giovedì 24 aprile 2014

martedì 17 dicembre 2013

Le Modalità di Resistenza al Contatto



La qualità del contatto dipende dal tipo e dall’entità dei meccanismi di difesa che mette in atto
la persona quando entra in relazione. In gestalt, tali meccanismi di difesa sono chiamati
modalità di resistenza al contatto. Tale modalità sono patologiche soltanto nel momento in cui
sono croniche e abituali e sono utilizzate per evitare il contatto. Esse sono:

  • la confluenza,
  • la proiezione,
  • la retroflessione,
  • l’introiezione
  • e la deflessione

Nella confluenza si vive un rapporto simbiotico con l’altro e non vi è reale percezione del confine Sé -altro da Sé: è una sorta di “simbiosi” dell’individuo con la comunità, madre, compagna. Segna l’appartenenza, la comunione. Il “ritiro” che segue, permette di riprendere possesso del “confine-contatto” e di ritrovare la singolarità e differenza. La confluenza si incontra anche in molte coppie, in cui ciascuno dei due partner non si autorizza alla minima attività autonoma, vissuta come tradimento. A livello sociale si assiste, analogamente, a tutte quelle adesioni secondo fanatismo e dogmatismo senza alcuna differenziazione autentica. Il terapeuta lavorerà sul territorio di ciascuno e sul confine al fine di autorizzare il soggetto confluente a emanciparsi senza il timore di essere abbandonato. La confluenza è, pertanto, patologica soltanto se la percezione di qualcosa non porta ad una discriminazione dei punti di diversità e di unicità che la distinguono. Le parti in precedenza separate vengono legate, ma senza la creazione di qualcosa di funzionale. Il terapeuta lavorerà sul territorio di ciascuno e sul confine al fine di autorizzare il soggetto confluente a emanciparsi senza il timore di essere abbandonato.

Nella proiezione attribuiamo all’altro aspetti, bisogni, emozioni, pensieri che invece appartengono a noi. E’ la tendenza ad attribuire all’ambiente la responsabilità di qualcosa che trae origine da sé, ad esempio il paranoico diffidente rimprovera a tutti coloro che lo circondano l’aggressività che lui stesso proietta sugli altri. Esiste, comunque, una proiezione “sana” che permette la comprensione degli altri. L’intervento terapeutico è facilitato dal
lavoro di gruppo mediante il quale avviene il confronto e la presa di coscienza: infatti, in esso si instaura un rapporto di autenticità e di solito il “proiettore”, si riconosce.

Nella retroflessione si rinuncia a qualsiasi tentativo di influenzare il nostro ambiente, diventando entità autosufficiente: io invado il mio stesso mondo interno (io mi amo troppo= retroflessione). Si rivolge a se stessi l’energia mobilitata, nel fare a sé ciò che vorremmo gli altri ci facessero.
La maggior parte degli impulsi retroflessi contiene aggressività e da ciò che ha origine il senso di colpa. la terapia, nella retroflessione, consisterà nell’incoraggiare qualsiasi espressione delle emozioni, amplificare quest’ultime, laddove è opportuno fino a una catarsi liberatoria, grazie anche ad oggetti transazionali, simbolici, rappresentando la persona odiata/amata.

Nell’introiezione l’individuo si sente soddisfatto di sé se fa coincidere i propri bisogni con quelli dell’altro o dell’ambiente. Attraverso le introiezioni, la cultura ci trasmette le norme, i codici di comportamento, il linguaggio. L’introiezione definisce dentro di noi i «devo» e i «non devo», che rendono accettabili o inaccettabili le nostre idee, i nostri valori, le nostre azioni.
La persona, quando usa l’introiezione, si adatta passivamente all’altro e alle situazioni che ne derivano. Utilizza molte energie per minimizzare le inevitabili differenze dall’altro e per spegnere l’aggressività che serve per discriminare ciò che va assimilato da ciò che va rifiutato.
Se gli altri agiscono in un modo contrastante dal suo, preferisce adeguarsi agli altri per non contrapporsi. Ad esempio, una persona può avere introiettato «devo essere responsabile nel mio lavoro». Qualora si trovasse oberato dal troppo lavoro, perché i colleghi hanno scaricato su di lui anche il proprio lavoro, e se la persona vive l’introiezione in modo rigido e non flessibile, si sentirà in dovere di farsi carico anche del lavoro che gli altri gli hanno passato, per adeguarsi alla sua forte norma interna. Il confine-contatto risulta facilmente invaso dagli introietti. Per rendere più funzionali il terapeuta è attento a sviluppare la consapevolezza del processo di scelta personale. In Gestalt, il terapeuta cerca esplicitamente di sviluppare l’autonomia del suo assistito, la sua responsabilità e assertività, e di smascherare, dunque, qualsiasi rifugio illusorio nell’introiezione.

