lunedì 2 aprile 2012

Nascita e trionfo della natura morta

Pittori del Seicento napoletano



La nascita della natura morta in Italia è legata al genio rivoluzionario del Caravaggio che con la sua esplosiva dichiarazione: «che tanta fatica gli era a fare un quadro di figure che uno di frutta» distrusse quel principium distinctionis che relegava come in un ghetto la pittura di genere considerata un’attività meno nobile.
Ai primi del Seicento infatti era ferrea legge che l’importanza di un dipinto fosse commisurata in base al soggetto raffigurato. L’idea che presiedeva al concetto di bellezza di un’opera d’arte era quella dell’estetica classica che si basava su modelli metafisici, archetipi irraggiungibili della realtà oggettiva.
Caravaggio, creando un dipinto impostato sulla sola composizione di oggetti, affrontò con fermezza il problema della rappresentazione ed attraverso la famosissima Fiscella, oggi all’Ambrosiana, fornì una nuova chiave di lettura della verità naturale, «quasi un manifesto, prova baldanzosa da polemista che non teme paragoni» (Causa).
La Fiscella non è un frammento, ma un’opera finita, che vive e respira una sua vita autonoma, è la creazione di un artista che non credeva più ai canoni della bellezza antica ma soltanto alla realtà che gli derivava dall’esperienza dei sensi, della quale la pittura doveva essere uno specchio fedele.
La natura morta ebbe successo là dove la cultura era laica e borghese, aperta ed antidogmatica, in Olanda, un paese estraneo all’area cattolica. Ben altre difficoltà incontrò il genere per affermarsi in Italia, in Spagna, in Francia.
Il lungo periodo durante il quale la natura morta, anche se accettata, è stata considerata un genere minore dalla cultura accademica ha influito sulle nostre conoscenze, perché per secoli è stata tenuta ai margini degli studi e dei musei. Amata soltanto da una classe di collezionisti privati, ha risentito gravemente della dispersione e della polverizzazione di tante raccolte, causate dalla estinzione delle casate, da maldestre divisioni ereditarie seguite all’abolizione del maggiorascato, dal semplice declino economico che constringeva a malincuore a vendere i gioielli di famiglia.
Le origini primigenie della natura morta napoletana continuano pervicacemente a sfuggire alle indagini più accurate, come in gran parte sfuggivano allo stesso De Dominici, che principiava il suo capitolo sull’argomento a discorso già iniziato, parlando di Luca Forte e del Porpora e confessando candidamente di non aver notizie sufficienti sui maestri più antichi.
Una testimonianza su questi sconosciuti iniziatori del genere ce la fornisce il Tutini, il quale asserisce: «in pinger poi fiori e frutti dal naturale celebri assai furono Luca Forte, Jacopo Russo et Ambrosiello e tutti furono napoletani et altri celeberrimi pittori». Ed in un secondo manoscritto aggiunge un altro nome: «cito Angelo Mariano da Napoli celebre pittore», al quale gli studiosi debbono affiancare, tra i primissimi, Angelo Turcofella, cui si riferisce un documento di pagamento del 1620.
Nomi senza opere, ancora alla ricerca di una fisionomia artistica che ce li renda più familiari.
Ambrosiello Faro compare in un «notamento» del 1648, pubblicato dal Ruffo nel 1916 e nella grande mostra sulla natura morta tenutasi a Napoli nel 1964 fu presente con un dipinto di frutta assegnatogli ipoteticamente per i suoi caratteri arcaici dal Causa, attribuzione che negli anni successivi lo studioso ritenne non potesse essere più sostenuta.
Antonio Mariano, dopo la citazione nel manoscritto del Tutini, non è mai più ricomparso nelle fonti successive, né ci è nota alcuna sua opera.
Angelo Turcofella è venuto a galla grazie ad un documento di pagamento che gli si riferisce del 21 gennaio del 1620, nel quale gli vengono pagati 80 ducati «in conto di certi quadri che fa di pittura ad oglio di certi fiori».
Se questi generisti minori sono ancora poco più che un nome per gli studiosi, ben diversa è la situazione per Luca Forte e Jacopo Recco (erroneamente indicato come Russo nel manoscritto autografo). Nelle opere di questi artisti possiamo cominciare a distinguere, perché ben delineati, i caratteri precipui della natura morta napoletana che sottopone il caravaggismo ad un bagno di visionarietà romantica con i frutti: mele, uva, fichi, melograne ed i fiori più disparati sottoposti ad una spietata indagine luministica, che ci restituisce la rappresentazione nella compattezza della sua piena volumetria, con una cura meticolosa nella definizione dell’esteriorità delle forme, rese con precisione nelle loro rugosità, nelle variazioni cromatiche tanto raffinate da fare apprezzare la vita palpitante che è racchiusa all’interno della materia, con la linfa che sgorga copiosa dando vitalità ed energia ai sapori ed agli odori, che miracolosamente sembrano manifestarsi e potersi cogliere con lo sguardo attento e non più con il gusto o con l’odorato.
Gli studi sulla natura morta napoletana debbono, come sempre, partire dalle notizie che ci fornisce il De Dominici, preziose e a volte bussola indispensabile per le ulteriori ricerche.
Quasi nulli sono i contributi degli altri storici, fino agli anni tra le due guerre che vedono i brevi saggi del Marangoni, del Cecconi e dell’Ortolani, in occasione della stesura del catalogo per la grande mostra del 1938.
Ci sarà poi l’infaticabile ed originale avventura di quella complessa figura di ricercatore di documenti che fu Ulisse Prota Giurleo, al quale tanto debbono gli studi sulle arti figurative, e non solo quelli: «talpa paziente di null’altro interessata, nei cunicoli scuri degli archivi, che di imbrigliare contratti matrimoniali e fedi di battesimo, e qui ripescare d’intuito quei segni esterni che potessero restituirci come persone vive le scolorite larve di nomi oramai privi di consistenza storica» (Causa).
