26/12/2010
La collezione di Giuseppe Resca è ricca di centinaia di dipinti, prevalentemente seicenteschi, di varie scuole e ricopre completamente, in un esaltante horror vacui, le pareti del suo grande appartamento ai Parioli.
Alcune tele sono di grande pregio, due in particolare in odore di essere autografi caravaggeschi, ma ne parleremo in altra occasione, occupandoci ora di alcuni quadri napoletani inediti.
Partiamo da quello più affascinante, perché il suo autore tende a sfuggire ad una precisa identificazione: una Famiglia del mendicante (tav. 1), che a prima vista richiama a viva voce il pennello del Ribera, per il crudo realismo con il quale definisce la scabbia sulla pelle del vecchio poveraccio, il quale trascina con sé nella questua la moglie cieca e lo sbigottito figlioletto.
La tela romana ed alcune somiglianze con dettagli del Mendicante (tav. 2) della Galleria Borghese sembrano avvalorare l’ipotesi.
Il dipinto costituisce uno dei capisaldi della ricostruzione della fase romana del pittore valenzano fatta da Papi nel 2002 ed in parte oramai accettata anche da Spinosa.
Nell’esame comparato risalta l’utilizzo dello stesso cappellaccio ed un’identica definizione delle nocche delle dita, mentre però completamente diverso è il cromatismo, acceso nel quadro della Borghese, più diluito quello della Famiglia del mendicante.
Non convincendomi pienamente l’ipotesi riberiana ho pensato ad uno dei maestri ancora anonimi che gravitano tra la produzione dell’artista spagnolo ed il più antico Filippo Vitale, quali il Maestro dell’Emmaus di Pau o il Maestro di Resina.
Ho chiesto perciò conforto ad alcuni amici grandi esperti dell’argomento, i quali mi hanno viceversa indirizzato in area settentrionale ed in epoca successiva, in quel milieu culturale che comprende Ceruti e Cipper, Keil e Baschenis e nel quale di recente ha cominciato a delinearsi in maniera consistente la produzione di un altro anonimo di lusso, denominato Maestro della tela jeans, perché ritraeva i protagonisti dei suoi dipinti con un fustagno di tela di Genova tinto nell’indaco, che sin dal Cinquecento si è affermato come il tessuto più adatto per coloro che sono dediti a mansioni manuali, come nel Ritratto di giovane mendicante (tav. 3) dallo sguardo fisso verso lo spettatore come il protagonista della tela Resca.
Ho così ricordato quella splendida mostra organizzata pochi mesi fa a Parigi dall’antiquario Canesso e che mi aveva molto affascinato, per quell’aurea di mistero attorno a questo maestro che oramai stiamo imparando a riconoscere e del quale sappiamo molto poco: forse un nordico, ma può anche trattarsi di un italiano attivo tra Milano e Genova, le cui opere certe raccolte in un catalogo di una decina di esemplari grondano un realismo malinconico e socialmente impegnato, che rimembra i lavori di Michael Sweerts, Evaristo Baschenis o Eberhard Keil, tutti artisti legati alla rappresentazione di figure della vita popolare del Seicento, dai contadini alle madri che elemosinavano, eseguendo una severa denuncia delle condizioni di vita di persone senza alcun peso sociale, una corrente che in Italia toccò vertici di poesia grazie al pennello di Giacomo Ceruti (Milano 1698 – 1767), un Rousseau italiano che ci ha regalato le immagini più belle e più profonde del popolo italiano del Settecento.
Di autografia certa è viceversa la Susanna ed i vecchioni (tav. 4), siglata, di Massimo Stanzione, un soggetto più volte ripetuto dal pittore in maniera abbastanza diversa: celebre la versione conservata a Francoforte (tav. 5), meno nota quella siglata del museo Joslyn Art di Omaha nel Nebraska.
Databile agli avanzati anni Trenta, per la straordinaria somiglianza tra la casta Susanna e ciò che sappiamo della fisionomia della Gentileschi (vedi ad esempio l’incisione (fig. 1) di Jerome David conservata al Cabinet des Estampes di Parigi o la Allegoria della Pittura (tav. 6) ad ubicazione sconosciuta) potremmo con un pizzico abbondante di fantasia seguire un’ipotesi del proprietario ed immaginare che la giovinetta discinta sia la stessa Artemisia e che i due vecchioni siano, il primo, più anziano, sulla sinistra Agostino Tassi, che, come è noto abusò della fanciulla ancora vergine, mentre l’altro col turbante, sul quale vi è la sigla EQ.MAX, sarebbe lo stesso Stanzione, a lungo collega della pittrice, una preziosa fonte ispiratrice e probabilmente anche una compagna in scorribande erotiche.
Splendido è il Tarquinio e Lucrezia (tav. 7), una variante della celebre tela di Capodimonte (tav. 8) della quale cogliamo l’occasione di presentare un’inedita replica autografa (fig. 2) di più ridotte dimensioni transitata presso la Finarte a Milano nel maggio del 1971.
Dell’iconografia il Giordano ci ha lasciato anche dei disegni come quello conservato a Copenaghen presso il Gabinetto delle stampe.
Il personaggio di Lucrezia riveste notevole importanza nei racconti collegati alla caduta della monarchia a Roma. La sua edificante leggenda è a tutti nota: la giovane nobildonna romana fu costretta a soggiacere con la violenza alle turpi voglie del figlio di Tarquinio il Superbo; all’indomani ella corse ad informare dell’accaduto il padre ed il marito e non potendo sopravvivere all’onta ricevuta preferì morire trafiggendosi il petto ed infatti in tale atteggiamento è spesso rappresentata nei dipinti, mentre Giordano ha scelto altri momenti dell’episodio per immortalarli sulla tela.
Per la tela di Capodimonte sappiamo, grazie al De Dominici, che la splendida fanciulla raffigurata negli abiti (adamitici) di Lucrezia è la stessa moglie del pittore, utilizzata “senza cercarne altre e forse scandalose” essendo la sua sposa “ben formata di corpo, alta di persona, di maniera proporzionata e di vago sembiante”.
Per la datazione della tela in collezione Resca proponiamo una data antecedente di qualche anno a quella conservata nel museo napoletano, la cui data, 1663, è certa, perché si riscontrano ancora quei segni della maniera dorata di matrice veronesiana, che in seguito si stempera in modi più contenuti con l’utilizzo di gamme cromatiche chiare e delicate trasparenze di colore.
Numerosi altri dipinti della collezione Resca sono di scuola napoletana, riservandoci un esame più dettagliato in un prossimo contributo, ne segnaliamo alcuni come la Decollazione del Battista (tav. 9) di Schonfeld, una Lucrezia (tav. 10) di un ignoto stanzionesco, più vicino ai modi di Vouet che a quelli dello Stanzione, un Sottobosco (tav. 11) che nell’orbita del Porpora potrebbe essere un’opera del poco noto Cattamara ed infine un Vecchione (tav. 12) dall’afrore partenopeo, che potrebbe ragionevolmente essere assegnato a Nunzio Russo.
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