Infine la deflessione, definita da Polster come: “manovra per distogliersi dal contatto diretto”, è un modo di togliere il calore al contatto attuale, per mezzo di circonlocuzioni, parlare troppo, ridere su ciò che si dice, non guardare direttamente la persona con cui si parla, essere astratti piuttosto che specifici ... parlare su piuttosto che parlare a, e banalizzare l’importanza
di ciò che si è appena detto”. In determinate situazioni, tale meccanismo potrebbe essere funzionale, quando abbiamo la consapevolezza che in uno specifico momento vogliamo evitare il contatto, perché abbiamo bisogno di tempo per noi, per riflettere o perché scegliamo consapevolmente di non entrare in contatto. Abbiamo la libertà delle nostre scelte. Ciò che conta per la Gestalt è esserne consapevoli perché solo così si è veramente liberi di scegliere.


www.psiconapoli.com
www.psicodangelo.it

venerdì 1 novembre 2013

ANNA DI FUSCO UN’ARTISTA TRA MODERNITÀ E LAICA SPIRITUALITÀ


di Pietro di Loreto



Anna Di Fusco
fig.1-percezioni di Anna Di Fusco

Estro e anticonformismo ma anche intuizioni e percezioni profonde in un’operazione concettuale che si pone come una sfida allo sguardo del pubblico
Anna Di Fusco è un’artista che pur con poche esposizioni alle spalle, tuttavia presenta una capacità elaborativa stupefacente: un’esordiente le cui prove pittoriche veramente stupiscono, perché appare già in possesso di una capacità comunicativa e di un bagaglio espressivo consolidato, tipico cioè di chi –come lei- da tempo si cimenta nella pittura e quindi non certo per un gioco o per caso si sottopone oggi al giudizio dei critici e degli addetti ai lavori, oltre che degli amanti delle belle arti.
I suoi lavori iniziali e poi le sollecitazioni scaturite dall’ambiente intellettuale che ha frequentato e che frequenta ne hanno plasmato la personalità, che ci appare oggi già piuttosto solida, estrosa ed anticonformista. Lo dimostrano bene molte delle sue opere (figg.2,3,4) che, nel corso del tempo, hanno delineato un percorso mentale non certo stravagante e neppure insolito e tuttavia assolutamente personale, frutto di un fare pittorico e di una tecnica i cui esiti incrociano molte delle esperienze e delle personalità artistiche affermatesi dopo la metà dello scorso secolo.

fig.2-materico argento

fig.3-sempre più in alto

fig.4-la via dorata


Certamente può appare ingenuo e fuori luogo proporre paragoni (che peraltro risulterebbero oggi forse troppo impegnativi per un’autodidatta), con altri movimenti artistici ed altre esperienze formative; tuttavia è anche vero che spetta al lavoro del critico individuare le radici e i retroterra più consoni per definire una poetica che ambisce a trovare un suo spazio e a proporsi in modo originale nel mondo della contemporaneità, partendo com’è ovvio dalla contaminazione e dall’assemblaggio di formule artistiche differenti che tuttavia non contrastano né certamente nascondono il momento finale della personale meditazione.
Ed in questo senso è facile pensare a vari ascendenti, alla minimal art, o alla pop art, o all’arte povera; ma, nel nostro caso, quella di Anna Di Fusco è come un’operazione concettuale : quei frammenti di vetri sparsi su molte tele (fig.5,6), quasi che l’artista desiderasse ricomporre e dar luce ad un cammino interiore -e che in qualche caso ci pare perfino poter indicare come una sorta di trascendenza- sembrano richiamare in modo più appropriato alla mente la forza creativa del ‘gesto’.