Le ricerche degli specialisti, dopo i saggi pioneristici dei primi anni Sessanta e la grande mostra tematica tenutasi a Napoli nel 1964, ebbero una impennata nel 1972 con la pubblicazione del saggio del Causa, vera bibbia sull’argomento, alla quale hanno attinto tutti gli studiosi successivi.
Molti i contributi e le precisazioni del Bologna, spesso attraverso schede esaustive a corredo di rassegne antiquarie, dato il grande interesse commerciale che ha suscitato il genere presso i collezionisti privati.
La grande monografia sull’argomento, coordinata da Federico Zeri e per la parte napoletana curata da Nicola Spinosa, vede la luce nel 1989. Nell’ultimo decennio pochi i contributi, tra cui stimolanti quelli del De Vito, che tante polemiche hanno suscitato per le rivoluzionarie tesi a volte sostenute. Ultimo in ordine di tempo, ma con proposte nuove e stimolanti un catalogo della Galleria Canesso di Parigi.
Nel certame attribuzionistico molte certezze hanno vacillato, nuove ipotesi, suggerimenti, proposte, riclassificazioni sono state avanzate, il corpus di alcuni artisti è stato ridotto o ampliato, mentre alcuni maestri sono stati trasferiti da un’area geografica all’altra. Tra gli emigranti di lusso il Verruchius, il Maestro del Metropolitan. il Maestro della Floridiana e, pronto a fare le valigie, anche il tanto osannato Maestro di Palazzo San Gervasio.
Molte incertezze regnano ancora sulla materia e molti sono i dubbi attributivi e le questioni che attendono una più puntuale precisazione documentaria, tanto da far auspicare, anche se da prendere come una provocazione, «un’azzeramento quasi totale delle conclusioni critiche e storiografiche passate ed una nuova ripresa degli studi sull’argomento con occhi nuovi e con mente sgombra da ipotesi precostituite e da pregiudizi di parte» (Spinosa).
Per far progredire gli studi sarebbe quanto mai opportuno organizzare un grande mostra sulla natura morta napoletana, ponendo gli uni vicino agli altri i soli dipinti firmati o documentati, per poter operare gli opportuni confronti; un'impresa non facile per la dispersione di tali tele in raccolte private, difficili da identificare e spesso situate all'estero.
Nonostante le incertezze attributive ed il ritardo degli studi, la natura morta napoletana, risorta dopo un oblìo di secoli, rappresenta oggi una realtà estetica indiscutibile e costituisce uno dei patrimoni più cospicui che il genere abbia prodotto in Europa nel corso del Seicento, indefettibile testimonianza di un primato nelle arti figurative che la nostra città ed i suoi abitanti, smarriti nelle tristi tribolazioni della dura realtà odierna, faticano e quasi dubitano di avere per così  lungo tempo esercitato.
L’avvio, nei primi decenni del secolo, risente del fecondante messaggio che i fiamminghi irradiano in tutta Europa, sedimentato dall’esperienza caravaggesca, che ci perviene da Roma, divenuta di nuovo centro propulsore del nuovo verbo. Anche dalla Spagna giungono gli echi del successo che il genere sta riscuotendo, ma gli scambi non saranno a senso unico, come lentamente gli studi stanno dimostrando. A Napoli si costituiranno vere e proprie consorterie con dinastie di specialisti legati da vincoli di sangue come i Recco e i Ruoppolo, che monopolizzeranno per decenni il mercato, divenuto cospicuo per le richieste crescenti da parte di una borghesia laica, che considera la natura morta uno status symbol da esibire e di cui compiacersi, né più né meno di come era accaduto nel nord Europa alla nascita del genere.
Nei primi tempi la natura morta a Napoli fece una timida comparsa prevalentemente attraverso brani, anche cospicui, ai margini di composizioni di carattere sacro o profano che fossero, spesso con inserti d’altissima qualità e con caratteristiche di intensità e verità visiva da sfidare le più brillanti prestazioni dei pittori «maggiori». Nei quadri del Falcone e dello Stanzione cominciano ad apparire sempre più ampi ed articolati stralci di natura morta, di pregnante corposità, sui quali si sono arrovellate senza trovare una risposta soddisfacente generazioni di studiosi, ansiosi di decifrare la mano di un misterioso collaboratore specialista.
Ed argomento da non trascurare per gli studi futuri è l’accertamento della possibilità che artisti, anche famosi, non disdegnassero di cimentarsi in un genere allora considerato minore.
A dimostrazione di questo assunto ci sono l’inventario dell’eredità di Sellitto, tra i più antichi seguaci del Caravaggio, morto nel 1614, nel quale erano descritti numerosi quadri non proprio sacri: «nove quadri piccoli di frutta con peschi e altre cose ... sei quadri di frutta et animali ... due quadri uno con l’orologio et l’altro con la giara». Ed inoltre con grande stupore è stata accolta la scoperta da parte di Federico Zeri di un Andrea De Lione pittore di natura morta; che dire poi del Filippo Napoletano di cui parla il De Vito?
L’enigmatica figura del Maestro di Palazzo San Gervasio, delineata dal Causa nel 1972 e per lungo tempo considerata una delle più antiche nell’ambito della nascita del genere a Napoli, è tuttora sub iudice.
La Tecce, nella scheda relativa del catalogo della mostra sulla civiltà del Seicento, oltre a ripercorrerne puntigliosamente la vicenda attributiva, concludeva, senza tema di smentite, che la grande natura morta da cui prende il nome convenzionale l’artista andava ascritta all’ambito napoletano, ribadendo l’intuizione del Causa che riteneva il pittore attivo non solo nel vicereame, ma anche a Roma ed in Spagna, a partire dal secondo decennio del secolo.
