per discriminare ciò che va assimilato da ciò che va rifiutato.
Se gli altri agiscono in un modo contrastante dal suo, preferisce adeguarsi agli altri per non contrapporsi. Ad esempio, una persona può avere introiettato «devo essere responsabile nel mio lavoro». Qualora si trovasse oberato dal troppo lavoro, perché i colleghi hanno scaricato su di lui anche il proprio lavoro, e se la persona vive l’introiezione in modo rigido e non flessibile, si sentirà in dovere di farsi carico anche del lavoro che gli altri gli hanno passato, per adeguarsi alla sua forte norma interna. Il confine-contatto risulta facilmente invaso dagli introietti. Per rendere più funzionali il terapeuta è attento a sviluppare la consapevolezza del processo di scelta personale. In Gestalt, il terapeuta cerca esplicitamente di sviluppare l’autonomia del suo assistito, la sua responsabilità e assertività, e di smascherare, dunque, qualsiasi rifugio illusorio nell’introiezione.

Infine la deflessione, definita da Polster come: “manovra per distogliersi dal contatto diretto”, è un modo di togliere il calore al contatto attuale, per mezzo di circonlocuzioni, parlare troppo, ridere su ciò che si dice, non guardare direttamente la persona con cui si parla, essere astratti piuttosto che specifici ... parlare su piuttosto che parlare a, e banalizzare l’importanza
di ciò che si è appena detto”. In determinate situazioni, tale meccanismo potrebbe essere funzionale, quando abbiamo la consapevolezza che in uno specifico momento vogliamo evitare il contatto, perché abbiamo bisogno di tempo per noi, per riflettere o perché scegliamo consapevolmente di non entrare in contatto. Abbiamo la libertà delle nostre scelte. Ciò che conta per la Gestalt è esserne consapevoli perché solo così si è veramente liberi di scegliere.


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