fig.5-l'ascensione

fig.6-mare d'inverno


Ma se di ‘azione gestuale’ si deve parlare il riferimento è più alla tensione emotiva di un Rotko che non al dripping di Pollock, come in effetti appare in una delle prime prove, dove il colore rosso intenso dello sfondo è come investito da larghe spatolate trasversali bianche (fig.7) . Opera appassionata, perfino rabbiosa: non si può fare a meno di notare un fervore, una sorta di urgenza che percorrerà poi buona parte dei lavori successivi, nati come da un incastro tra espressionismo ed astrazione, dove quasi si esalta la fisicità delle aree nelle tele attraversate da rettangoli o meglio ‘crateri’ bianchi rossi neri, ed in altre formate da stesure di acrilico crude e intense (figg.8,9,10).
I colori sono applicati con una forte saturazione, privi quasi di sfumature e toni mediani e tuttavia tali da poter realizzare un calibrato equilibrio cromatico, così da evidenziarne al meglio il valore espressivo, determinante per far risaltare il significato.

fig.7-contrasto

fig.8-crateri rossi

fig.9

fig.10

Ma mai , si deve dire, sull’utilizzazione di tali richiami compare un compiacimento cedevole, un’evocazione surreale dei valori del subconscio. L’arte di Anna Di Fusco ci pare piuttosto agire a livello di natura e nella natura, laddove sembra trovare le forme esemplari per il suo fine didascalico. La sua opera diviene così espressione di un atteggiamento assertivo, che è sintesi di ambiente, materiali e intenzioni dove si può cogliere –perché traspare senza alcuna mediazione- un forte spirito di modernità ma anche di laica spiritualità, se si può dire, in un certo senso obbligata in un’artista le cui trascorse esperienze di lavoro e di viaggi hanno certo generato un’apertura mentale internazionale, tanto verso le letterature che verso le arti internazionali e, per sua stessa ammissione, tutt’altro che chiusa nel suo piccolo mondo di immagini o nella rievocazione dei grandi del passato, ed anzi ben affacciata sulle esperienze artistiche del nostro tempo .
E tuttavia la volontà di affermare oggi la sua consapevole presenza e di comunicare una propria cifra stilistica non si accompagna affatto al tentativo di ‘agganciare’ lo spettatore, né ci pare miri a richiedere il conforto del punto di vista neutrale di chi osserva.
Lo dimostrano gli ultimi lavori dell’artista, frutto di un sentire pittorico non riducibile a dati pregressi, ma che si proietta addirittura ‘oltre’, come se fosse una specie di sonda che cerca di penetrare in sentieri ancora non ben esplorati in ambito artistico (figg.11,12,13,14,15,16).
Certo, con la sua pittura di Anna Di Fusco ha la legittima ambizione di voler evidenziare le proprie intuizioni e dar corpo alla percezione delle proprie esperienze quotidiane, ma dichiarando immediatamente però, per le forme che delinea e per i materiali con cui compone, la propria differenza e ponendosi anzi come una specie di bersaglio allo sguardo del pubblico.
E’ questo probabilmente il modo migliore, per quanto si può ritenere possibile, di sottrarsi alla patetica schiera dei semplici riproduttori di immagini.