Il Bologna viceversa, nel corso di una memorabile conferenza tenuta a Villa Pignatelli nel 1984, asseriva la non appartenenza del maestro all’area napoletana e la sua collocazione cronologica successiva a Luca Forte ed ai primi tempi del genere a Napoli, pur escludendo recisamente ogni riferimento a Giovan Battista Crescenzi, ipotesi propugnata, anche in anni successivi, dalla Gregori.
Nella monografia del 1990 sulla natura morta Spinosa, pur cauto sulla questione, non dedica un paragrafo al Maestro di Palazzo San Gervasio, mentre alcune sue opere, che Causa faticosamente gli aveva riferito, si trovano aggruppate sotto altre aree geografiche ed altri nomi, tra cui quello di Pietro Paolini, un artista di scuola lucchese.
Tenuto conto delle reali difficoltà di individuazione non solo dell’area geografica, ma anche dell’esatto momento di esecuzione dell’opera principale che gli viene attribuita, Natura morta di frutta e fiori con una colomba in volo, conservata nel municipio del comune di Palazzo San Gervasio in Lucania, riteniamo opportuna per il momento una sospensione del giudizio, pur essendo del parere di considerare ancora attualissima e pregnante l’ipotesi del Causa, che si basava su una lettura dell’opera come sempre acuta e  puntuale: «un maestro intento a monumentali esercitazioni di stile, impostate con semplicità primigenia e possente, nel sogno di una particolare fiscella che ingrandisce a dismisura, trabocca, si moltiplica in tanti episodi successivi sostanzialmente univoci, stratificandosi come in una primigenia concrezione di rocce, schisti e basalti, e pietre rare di miniera».
Come pure il Causa seppe cogliere il carattere arcaico della composizione di poco posteriore alle esperienze caravaggesche: «questo scandire delle ombre che potenzia il giuoco cromatico, questa sapienza compositiva entro il modulo arcaico dell’allineamento, ... il giuoco di frutta, foglie e fiori, il bouquet esplosivo, la caraffa trafitta di luce, il ramicello proteso nel vuoto».
Avvolto ancora nell’ombra l’itinerario artistico di Giacomo Recco e ridimensionato dagli studi più recenti, oltre che spostato cronologicamente in avanti, il ruolo di Paolo Porpora, Luca Forte, (Napoli? 1600/1605 circa - prima del 1670) risulta oggi la più antica personalità delineata storicamente tra i pittori napoletani dediti alla natura morta. Le poche notizie che possediamo ci permettono di ricostruire approssimativamente la sua data di nascita e di morte.
Il De Dominici ce ne parla nella biografia del Porpora, che sappiamo nato nel 1617, del quale deve essere senz’altro più vecchio, inoltre dal Prota Giurleo veniamo a sapere che presenzia come testimone al matrimonio di Aniello Falcone, nato nel 1607, di cui perciò deve essere più anziano, per inveterate consuetudini. Viceversa la data di morte possiamo collocarla cronologicamente prima del 1670, anno in cui si parla del pittore al passato in un antico manoscritto citato dal Ceci nel 1899.
Questa ultima circostanza ci conferma la presenza di Luca Forte nella bottega falconiana o, quanto meno, frequentatore di quella sorta d’accademia di studio dal vero che, intorno agli anni Trenta, raccolse a Napoli numerosi pittori.
Le notizie forniteci su di lui dal De Dominici, per quanto possano essere poco esatte perché il biografo narra gli avvenimenti dopo circa un secolo, ci permettono in parte di ricostruirne il cammino stilistico. Infatti il De Dominici ci riferisce che «le sue pitture non hanno troppo avanti e indietro e tutte le cose sono messe quasi a fila una dopo l’altra sul medesimo piano» tale indicazione è stata tenuta in gran conto da tutti gli studiosi che hanno cercato di identificare il percorso della produzione di Luca Forte, fino al recente ritrovamento di una Natura morta con vaso di fiori, frutta e limoni in una collezione napoletana da parte del Bologna, che ha permesso una rilettura del passo dedominiciano, nel senso che la produzione più antica del Forte sarebbe proprio quella caravaggesca «dell’avanti e dell’indietro», mentre quella più matura si evolverebbe verso un criterio compositivo più elaborato e proiettato su tutta la superfice del dipinto.
La prima ricostruzione della personalità del Forte fu fatta dal Causa che identificò tre sue opere siglate o firmate, che hanno fatto da raffronto per assegnargli altre tele. Esse sono: la Natura morta con frutta e uccelli, siglata, del Ringling Museum di Sarasota, la Natura morta di frutta e fiori, firmata, della collezione Molinari Pradelli e la Natura morta, firmata, già presso la galleria Matthiesen di Londra.
Negli anni più recenti sono state rinvenute altre tele siglate o firmate, che hanno permesso di allargare il catalogo dell’artista, sul quale permane il mistero della collocazione cronologica delle varie opere, per una soltanto delle quali è possibile stabilire un termine ante quem al 1647. Si tratta della celebre tela già Mortimer Brandt, oggi di proprietà del Ringling Museum di Sarasota che presenta, oltre alla sigla, una dedica ad un nobile napoletano, don Giuseppe Carafa, che venne lapidato nella chiesa di Santa Maria la Nova nel 1647.
L’attività del Forte si è probabilmente espletata tra il 1625 ed il 1655, ma il periodo di maggiore maturità artistica è considerato dalla critica più avveduta quello che va dal 1640 al 1650, sulla base anche di un carteggio intercorso nel 1649 tra il pittore ed il nobile mecenate messinese don Antonio Ruffo, dal quale si evince che il Forte poteva pretendere per un suo dipinto la ragguardevole cifra di duecento ducati. Un’altra circostanza che conferma il successo raggiunto dall’artista è la presenza di alcune sue tele negli anni Quaranta in una importante collezione madrilena, quella di Juan Alfonso Enríquez De Cabrera, che era stato viceré di Napoli dal 1644 al 1646. Tale constatazione, oltre a dimostrare la sua posizione preminente nell’ambito della prima natura morta napoletana, ci conferma gli stretti rapporti che il nostro artista ebbe con altre culture europee. Anche il guardaroba di Madama Reale a Torino riceve nel 1642 due suoi quadri di frutti.
