domenica 24 marzo 2013

Storia dell’aborto a Napoli ed in Italia

Vaginometro di della Ragione

L’aborto in epoca romana si cercava di ottenere attraverso la somministrazione di filtri a base di prezzemolo ed altre sostanze venefiche (Pocula abortionis) che spesso portavano a morte anche la donna che li assumeva.
In epoca classica non fu considerato un reato, ma solo un atto immorale ed il Paterfamilias che avesse autorizzato la donna ad abortire poteva al massimo essere oggetto di una censura, in quanto l’orientamento prevalente era che il feto non era soggetto giuridico.
In età imperiale Settimio Severo e Antonino Pio introdussero due sanzioni penali, tra cui quello molto severo di Relegatio in insulam.
Infine in età giustinianea, a causa delle influenze cristiane fu punito come delitto contro il nascituro.
Per non appesantire ulteriormente l’articolo, consiglio chi volesse approfondire la legislazione successiva fino alla 194 del 22/05/1978 e la cangiante posizione della dottrina della chiesa, di consultare su internet il mio saggio “L’Embrione tra Etica e Biologia”, pubblicato su Quaderni Radicali n. 70-71-72 (maggio-agosto 2000) e la mia relazione “Metodiche farmacologiche per provocare l’IVG”, tenuta il 17/01/2001 all’Istituto per gli Studi Filosofici di Napoli, visibile integralmente nella teca di radio radicale.
Entriamo così nel vivo della storia che vogliamo raccontare.
L’aborto a Napoli nel dopoguerra. Si tratta di aborto clandestino, almeno fino al 1978, quando vigevano le normative del codice Rocco, che prevedevano pene severe sia per il medico che per la donna, perché l’aborto era considerato un reato contro l’integrità della stirpe. Per quasi venti anni le donne povere erano costrette a ricorrere alle mammane, che applicavano il “laccio”: un catetere introdotto nell’utero, che provocava una copiosa emorragia ed un aborto spontaneo, che le permetteva di ricorrere in ospedale per una “pulizia” tramite raschiamento.
Le signore e le signorine della borghesia si rivolgevano a tre nomi sulla bocca di tutti: Monaco, Sivo, Ammendola, che chiedevano cifre iperboliche anche un milione fino a quando non si presentò prepotentemente alla ribalta Geltrude (lo chiameremo così perché è ancora vivente), il quale introdusse, dopo averne conosciuto in America l’inventore, il Metodo Karman (aspirazione), che rivoluzionò il mercato e mandò in pensione i tre colleghi di cui prima abbiamo detto i nomi, ma sui quali vogliamo raccontare qualcosa.
Monaco era il più celebre (a Napoli si cantava una canzoncina:”Hai fatto “o impiccio”, va’ a do monaco che to fa passa”), con studio in via Caracciolo 13, aveva strane manie, fascistone della prima ora, aveva sulla scrivania una testa del duce, per chi volesse lasciare un’offerta al partito, aggrediva le donne con parolacce e spesso era di mano lunga con preferenza per le tette voluminose. Eroe misconosciuto dell’aviazione e sverginatore di una celebre parlamentare, dal nome illustrissimo, che ancora siede sui sacri scanni ( per chi volesse conoscerlo a fondo rinvio al mio breve libro su di lui, sempre reperibile sul web: “Un eroe dimenticato da non dimenticare”).
Sivo, da consumato furbacchione, aprì anche lui il suo studio in via Caracciolo 13. Sostituiva in agosto il più celebre collega, dividendo il malloppo, ed aveva prezzolato il portiere, che inviava a lui tutti coloro che dalla provincia si recavano al famigerato indirizzo, ignorando il nome dell’abortista. Sperperò il denaro guadagnato e quando perse tutti i clienti per via di Geltrude, chiuse miseramente la sua carriera come medico della mutua a Marano.
Anche il terzo: Ammendola, con studio in piazza Amedeo, aveva le rotelle fuori posto. Riteneva che l’uomo discendesse dall’orso e scrisse sull’argomento in maniera così convincente da indurre un’autorevole rivista come Tempo Medico a dedicargli la copertina ed un articolo di fondo. 
Ammendola s’intreccia con il destino di Geltrude, il quale, quindicenne, dovette ricorrere alla sua arte, avendo messo incinte in un mese due ragazze. Alla vista del cassetto colmo di soldi, in cui con nonchalance lo scienziato… riponeva il denaro decise in cuor suo: “Diventerò medico e farò il triplo dei suoi soldi”.
Facciamo ora un salto al 1972, anno di laurea di Geltrude, il quale, avendo appreso la nuova tecnica, si mise in contatto col Cisa e con l’Aied, che gli procacciavano i clienti nell’ordine di migliaia al mese. Si organizzavano dei pullman e dei voli charter per condurre plotoni di gravide presso il suo studio in via Manzoni 184.
Egli oltre ad adoperare una tecnica rivoluzionaria, indolore e della durata di un minuto, applicava una tariffa politica: 50.000 lire, a fronte del milione dei colleghi e sulla sua scrivania troneggiava un cestino per il denaro con una scritta esplicativa: "Chi può dia, chi non può prenda”.
Nel 1978, mentre in parlamento si discuteva della legge sull’aborto, si autoaccusò di averne eseguito in due anni 14.000 in una intervista che uscì a nove colonne sulla Stampa e fu ripresa da tutti i giornali e le televisioni con uguale risalto.
L’ospedale dove lavorava lo licenziò in tronco, ma dopo 15 anni di cause lo dovette riassumere pagandogli un miliardo di danni.
Geltrude si mise subito all’opera ed ideò una metodica farmacologica per indurre l’aborto, accoppiando due sostanze riconosciute dalla farmacopea ufficiale.
Di nuovo licenziato, perseguitato dalla magistratura, decise di continuare la sua attività presso la clinica S. Anna di Caserta, autorizzata e convenzionata per l’Ivg e da anni in mano alla camorra.
Cadde sulla classica buccia di banana: una sua vecchia paziente tentò di estorcergli 200 milioni, altrimenti lo avrebbe denunciato di averla sottoposta ad un aborto con violenza. Processato, dopo aver rinunciato a patteggiare una pena di due anni e otto mesi, alla fine di un decennale processo, con giudici cattolici e donne, è stato condannato ad una pena degna di un boss della mafia: 10 anni, che attualmente sta scontando nel penitenziario di Rebibbia.

Moderne metodiche per provocare l'aborto
Siringa Karman


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