fig.11

fig.12

fig.13

fig.14
fig.15

fig.16

domenica 8 settembre 2013

UN REGISTA VIOLENTO, POLITICO – OCCASIONALE

Pasquale Squitieri,

Pasquale Squitieri,  nato a Napoli nel 1938, è uno dei più celebri registi italiani. Per un periodo si è dedicato alla scenografia e per un altro alla politica, cambiando italicamente molte casacche, rivestendo per due anni la carica di senatore.
Squitieri è legato sentimentalmente dagli anni '70 all'attrice Claudia Cardinale, che ha anche recitato in alcuni suoi film: Il prefetto di ferro, Corleone, Claretta, Li chiamarono... briganti! , I guappi. Guarito da un tumore,  afferma di continuare a fumare accanitamente.
Laureato in Giurisprudenza, negli anni '60 si impiegò al Banco di Napoli dal quale fu licenziato per aver fatto pagare un assegno poi risultato falso. Per questo motivo, nel 1981, fu condannato per peculato ad 1 anno di carcere, scontandone cinque mesi. Sempre negli anni ’60, fu arrestato e poi assolto per una rissa con un poliziotto che aveva insultato l'attrice Annamaria Guarnieri. 
Debuttò nel cinema come regista e sceneggiatore di  Io e Dio (1969), prodotto da Vittorio De Sica, con Josè Torres e Gregorio Di Lauro e, sulla falsariga di registi come Sergio Leone, si dedicò brevemente al genere spaghetti western, con Django sfida Sartana (1970) e La vendetta è un piatto che si serve freddo (1971). Entrambe le pellicole furono firmate con lo pseudonimo William Redford. 
In seguito, Squitieri abbandonò il  nome d'arte e cominciò ad occuparsi di tematiche più attuali e realtà allora poco raccontate della società italiana con alterne fortune perché a grandi successi seguirono clamorosi flop di pubblico e critica. Pellicole come  Camorra (1975), L'ambizioso (1975), Il prefetto di ferro (1977), Corleone (1978),  Il pentito (1985) riguardano i contatti tra mafia e politica; Viaggia, ragazza, viaggia, hai la musica nelle vene (1974) e Atto di dolore (1990) hanno come tema principale la droga; Gli invisibili (1989) il terrorismo; L'avvocato de Gregorio (2003) le cosiddette “morti bianche”; Razza selvaggia (1980) e Il colore dell'odio (1990) affrontano l'argomento immigrazione;  Li chiamarono... briganti! (1999) è un  film sul brigantaggio postunitario che narra la storia del suo maggiore rappresentante Carmine Crocco: quest'ultima opera, molto discussa, fu immediatamente ritirata dalle sale cinematografiche. Con  Stupor mundi (1997), invece, su incarico delle Fondazioni Federico II di Jesi e Palermo, il regista si catapulta nel medioevo con un lungometraggio sulla figura dell’imperatore Federico II, lo “stupor mundi”, come viene universalmente conosciuto, ispirata all'opera letteraria di Aurelio Pes "Ager Sanguinis": anche in questo film, tra i protagonisti, c’è  Claudia Cardinale. 
Tornando all’impegno politico, nel 1971 Squitieri sottoscrisse la lettera aperta a L'Espresso sul caso Pinelli, nota anche come appello contro il commissario Calabresi. Nell'ottobre dello stesso anno fu tra i firmatari di un'autodenuncia pubblicata su Lotta Continua in cui esprimeva solidarietà verso alcuni militanti e direttori responsabili del giornale inquisiti per istigazione a delinquere a causa del contenuto violento di alcuni articoli, impegnandosi a «combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato».
Negli anni si spostò a destra e nel 1994 fu eletto senatore nelle liste di Alleanza Nazionale per il collegio  Andria-Barletta. In quella legislatura fece parte delle commissioni Industria, Commercio, Turismo, e Vigilanza Rai.
Nel 1996 si  ricandidò al Senato con il Polo per le Libertà nel collegio di Nola, ma ottenne il 40,2% dei voti, risultando sconfitto dal rappresentante dell'Ulivo, il filosofo Aldo Masullo. Si  iscrisse poi al Partito Radicale Transnazionale, collaborando ad alcune campagne del Partito.
Nel 2013 si espresse molto duramente contro l'europarlamentare leghista Mario Borghezio, affermando che "fa schifo, bisogna eliminarlo fisicamente", paragonandolo ai nazisti del processo di Norimberga.
E veniamo all’incontro-scontro che ebbi con il personaggio nel 2004 in occasione della presentazione del mio libro “ Achille Lauro superstar” ad un gruppo di parlamentari  presso la libreria Montecitorio di Roma. Ruggiero Guarini, che mi aveva aiutato  ad organizzare  l’incontro, me lo aveva proposto come relatore. Io non seppi dire di no, nonostante conoscessi il carattere intemperante del regista per le confidenze di alcuni amici; uno, condomino del suo appartamento in via Petrarca a Napoli, l’altro che aveva avuto una particina in uno dei suoi film. Me lo avevano dipinto rissoso e maleducato e durante la conferenza ne ebbi la conferma quando, venuto il suo turno, cominciò a dire minchiate a ripetizione e ad infangare la figura del Comandante: fortunatamente, più che le proteste del moderatore,  ebbe effetto la selva di fischi  del pubblico che convinsero il regista a lasciare l’aula, salutato da pernacchie liberatorie.
Per chi volesse rivedere questa scena disgustosa non ha che da collegarsi alla teca televisiva di Radio Radicale, le cui telecamere inviate dal mio amico Bordin, immortalarono lo svolgimento della presentazione.