E tali influssi reciproci si possono registrare non solo nei riguardi della Spagna, ma anche verso il nord Europa, patria riconosciuta del genere, come ci dimostra l’attento esame della tela Albero di pesche con tulipani e pappagalli, già d’Avalos, oggi in collezione della Ragione a Napoli, della quale esiste una replica autografa (senza la presenza degli uccelli), segnalataci dal Labrot, nella raccolta privata di Paul Getty a Malibu. Il Forte in questo dipinto utilizza una luce distribuita irregolarmente ed alleata con la penombra, esaltando così la rotondità dei frutti, il tutto in un’atmosfera di asciutto dettato naturalistico, ma soprattutto rappresenta i tulipani, presenti anche in altre due tele segnalate dalla Gregori, che sono un soggetto estraneo alla tradizione della natura morta non solo napoletana ma italiana, un tema viceversa molto frequente in Olanda, a partire dagli anni Trenta, sotto la spinta del successo commerciale di questo fiore.
Una tela che sta facendo tanto discutere e che dimostra lo stato di grande confusione attribuzionistica che regna oggi negli studi sulla natura morta napoletana è costituita dalla famigerata Natura morta con la tuberosa della Galleria Corsini di Roma, che «presenta una struttura compositiva più semplificata, con gli oggetti raffigurati su un unico piano, su cui la luce si posa stagliando vividamente le forme sul fondo scuro e definendone il volume, secondo le modalità tipiche del naturalismo caravaggesco» (Tecce).
Questa tela fu considerata dal Causa e dal Volpe il momento iniziale dell’artista, anche sulla base di un presunto monogramma nel tralcio di vite e tale parere è stato confermato da tutti i principali studiosi, fino a quando nel 1990 il De Vito, non credendo all’esistenza del monogramma e facendosi forza con argomentazioni scientifiche difficili da seguire per chi non sia esperto di ottica, ha proposto come autore il nome di Filippo Napoletano, sulla base di analogie stilistiche con le poche tele riferite con certezza al pittore attivo presso i Medici dal 1617 al 1621.
Preso all’inizio come poco più che una provocazione, il parere del De Vito ha in seguito incontrato il consenso di autorevoli studiosi, quali la Gregori ed i curatori delle mostre tematiche tenutesi a Roma negli ultimi anni, tra cui Caravaggio e i suoi, nel corso della quale la tela è stata presentata come di ignoto pittore romano attivo nel terzo decennio del XVII secolo.
Questa convergenza di pareri ha fatto sì che lo stesso cartellino del museo ove la tela è conservata non porti più il nome dell’artista napoletano.
La critica attualmente tende ad escludere l’attribuzione sia a Luca Forte che a Filippo Napoletano, ancora troppo poco conosciuto e, seguendo quella che fu una proposta avanzata già dallo Sterling nel 1959, esclude che la tela sia napoletana e la colloca in ambito romano, in quel particolare momento d’inizio della natura morta caravaggesca, quando spuntano le figure ancora non ben definite del Maestro di Hartford, di Bonzi, di Salini, del Crescenzi e dello sfuggente Maestro della natura morta Acquavella.
Stupefacente è il paragone, proposto da alcuni studiosi, di affiancare la tela in esame alla Natura morta di frutta su un tavolo con un’alzatina ed una zucca presentata alla mostra romana del 1995 sulla natura morta ai tempi del Caravaggio, alla quale la legano strettamente affinità compositive, stilistiche e formali e soprattutto l’uso spettacolare della luce che sembra sgorgare miracolosamente ad illuminare dal buio fiori bianchissimi e frutti stagliati su un fondo che più nero non si può.
Oggi gli studiosi, mentre nuove opere siglate o assegnabili per raffronti stilistici incrementano il catalogo dell’artista, tendono a distinguere una evoluzione nel cammino del Forte, cogliendo un momento di trapasso tra la fase più schiettamente caravaggesca e le esecuzioni successive, che preludono al momento finale, coincidente con l’esordio sulla scena di Porpora, Giuseppe Recco e Giovan Battista Ruoppolo, nel quale egli tende a rialzare la composizione in senso verticale, obliterando la profondità di campo e smorzando quasi del tutto i secondi piani.


Sulla scia di Luca Forte va studiato l’operato di tre personalità di artisti che si ricollegano alla sua severa lezione realistica, mutuando, anche se in tono minore, la serrata e lucida capacità di definizione volumetrica.
Si tratta di un ignoto Monogrammista S.B., di Francesco Antonio Cicalese e dell’ancora anonimo Maestro della Floridiana.
La prima figura, il Monogrammista S.B., ancora poco conosciuto dagli studiosi, è stata diligentemente delineata dal De Vito nel 1990, il quale, espungendo dal catalogo di Luca Forte alcune opere come Frutta, dolce e uccellini di collezione privata, ha identificato la sigla S.B. e la data 1655 in due tele conservate in collezione Lodi, nelle quali vi è la stessa serie di oggetti che si osserva in altri dipinti, tra cui un dolce ripetuto alla perfezione tanto da costituire la firma nascosta dell’autore.
Negli ultimi anni il famigerato dolce e taluni altri particolari patognomonici dell’artista, quali l’uccellino morto rovesciato all’indietro sul piano di appoggio oppure un tenero ramoscello posto ai margini della composizione, sono comparsi in numerose opere passate sui mercati antiquariali internazionali con le attribuzioni più disparate, segno evidente della scarsa conoscenza di quest’ancora misterioso monogrammista, che pensiamo al momento possa collocarsi cronologicamente tra il V ed il VII decennio, in area centro italiana e nutrito su testi meridionali da Luca Forte al Quinsa.
