giovedì 5 aprile 2012

La cintura degli ipermercati e dei centri commerciali


22/2/2011

Un nuovo, ennesimo, faraonico centro commerciale è stato aperto alle porte di Napoli, con il solito codazzo di potenti all’inaugurazione e con il consueto plauso dei mass media, amplificato dal progetto di Renzo Piano e dalla benedizione del premier.
Stranamente in Campania, mentre le industrie e le poche attività produttive languono in stato comatoso, i templi del consumismo fioriscono senza sosta. Non si capisce da dove dovrebbero provenire i soldi da spendere se non si crea più ricchezza, ma la civiltà dei consumi pare abbia trovato la soluzione attraverso l’abuso perverso del credito e della rateizzazione, convincendo lo stolto consumatore che l’importante è acquistare anche cose inutili, a pagare vi è sempre tempo e se non pagherà lui, pagherà qualche altro, attraverso la gigantesca truffa dei derivati.
Si glorificano i nuovi posti di lavoro indotti dai nuovi centri commerciali, ma nessuno calcola la chiusura continua di negozi e botteghe con disoccupazione indotta in ragione di numeri dieci volte superiori. 
E mentre il traffico si strozza sulle autostrade alle porte di Napoli e nei fine settimana si paralizza completamente, le vie del centro si desertificano, vanificando le occasioni di incontro e stravolgendo la stessa filosofia con cui sono state costruite le nostre città, senza che il consumatore ne tragga un reale vantaggio, a differenza di questi colossi della distribuzione, spesso di proprietà straniera e sempre collusi con il potere politico che elargisce le licenze e la camorra che gestisce i terreni.
Il copione della nascita di questi megacentri commerciali è sempre lo stesso: una multinazionale, incurante dell’effetto devastante sulle attività commerciali medio piccole della zona, prende contatto con i politici locali, i quali si rivolgono alla camorra per procurare i terreni, precedentemente dediti all’agricoltura, costringendo alla vendita i legittimi proprietari. 
Identificato il luogo dove dovrà sorgere la struttura, cadono come d’incanto i vincoli paesaggistici ed urbanistici, se presenti, mentre le licenze di edificazione vengono concesse a tempo di record. I ricavi della vendita dei prodotti, quasi tutti comperati in Cina, sfuggirà alla tassazione, perché la sede legale della società si trova in uno dei tanti paradisi fiscali, nati come funghi da quando il capitalismo, perso ogni volto umano, è divenuto selvaggio. Per i brand più affermati il rischio viene trasferito ad un commerciante locale, il quale viene coinvolto con la formula del franchising. 
A fronte di questa spoliazione di reddito del territorio, la multinazionale, assume, con contratti capestro a termine, un po’ di personale indigeno, indicato dai mammasantissimi, i quali devono procurare ai politici di riferimento un cospicuo serbatoio di voti per le frequenti competizioni elettorali.
Negli ultimi anni l’entroterra napoletano, una volta regno incontrastato di broccoli e pomodori, è stato invaso da un proliferare sconsiderato di centri commerciali sempre più grandi, dal Campania al Polo della Qualità, dal Tarì a Vulcano buono, uno degli ultimi ad essere edificato.
Sono costruzioni imponenti, che dominano le campagne e si collocano tra un intreccio inestricabile di sopraelevate, le quali smistano in maniera caotica il traffico in tutte le direzioni. 
Se dovessimo ascoltare i cartelli indicanti infinite località, da città della Puglia a località più o meno note del salernitano e del beneventano ci troviamo nel cuore palpitante delle regione, crocevia di merci e di consumatori, luogo di passatempo e di passeggiate, in grado di sostituire in pieno le funzioni dell’antica Agorà.
Ed infatti questi enormi spazi, serviti da parcheggi grandiosi, sono un pullulare, oltre che di negozi, anche di fast food e ristoranti, multisale ed american bar, molto amati dai giovani che vi trascorrono, soprattutto nel fine settimana, gran parte del tempo libero.
La confusione regna sovrana e fa somigliare questi spazi ultramoderni ai tradizionali bazar arabi, dove si commerciavano, tra le urla dei venditori, merci provenienti spesso da lontano.
Ad un occhio attento si percepisce subito la stridente differenza tra questi non luoghi, enormi superfici senza storia e senza anima, partoriti dalla modernità e le antiche piazze cittadine, dove tutti si conoscevano e si passeggiava vedendo le vetrine.
Oggi questi centri commerciali, più che vendere, in un periodo di crisi economica, sono affollati da torme di giovanissimi: ragazzine di 14 – 15 con abiti succinti e barocchi, quasi tutte over size, con addomi batraciani che fuoriescono dai jeans a vita bassa e le più bone con pantaloni trasparenti che, senza lasciare nulla alla fantasia, sono uno sfacciato trionfo di mutandine tanga, mentre i ragazzi, di poco più grandi, sfoggiano camice sgargianti e tagli di capelli alla Hamsik o quanto meno alla selvaggia. 
Le fanciulle amano parlare ad alta voce per farsi notare, i maschi viceversa gesticolano silenziosi, indicandosi le prede più appetitose da puntare. 
Si muovono incessantemente per ore, facendo la spola dal cinema ai bar più frequentati, senza mai sedersi e senza consumare, al massimo il più economico dei gelati.
Provengono quasi tutti dalla provincia ed i loro genitori si sentono sicuri, perché ritengono questi faraonici centri commerciali una zona off limit per scippi ed aggressioni; spesso le mamme accompagnano i figliuoli nelle prime ore del pomeriggio e li vengono a prelevare a notte fonda.
I giovani si recano volentieri in questi templi della modernità, in grado di omologare gusti e tendenze e far somigliare, nell’abbigliamento e nelle scelte consumistiche, europei ed americani, giapponesi e sud coreani, ma credo che solo nell’hinterland napoletano gli esercenti di tavole calde e bar abbiano avuto l’idea di chiamare Arapaho un panino imbottito di spezie o un piatto di pasta Don Peppe o malommo ed una pizza a taglio multisapori Re di denaro.

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