Pasquale Squitieri
Pasquale Squitieri e Claudia Cardinale


L'ANIMATORE DEL TEATRO BELLINI.


Tato Russo

Tato Russo, all’anagrafe Antonio, nato a Napoli nel 1947, è attore e regista teatrale, scrittore e musicista, ma soprattutto è benemerito, perché da quasi vent’anni ha riportato all’antico splendore il teatro Bellini, ridotto da anni a squallido cinema di film a luci rosse, molto amato dai filonisti, perché se si era in piacevole compagnia, con una piccola mancia alla maschera, si poteva usufruire di un palco per cui, oltre alle luci rosse, ne capitavano di tutti i colori.
Laureato in giurisprudenza con lode all'università Federico II di Napoli, fin dall’età adolescenziale rivela una predisposizione per la recitazione e la scrittura. A vent'anni scrive il primo romanzo: Samba di un coniglio uomo e mette in scena con piccole compagnie amatoriali alcuni suoi lavori in dialetto napoletano, come Fatti di famiglia, Quindici luglio, Sant'Errico, Meglio la morte, La ‘ncunia e lu martiello, Operetta napoletana, Mò vene Natale.
Allievo dell'attrice Wanda Capodaglio, inizia la sua carriera nel mondo del teatro ufficiale entrando prima in piccole compagnie di sperimentazione (Mario e Maria Luisa Santella) poi nelle compagnie di Mico Galdieri, Pupella Maggio e Nino Taranto.
Nel 1972 fonda, con l'attore Nello Mascia, la cooperativa teatrale "Gli Ipocriti". Dopo la rottura con Mascia, fonda  una sua compagnia che chiama "Compagnia Nuova Commedia" con l'idea di rappresentare soltanto i suoi testi teatrali: La tazza d’argento, I vecchi, La commedia della fame, Cimiterio, Il sessantotto, La parolaccia, Il matrimonio, Pulcinella capitano del popolo, Il sole, in collaborazione con Luigi Compagnone.
Ha collaborato alla creazione di circuiti teatrali (Consorzio Teatro Campania) ed alla creazione di festivals teatrali (Dyonisiae di Pompei, Magna Graecia di Taranto, Pianeta Spettacolo, Ischia Play Island), alla riapertura del Teatro delle Arti, del Teatro Diana ed infine del meraviglioso Teatro Bellini di Napoli ed al rilancio di altre strutture della Campania.
Attratto dal teatro comico napoletano rappresenta le sue commedie Forse una farsa, Mi faccio una cooperativa, La farsa sciocca ed inizia le sue prime riscritture di commedie del teatro classico con Pulcinella medico per forza da Molière, e Sogno di una notte di mezza estate da Shakespeare.
Le musiche per i suoi spettacoli  sono  spesso composte dallo stesso Russo sotto lo pseudonimo di "Zeno Craig".
Nel 1980 e negli anni successivi stabilisce la sua attività al teatro Diana di Napoli, dove mette in scena La bella e la brutta epoque, Cafè Chantant, Sò muorto e m'hanno fatto turnà a nascere, Flik e Flok.
Terminato il rapporto con il teatro Diana, mette in scena Socrate immaginario, Due gemelli napoletani, Avanvarietà, La bisbetica domata, La villeggiatura, Week end, Irma la dolce, Le stanze del castello.
Nel 1986, con Luciano Rondinella, Mario Crasto De Stefano e Stefano Tosi acquisisce il Teatro Bellini di Napoli. Dopo alcuni anni impiegati nella ristrutturazione dello storico teatro napoletano (a Napoli si diceva : ’O San Carlo p’’a grandezza,’o Bellini p’’a bellezza) il Bellini riapre nel 1988 con L'opera da tre soldi di Brecht. Seguono le rappresentazioni delle sue riscritture di Napoli Hotel Excelsior, I Promessi Sposi, Palummella zompa e vola, Il candelaio da Giordano Bruno, La tempesta, La commedia degli equivoci ed Amleto da Shakespeare, Tre calzoni fortunati, le operette Scugnizza e  La Vedova allegra, ‘O Munaciello, A che servono questi quattrini, La signora Coda,  Troppi santi in paradiso, Il paese degli idioti, Due gemelli napoletani dai Menecmi di Plauto, Il fu Mattia Pascal da Pirandello, Vacanze a Capri (La villeggiatura), Lu miedeco pe fforza, La commedia degli equivoci, Pulcinella degli spiriti,  Socrate sono io, Lu marito dindon, Rose rosse per me e le opere musicali Masaniello, Viva Diego, I promessi sposi, Il ritratto di Dorian Gray, dei quali firma regia, libretti e musiche, queste ultime in collaborazione con i maestri Mario Ciervo e Patrizio Marrone.
Negli stessi anni scrive un altro romanzo, La stanza dei sentimenti perduti, e quattordici libri di poesie: Cient'e una notte dint'a una notte, Momenti e Maledizioni, Sotto e ‘ncoppa, Mater dolorosa, Scarrafunnera, Teste di croci, Mmescafrangesca, Scippe e scarte, Ancora mi innamorano gli sguardi, La felicità nella coda dei cani,Seminando il grano, C’è vita sulla terra?,  Esercizi Spirituali, Antichi Segni.
E’ stato anche sceneggiatore per la televisione nei quattro episodi de Il maresciallo  e per Teresa Raquin.
Con la sua compagnia è stato ospitato in Russia, in Francia, in Tunisia, in Grecia, in Svizzera, a Cuba ed ha partecipato a molti festival internazionali. Al Globe Theatre di Londra è l'unico attore italiano a figurare nella galleria di ritratti dei celebri interpreti scespiriani.
Nel 2004 è stato nominato Cavaliere al merito della Repubblica Italiana.