Francesco Antonio Cicalese è attivo a Napoli intorno alla metà del XVII secolo e di questo artista minore, ma citato dalle fonti, non possediamo alcun dato biografico.
Fu il Causa a pubblicare la sua prima opera, firmata e datata 1657, Natura morta di frutta e fiori in un paesaggio che comparve presso la galleria Sant’Anna di Zurigo nel 1954.
In seguito sono comparsi due ovali in collezione Calogero a Napoli, firmati per esteso e databili 1642, nei quali palpabile è la relazione con i quadri di Luca Forte, nel comune trattamento luministico di derivazione caravaggesca e nella sagomatura del piano di appoggio.
Negli ultimi anni della sua attività il pittore si dedicò anche ad altri generi, come è confermato da una tela raffigurante Sant’Antonio da Padova in gloria, firmata e datata 1685 e conservata a Napoli nella chiesa di San Severo alla Sanità.
Modesta è la personalità del Maestro della Floridiana, un nome di intesa intorno al quale il Causa raggruppò un certo numero di nature morte legate da consonanze formali e stilistiche; in particolare tre tele di Frutta esposte a Napoli nel museo Duca di Martina nella Floridiana da cui il nome del Maestro ed una nei depositi di Capodimonte. In seguito il Causa segnalò altre due opere presso il museo civico di Prato e precisò i termini cronologici della sua attività che protrudevano oltre la metà del secolo.
La sua attività, attraverso «una scrittura secca e tagliente sul tipo di quella praticata dai generisti napoletani più nordicizzati della fase precedente» mostra notevoli somiglianze con l’ultima produzione di Luca Forte e qualche assonanza può essere rilevata anche con quelle poche opere assegnate con certezza all’altrettanto misterioso Quinsa.
Di recente la critica ha spostato l'ignoto maestro fuori dell'ambito napoletano.
La prova più tangibile dei serrati rapporti di contiguità tra cultura figurativa spagnola ed il fresco caravaggismo propugnato da Luca Forte ci è fornito dalla personalità, ancora tutta da definire, di Giovanni Quinsa, noto per una sola opera, firmata e datata 1641, alla quale la critica ha affiancato per affinità stilistica alcune altre tele.
Lo spagnolo è probabilmente attivo a Napoli nel secondo quarto del secolo come si evince dallo studio delle sue opere, che fanno da tramite verso il viceregno per esperienze dei suoi conterranei Blas de Lidesma e Van der Hamen, oltre allo stesso Zurbaran.
Il Causa riteneva che il Quinsa potesse essere stato l’artefice dell’introduzione di una specialità che in Spagna ottenne molto successo: la realizzazione di interni di cucina, i famosi bodegones, che da noi troveranno un interprete esemplare in Giovan Battista Recco, al quale il Bologna ha assegnato definitivamente la nota Dispensa che per alcuni anni la critica ha reputato dello stesso iberico.
Una personalità quella del Quinsa ancora da esplorare a fondo, probabilmente cercando le sue tracce nelle antiche collezioni private spagnole.
A proposito del Forte e della Natura morta con tuberosa abbiamo citato il nome di Filippo Napoletano, proposto dal De Vito come autore della tela.
La figura dell’artista era stata tratteggiata dal Longhi nel 1657 e tra le sue opere lo studioso aveva citato un Rinfrescatoio, incluso negli inventarî medicei e del quale si era persa ogni traccia.
Si deve al Chiarini il recupero del dipinto dai depositi della galleria di palazzo Pitti e la ricostruzione dell’itinerario artistico del pittore che nell’ambito della natura morta lavora unicamente dal 1617 al 1621, quando è chiamato a Firenze dal granduca Cosimo II e dal cardinale Carlo de’ Medici.
Oltre al Rinfrescatoio, di chiara derivazione dagli esempi di natura morta caravaggesca, due altri dipinti di genere Due conchiglie, nei depositi di palazzo Pitti e Due cedri, nel museo botanico di Firenze, sono il segno tangibile degli interessi scientifico naturalistici del pittore, sulla scia di un’attenzione per gli studi dal vero catalizzata dall’operato del medico Johannes Faber di Bamberga.
Riguardo alla proposta del De Vito di assegnargli la Natura morta con tuberosa, il parere della critica tende oggi ad escluderla per la sostanziale estraneità nella resa luministica e nella raffigurazione del dato reale tra i due dipinti.
Giacomo Recco, (Napoli 1603 - prima del 1653) considerato dalla critica tra gli iniziatori della natura morta nella nostra città, ci è noto, più che per le sue opere, attraverso numerosi documenti d’archivio, che ci hanno permesso di puntualizzare i suoi dati biografici.
Citato da don Camillo Tutini tra i fondatori del genere a Napoli, viene poi ricordato in un manoscritto compilato tra il 1670 ed il ’75, reperito dal Ceci, come «pittore di fiori, frutti, pesci ed altro». Il De Dominici lo segnala come padre di Giuseppe. Il Prota Giurleo reperisce il contratto di matrimonio del 1627, da cui ricava la data di nascita ed il contratto di discepolato del 1632, con il quale viene messo a bottega presso Giacomo il quindicenne Paolo Porpora. Ed infine il Delfino ha pubblicato un documento del 1630, nel quale il Nostro entra in società con uno sconosciuto pittore, tale Antonio Cimino, con l’intento di esercitare la compravendita di dipinti e di eseguire «qualsivoglia quadri, et figure di qualsivoglia sorta ... ad oglio come a fresco».
Pur in assenza di tele certe e documentate, sulla base di queste poche notizie e di considerazioni di carattere stilistico, la critica ha ricostruito un catalogo dell’artista a partire da un «Vaso di fiori» in collezione Rivet a Parigi, su cui si legge la data 1626 e da una coppia di vasi di fiori in collezione Romano, di cui uno siglato «G.R.», di impostazione arcaica, tale da non generare dubbi con la sigla di Giuseppe Recco.