Tato Russo

Tato Russo, Il ritratto di Dorian Gray

locandina di il fu Mattia Pascal


L’INTELLETTUALE CRONISTA DELLA STORIA.

Nello Ajell
Nato a Napoli nel 1930, Nello Ajello è stato, prima che giornalista ed intellettuale, un uomo di grande cultura e di elevata statura morale.
I primi passi li ha mossi a Napoli collaborando a Nord e  Sud, la prestigiosa rivista laica, meridionalista ed europeista, fondata nel 1954 da Francesco “Chinchino” Compagna, avendo come dirimpettaia politica ed intellettuale la social-comunista Cronache meridionali. I passi successivi prima con Mario Pannunzio a Il Mondo, poi con Olivetti, in seguito a L’Espresso , di cui è stato a lungo condirettore, per finire con La Repubblica, che lo ha visto tra i fondatori e  le firme d’eccellenza.
La sua scomparsa ha privato la cultura italiana di un elemento di spicco. Ci mancano la sua prosa elegante e distaccata e la speranza è che la sua lezione non vada dimenticata troppo presto. 
Ajello è stato un napoletano dall’ironia sottile, con radici molto profonde nella storia intellettuale e civile della sua città, ma costituzionalmente estraneo ed avverso a tutti i cliché sulla napoletanità. Sin da giovanissimo si era mosso, come ha voluto ricordare l'esponente più illustre della  particolarissima genìa di napoletani anglosassoni, Giorgio Napolitano, «al confine tra giornalismo, cultura e politica». E lo aveva fatto da giornalista che non avrebbe scambiato con nessun altro il suo mestiere, di cui pure conosceva alla perfezione i limiti. Era consapevole che chi scrive per un giornale  traccia  parole su un foglio che durerà qualche minuto o al massimo qualche ora ma, nello stesso tempo,  sa che ogni parola deve essere ben ponderata, come se destinata a durare in eterno.
Ajello era imbevuto di una cultura che era stata alle radici dell’Europa, ma aveva ben compreso che oggi l’Europa bisognava cercarla altrove. Era un napoletano fino al midollo, con quell’ironia e quella trascuratezza un po’ dandy ed amava la battuta in grado di condensare un racconto.
Fu sempre un uomo libero, vicino alle idee della sinistra, ma senza lodi sperticate, anzi con disincanto ed una nota di pessimismo. Appartenente ad una corrente di pensiero illuminista e laica, fu  cronista della storia e seppe raccontare senza timore le contraddizioni del Novecento.
Una parte della sinistra lo detestava per alcuni suoi libri come Intellettuali e PCI dal 1944 al 1958, Il lungo addio o Intellettuali e PCI dal 1958 al 1991.
I suoi volumi sull’argomento sono basati su una ricchezza di documentazione ed un’abilità interpretativa non comune per uno scrittore, che i comunisti li aveva frequentati, ma sempre a distanza di sicurezza.
Nel 1978 un certo clamore aveva suscitato la sua Intervista sullo scrittore scomodo (Moravia).
L’ultimo suo libro Taccuini del Risorgimento, pubblicato nel 2011, ci racconta giorno per giorno, a volte ora per ora, le vicende italiane dal 20 febbraio al 17 marzo 1861.
All’indomani della sua scomparsa, avvenuta l’11 agosto 2013, è stato ricordato con affetto da colleghi ed estimatori. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha commentato così la sua scomparsa: “Apprendo con sincera commozione, nel segno di un’antica amicizia, la dolorosa notizia della scomparsa di Nello Ajello a breve distanza dalla morte della sua consorte Giulia. Il ruolo così fortemente ed efficacemente svolto da Ajello si è collocato al confine tra giornalismo, cultura e politica. Le sue analisi critiche sulle politiche culturali, anche ed in particolare del Pci, hanno lasciato il segno per la loro accuratezza e acutezza”. “Nel tempo dell’informazione consumata come un piatto ad un fast food, il giornalismo colto e brillante di Nello Ajello risplende di luce perenne” è invece la riflessione del segretario della Federazione  Nazionale della Stampa, Franco Siddi.  Federico Orlando e Beppe Giulietti, presidente e portavoce di Articolo 21lo ricordano come "un giornalista colto, libero, ironico, distante da ogni forma di servile encomio e di oltraggio postumo, verso poteri e potenti di turno".
E’ difficile riassumere il tratto principale del carattere di una persona, soprattutto quando si parla di un giornalista di lungo corso come Nello Ajello. Non hanno dubbi, però, due suoi amici come Ermanno  Rea e Raffaele La Capria: il tratto principale del suo carattere era l’ironia. “L’ho sempre stimato come uomo e come giornalista – ricorda commosso Rea – tant’è che quando fui nominato presidente della Fondazione Premio Napoli lo volli subito in giuria. Era un uomo di una cultura enorme, direi quasi enciclopedica, uno spirito corrosivo dalla battuta fulminante, me se dovessi indicare la prima e più singolare caratteristica della sua persona, senza dubbio mi viene in mente l’ironia, per la precisione un’ironia malinconica, spesso anche drammatica”. Rea si dice restio ad indicare certi aspetti della personalità come quelli tipici di un popolo, eppure in questo caso è disposto a fare un’eccezione, perché “Ajello era talmente pronto alla battuta ironica ed al distacco in grado di sdrammatizzare che forse possiamo anche dire che in questo si evinceva ancora il suo legame con Napoli”.
Anche La Capria conferma che “parlare con lui era sempre una sorta d’incanto, di magia, e poi il suo umorismo lo rendeva il perfetto esponente di una borghesia napoletana illuminata e raffinata che, dopo la scomparsa di Antonio Ghirelli,  ha perso un altro dei suoi migliori esponenti”.
Se poi la Capria è convinto che Ajello sia stato come giornalista uno dei pochi laici capaci di giudizi misurati e ponderati su tutte le più grandi questioni affrontate, “un esponente della migliore cultura crociana”, per Rea “ è stato un uomo veramente libero, né anticomunista né comunista, in un’epoca in cui era facile prendere parte per l’una o per l’altra fazione”. Quello che pure colpisce è  la morte di Ajello a pochi giorni da quella della moglie Giulia, deceduta il 25 luglio, quasi che il legame umano e professionale di un grande del giornalismo contemporaneo sia stato frutto anche di  “un legame particolare con l’altra metà della propria vita”, come sottolinea Rea, perché in fondo “il mestiere del giornalista è comprendere il mondo nei suoi meccanismi più articolati e creare legami più o meno forti, a cominciare dalle persone più vicine”.
Proprio la grande umanità e la grande capacità di immedesimarsi nelle persone ed entrare nei fatti, secondo il giornalista e critico letterario Enzo Golino che ha frequentato per cinquant’anni Ajello, è la cifra più significativa del suo giornalismo. ”Insieme  abbiamo partecipato decenni orsono alla fondazione della rivista diretta da Francesco Compagna “Nord e Sud”, e da allora l’ho sempre visto come un maestro. Era di una cultura incredibile. E  sapeva guardare ai fatti del Sud senza mai scadere in trionfalismi meridionalistici, oggi forse un po’ troppo di moda”. Di un illuminato scetticismo, per Golino aveva  indubbie doti giornalistiche soprattutto culturali. “Con Nello Ajello -  dice “se ne va un pezzo del migliore giornalismo italiano. E se ne va un grande uomo”.
Nello Ajello

Ajello, Cederna, Scalfari, Benedetti, Corbi e Zanetti

Alberto Moravia e Nello Ajello

Nello e Giulia Ajello

DESTINAZIONE MARTE.