Negli ultimi anni, ad ulteriore conferma della confusione che regna sovrana in campo attribuzionistico, sono passati in asta numerose opere assegnate più o meno forzatamente a Giacomo Recco, che è così divenuto, da pittore senza quadri, artista di riferimento di una folla di anonimi autori di dipinti di fiori i più varii, nel cui ambìto contenitore di fiorante entrano ed escono le tele più disparate.
Le opere tradizionalmente attribuite a Giacomo Recco dagli studiosi più accreditati includono oltre alle tre già riferite il Vaso con fiori con lo stemma del cardinale Poli, già assegnato a Giovanni da Udine intorno alla metà del secolo XVI e ricondotto in ambito seicentesco e napoletano dal Causa, assieme ad altri due vasi pubblicati dallo Sterling, sempre come opera dell’allievo di Giulio Romano (sono firmati ... e datati 1538 e 1553!) ed anch’essi senza dubbio di epoca successiva.
Altro vaso che presentando caratteri analoghi, è stato da Veca aggiunto al corpus di Giacomo Recco è il Vaso di fiori con lo stemma della famiglia Spada.
La precisa collocazione cronologica di questi vasi è stata possibile grazie ad un attento studio degli stemmi nobiliari, per i quali decisivo è stato il contributo fornito da Federico Zeri.
Questa minuziosità e precisione dei particolari nelle raffigurazioni delle effigi nobiliari ci mostrano un Giacomo Recco non solo artista di grande abilità e di profonda cultura, ma anche sapiente di araldica ed esperto in significati simbolici, oltre che profondo conoscitore delle esperienze figurative fiamminghe. Inoltre era probabilmente nella condizione di pittore affermato, in grado di essere quotato nel giro che conta, così da ricevere commissioni da importanti cardinali e da nobili famiglie. Tutto ciò è in pieno contrasto con le condizioni della bottega del Recco come ci viene prospettata dalla attenta lettura del documento recentemente scoperto dal Delfino, da cui si evince che vi si commerciassero quadri di ogni genere e di non grande qualità.
Le opere raggruppate sotto il nome di Giacomo Recco, pur nell’ipotesi che la critica cambi completamente le sue valutazioni da un momento all’altro, presentano una serie di caratteri distintivi molto particolari, che sono espressione di una personalità artistica ancora attirata dal repertorio cinquecentesco ricco di fregi e di decorazioni, poco o nulla toccata dai risultati delle indagini luministiche e nello stesso tempo fortemente influenzata dalla leziosità ed artificiosità dei fioranti fiamminghi.
Il vaso assurge a punto focale della composizione e, riccamente decorato, ha pari dignità con i fiori, disposti sempre simmetricamente ed illuminati in maniera innaturale, pur se definiti minuziosamente nella loro verità ottica, tanto da sfidare la precisione scientifica di uno Jacopo Ligozzi.
E sono vasi originalissimi, sfingi bizzarre, maschere leonine che richiamano antiche borchie. I fiori sono tutti variopinta espressione del precoce sboccio primaverile: narcisi, giacinti, calendule, anemoni. Essi sono staccati l’uno dall’altro con alcune corolle rivolte verso il basso  e sono indagati separatamente anche quando si sovrappongono, affollandosi sul fondo scuro. L’esecuzione un po’ calligrafica tradisce un’aria antica che ci rammenta gli esempi anteriori, collegati dalla critica sotto il nome di un ipotetico Maestro del vaso a grottesche, operante nell’Italia centro-settentrionale nel primo quarto del XVII secolo. Il trattamento della luce è classico di un protocaravaggesco con un’attenzione puntigliosa all’esaltazione dei valori cromatici dei fiori, che sono disposti in maniera schematica e si materializzano verso chi guarda il quadro senza possedere profondità, a tal punto che traggono in inganno l’occhio dell’osservatore nella foto in bianco e nero, ove, non potendosi apprezzare il colore, appaiono tristemente bidimensionali.
Le matrici artistiche e culturali di Giacomo Recco sono difficili da definire, anche se bisogna considerare la presenza a Napoli intorno al 1590 di Jan Brueghel e la persistenza in città, come sottolineato dalla Tecce, di un manipolo agguerrito di tardo manieristi, attivo fino alla metà del terzo decennio del ’600. Un notevole influsso derivò senza dubbio dalla fama dilagante per l’Europa dei fioranti nordici, legati ad un decorativismo ancora di gusto cinquecentesco, e del tutto digiuni della lezione del luminismo caravaggesco che cominciava a plasmare la pittura di genere a Roma. La produzione pittorica che più si avvicina alle prove del Nostro è quella di Osias Beert il vecchio, come ha più volte puntualizzato nei suoi saggi il Veca.
La fama di Giacomo Recco è legata alla sua abilità di fiorante, quasi uno specialista nella specialità, e aumentò con ogni probabilità contemporaneamente a quella di Mario Nuzzi detto Mario dei fiori, a lungo erroneamente ritenuto regnicolo, il cui nome crebbe nei secoli, mentre il prestigio di Giacomo in poco tempo svanì quasi nel nulla, per riemergere faticosamente dopo oltre 300 anni di oblìo.
I tantissimi inventarî di collezioni napoletane raramente descrivono opere di Recco senior, quello del Vandeneynden riporta un suo quadro di frutti di mare e pesci. Altri documenti ricordano stranamente, uccellami e frutta, pesci ed una figura rappresentante la pietà, mai un vaso con dei fiori.
Seguendo questa traccia il De Vito, fortunosamente, ha identificato una tela eseguita in collaborazione e firmata per esteso: «Artemisia Gentilesca e Giacomo Recco». In questa tela, oggi ad ubicazione sconosciuta, si possono riconoscere nel brano di figura rappresentante un bambino biondo i modi pittorici della grande pittrice con la cura dedicata alle pieghe e «quel delicato fraseggio dei tocchi chiari e quelli scuri», mentre nella parte di natura morta risalta il ghiaccio inondato da un «brillío di cristalli che parrebbero quello della nera antracite, il pane croccante umido, l’ostrica ancora pulsante nella semivalva» (De Vito).
In tema di collaborazioni, un documento in cui Giacomo tiene a battesimo una figlia di Stanzione ci permette di ipotizzare che possa essere sua la mano che esegue i numerosi inserti di fiori che arricchiscono la base di tante composizioni del cavaliere Massimo e che hanno fatto arrovellare di ipotesi generazioni di critici.
Il sasso lanciato dal De Vito, sempre baldanzoso e provocatore, ha messo in crisi le opere «autografe» di Giacomo Recco, perché non sufficientemente documentate, essendo prive della firma ed, in ogni caso, non perfettamente inserite nel contesto storico sociale dell’epoca in cui vengono collocate. Sotto il fuoco di fila di queste contestazioni la figura di Giacomo perde sempre più spessore divenendo poco più che un indefinibile ectoplasma, e forse dobbiamo constatare che aveva ragione il De Dominici, quando affermava che la specialità a Napoli raggiunse gloria e considerazione solo con la generazione successiva, contrassegnata dalla folgorante apparizione sulla scena di Paolo Porpora.
Nelle ultime mostre, tra cui quella di Monaco Firenze 2003 e nelle ultime aste internazionali Giacomo Recco è completamente scomparso e la sua tanto celebrata attività di fiorante sembra attualmente confinata unicamente nelle carte dei biografi, mentre si definisce sempre più l'opera dei cosidetti Maestri dei vasi a grottesche, un gruppo anonimo di artisti operanti nei primi decenni del Seicento in diversi centri italiani. Lo stato degli studi sui dipinti di fiori della fase arcaica è ancora lacunosa ed al momento sono più i dubbi che le certezze. 
In particolare, ritornando a Giacomo Recco, il corpus di opere che a partire dagli anni Ottanta, sulla base delle indicazioni del Causa si era andato costituendo attorno al suo nome, soprattutto dipinti che presentano il corpo figurato con stemmi gentilizi è stato spostato da Mina Gregori, in un articolo pubblicato nel 1997, sulla base di indicazioni inventariali e di dati biografici nel catalogo di Tommaso Salini.
Con Paolo Porpora (Napoli 1617 - Roma 1673) entriamo nel pieno della storia della natura morta a Napoli.
Del pittore i documenti di archivio ci hanno fornito i dati biografici più significativi, ma un solo quadro porta la sua firma, per cui la ricostruzione del suo percorso artistico resta in gran parte ipotetica.
Egli appartiene alla seconda generazione di specialisti di natura morta, come ci conferma l’uso del passato nella descrizione del De Dominici: «Porpora dipingeva con miglior maniera e più bel componimento di quel che aveva dipinto Luca Forte». Lo stesso biografo ci fornisce l’elenco degli oggetti preferiti dal pittore nelle sue rappresentazioni: «pesci, ostriche, lumache, buccine ed altre conche marine, ed ancora lucertole, piccioni e cose da cucina». Come a voler far risaltare quella che fu l’originale specializzazione del Porpora, un unicum nel multiforme quadro della pittura di natura morta in Italia: il sottobosco, quel mondo affascinante e misterioso, dove la vita lotta contro la morte e del quale il nostro artista si dimostrò profondo conoscitore, esperto delle «più inconsuete specialità zoologiche ed entomologiche, l’esaltato cantore di splendidi monumenti vegetali, il morboso esegeta di rari bestiari e di malsani fremiti di palude» (Causa).
Il De Dominici ci riferisce che il Porpora ha frequentato la bottega di Aniello Falcone, palestra dei naturalisti  a passo ridotto, e tale circostanza ha fatto ipotizzare che fosse lui l’artefice dei numerosi brani di natura morta che arricchiscono le tele dell’«oracolo delle battaglie».
Un contratto di discepolato reperito dal Prota Giurleo lo vede quindicenne per tre anni allievo di Giacomo Recco, dal quale probabilmente derivò l’abilità nelle rappresentazioni floreali. Il matrimonio del Porpora avviene a Roma nel 1654, città dove si stabilirà definitivamente e lavorerà per circa venti anni, facendo parte dal 1656 dell’Accademia di San Luca, che nel 1673 gli pagherà messe di suffragio per la sua anima. Stranamente questo dettaglio, già segnalato nel 1933 dal Thieme Becker, e ribadito in anni più recenti da Spike, è sfuggito agli studiosi, i quali in testi anche autorevoli, come il catalogo della mostra sulla Civiltà del Seicento, continuavano ad indicare vagamente una data di morte tra il 1670 ed il 1680. La presenza di una sola opera firmata, un soggetto floreale identificato dal Briganti nella collezione romana del principe Agostino Chigi e l’assoluta mancanza di date, non permettono di definire una cronologia del suo percorso artistico se non in base a criteri stilistici. È perciò impossibile separare la produzione napoletana giovanile, da quella romana più matura.
Solo per le tele di «sottobosco» possiamo ipotizzare che nascano a Roma, dove sono presenti a metà secolo celebri specialisti stranieri come Otto Marseus van Schrieck e Matthias Withoos, i quali sono insuperati esperti nella rappresentazione di un microcosmo nascosto nell’oscurità, ove combattono per la sopravvivenza rane, rospi, serpenti e lucertole, in compagnia di granchi e conchiglie, farfalle svolazzanti e funghi stanziali in un brillìo di luci soffuse e di acque stagnanti che esplicano con magistero impeccabile le loro cupe ed illusionistiche fantasie.