Francesca Esposito

Nel 2016 Dreams, un sofisticato strumento per misurare temperature e tempeste, atterrerà su Marte e sarà la napoletana Francesca Esposito, astrofisica dell'Osservatorio Astronomico di Capodimonte dell'Istituto Nazionale di Astrofisica, a dirigere la stazione meteo marziana. Sembra una notizia incredibile, invece è pura verità: Napoli è alla ribalta non per  notizie negative, ma perché, anche se i giornali non ne parlano, nella nostra città ci sono giovani brillanti, impegnati nella ricerca, in grado di produrre risultati significativi a livello internazionale.
Per ogni ciclica ondata di cervelli in fuga da Napoli, ce n’è almeno uno che sceglie di rimanere ed accettare di misurarsi con difficoltà maggiori di chi invece si è trasferito oltre confine.  E’ il caso della quarantenne Francesca Esposito che da oggi ufficialmente, grazie all’accordo siglato in Francia al salone aereospaziale di Le Bourget, sarà a capo del coordinamento della stazione meteo che viaggerà a bordo della missione europea ExoMars.
E’ una grande soddisfazione per l’Europa perchè, per la prima volta nella storia, un lander europeo atterrerà su Marte e su questo lander ci sarà molta ricerca made in Naples. 
In questi giorni la Esposito si trova in Marocco per compiere una serie di test su una stazione meteo simile a Dreams che su Marte arriverà in una zona quasi equatoriale dell’emisfero Sud, in un periodo particolarmente complicato come quello delle tempeste di polvere. 
Dreams, che in italiano significa “sogni”, è il nome del pacchetto di strumenti scientifici installati a bordo del lander: il nome non è casuale considerato che mettere le proprie competenze al servizio della ricerca su Marte è sempre stato il sogno dell’astrofisica napoletana e del team internazionale di una cinquantina di ricercatori che coordinerà.
Francesca Esposito dice che le batterie della stazione marziana si esauriranno dopo quattro giorni, dopo di che l’analisi dei dati raccolti permetteranno di conoscere qualcosa in più sulle tempeste marziane di polvere che si formano con l’arrivo della primavera nell’emisfero Sud, sulla temperatura, sull’umidità, sui campi elettrici, sulla pressione e sul vento.
Questa spedizione, ad esempio, cercherà di comprendere, grazie ad appositi sensori, la causa delle forti scariche elettriche e dei fenomeni simili ai nostri fulmini, presenti  costantemente sul pianeta rosso, così come la natura dei veri e propri tornado di polvere che possono arrivare anche a cento metri di altezza, spostandosi sulla superficie  marziana a forte velocità, oscurando a volte quasi l’intero pianeta, dando luogo ai cosiddetti “dust devis”, ossia “demoni di polvere”. Questi ultimi sono presenti anche sulla Terra, ma i “diavoli di sabbia” marziani possono essere maggiori fino a cinquanta volta in ampiezza e dieci volte in altezza rispetto a quelli terrestri.
Il fine ultimo di questa, come di tutte le missioni verso Marte, rimane però quello di permettere, forse entro il 2050, lo sbarco dell’uomo, che ovviamente dovrà avvenire con la conoscenza dell’ambiente circostante e dei fenomeni più o meno pericolosi ad esso legati. 
“Sapere che un pezzo di Napoli contribuirà a questo avvenimento ripaga ampiamente la mia scelta di rimanere a Napoli” sottolinea  la Esposito.
“Pensare di far atterrare una sonda quando si scatenano le grandi tempeste di polvere, per poterne studiare il grado di pericolosità per le future missioni umane  - osserva Massimo Della Valle , direttore dell’Osservatorio  astronomico di Capodimonte dove esiste uno dei migliori centri al mondo per l’analisi di polveri spaziali  - è un’impresa, che segna probabilmente il primo passo concreto verso l’esplorazione umana del pianeta rosso”.

Marte,il pianeta rosso

immagine di Marte