Nei quadri a soggetto floreale il Porpora mostra  un’attenzione di matrice naturalista nella resa luministica dei petali dei fiori, delle foglie e della frutta, dimostrando la grande fantasia e l’afflato lirico del caravaggesco di razza, che è in grado di riprodurre con un rispetto della verità ottica straripanti costruzioni floreali, che nulla hanno in comune con le successive fastose e pompose creazioni dei fioranti barocchi.
Gli effetti cromatici di una corposità quasi tattile tutta partenopea sono puntigliosamente ricercati senza trascurare una cristallina definizione dei volumi.
Le sue composizioni trasudano gioia di vivere e colori vivaci e rappresentano senza ombra di dubbio uno dei più alti traguardi raggiunti dalla natura morta italiana, risultato ottenuto in un contrasto ben dosato di luci squillanti e melanconiche penombre.
I quadri che la critica ritiene tra i più antichi sono: Fiori, frutta e zucca e Fiori con coppa di cristallo entrambi a Capodimonte, eloquente esempio della sua indiscussa abilità di fiorante, che seppe coniugare sapientemente la precisione del dato reale con la ricchezza e complessità delle soluzioni compositive.
Nelle sue tele i fiori si dispongono ad occupare la gran parte della superficie disponibile e sono rappresentati con una tavolozza cromatica esuberante che nelle zone più affollate e disordinate della composizione fa già presagire quella moda fastosa e barocca che avrà successo intorno alla metà del secolo.
Il suo gusto tende a differenziarsi palpabilmente dalla politezza ottica di un Luca Forte o dalla corposa volumetria di un Maestro di Palazzo San Gervasio e si inserisce autorevolmente nel novero dei più aggiornati specialisti del genere europei.
Di recente (De Vito 1999) al Porpora è stato attribuito un gruppo di  quadri di soggetto marino, che andrebbe a riempire il vuoto temporale precedente la sua partenza per Roma e sarebbe in sintonia con una produzione ancora ignota, ma ricordata dalle fonti, del suo maestro Giacomo Recco quale esecutore di dipinti con pesci e conchiglie.
Giunto a Roma, il Porpora, risulta presente nell'Accademia di San Luca dal 1655 al 1670 ed accede nella Congregazione dei virtuosi del Pantheon nel 1666.
Nella città eterna gareggia alla pari come fiorante con la fama di Mario Nuzzi, il famoso Mario dei fiori, dando luogo a composizioni caratterizzate da un gusto già barocco, senza però rinunciare ad una ferma precisione realistica degli oggetti rappresentati.
Nel campo del sottobosco supera, per vivacità di rappresentazione e cura del dettaglio naturalistico, i più affermati specialisti nordici e centro europei. 
Il sottobosco, misterioso ed affascinante, è un soggetto molto richiesto e raffigurato nei paesi di lingua tedesca, ove grande successo incontrano scene di lotta per la sopravvivenza che si consumano silenziosamente ed ineluttabilmente nella eterna penombra di alberi secolari vicino a ruscelletti e stagni brulicanti di vita primordiale. È un mondo animale, ritratto con precisione naturalista, impegnato in attività banali, che nel simbolismo nordico diventano prodigiose metafore della eterna lotta tra il bene ed il male, e talune volte tendono ad incarnare i solenni misteri della fede cristiana.
Nelle tele del Porpora questi profondi simbolismi sono trascurati o affiorano di sfuggita, perché estranei al gusto della committenza italiana e napoletana in particolare, senza dimenticare che i clienti del nostro artista probabilmente continuarono ad essere in larga misura della città natale.
È un sottobosco cupo quello rappresentato, un intreccio di radici legnose e di alberi cavi, avvolti da un tappeto di muschio, mentre a terra ciottoli e funghi altezzosi, che, come sottolineò il Bottari, giganteggiano come monumenti. L’atmosfera è ravvivata dalla presenza di fiori luminosi che sembrano emanare una luce abbagliante, che fa da contrasto, con il suo messaggio di vitalità, allo statico mondo delle piante, dei minerali, delle crittogame.
La sua flora e la sua fauna vogliono esaltare le meraviglie della natura, che si possono cogliere anche in un piccolo recesso senza dare conto, a differenza degli artisti nordici, dell’eterna lotta simbolica che si svolge ogni momento tra principî metafisici contrapposti: il bene e il male.
La vivacità di questi sottoboschi è strettamente legata all’abilità del Porpora nel modulare armoniosamente la sua tastiera cromatica, con la forza della intelligenza visiva e lo splendore della veste pittorica che gli permettono, con eguale verità di rappresentazione, di ritrarre fiori allo sboccio e foglie avvizzite, ricorrendo ad una straordinaria varietà di gradazioni di colore. Le composizioni sono immerse quasi sempre in una luce vespertina che produce intensi bagliori e consente di apprezzare in egual misura sia la trasparenza delle ali degli insetti che l’umida e ripugnante viscidità della pelle della tartaruga.
Scopritore del Porpora fu il Causa e come sempre è alla sua penna che si debbono le descrizioni più poetiche dei suoi mirabolanti sottoboschi: «emozioni sempre più morbose da racconto nero nel mondo della storia naturale ... piacevolissime crudeltà di ranocchie inferocite che ingoiano farfalle prese al volo, serpi viscide che fischiano sotto le frasche, quelle sue fantasie tra notturnali e canicolari di calabroni e coccinelle, quagliotti insidiati dalle volpi e rospi a convegno in foreste di funghi pietrificati».
Negli ultimi anni della sua attività il Porpora, immerso in un ambiente figurativo come quello romano, denso di stimoli culturali, fu influenzato dalla moda tutta nordica, importata da Flanders e Daniel Seghers, di eseguire ghirlande incornicianti volti di vergini e santi. Nacquero così le sue ultime composizioni, quel fragoroso diluvio vegetale sul frammento di un sarcofago antico, che possiamo ammirare nel quadro di Fiori e frutta del museo di Valence, apice spettacolare della sua lunga carriera artistica.

(continua)

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