venerdì 11 novembre 2011
L’ALTISONANTE URLO DI SGARBI
Per chi ha assistito alle composte trasmissioni di Tribuna politica, con un conduttore serafico, un gruppo di giornalisti competenti ed il politico di turno, che dando del lei all’interlocutore, rispondeva puntualmente senza subire alcuna interruzione, passare all’ascolto delle baraonde televisive, nelle quali, decine di personaggi cercano disperatamente di sovrapporsi all’avversario politico, unicamente sul piano sonoro, senza alcuna preoccupazione per la logica o per la verità, rappresenta un trauma difficile da superare ed induce a cambiare rapidamente canale alla ricerca di un programma diverso, di qualunque genere, purché non si parli di politica in maniera così sguaiata ed inconcludente. Numerosi sono gli alfieri di queste scriteriate trasmissioni, uomini e donne senza differenza, dalla focosa Mussolini, al puntiglioso Ghedini, dalla Turco, in grado delle affermazioni più risibili senza arrossire, al rissoso Bondi, dallo sguardo truce e vendicativo, dall’ineffabile Capezzone all’inviperita Santanchè, dal vanesio Franceschini alla virginale Bindi, ma tutti sono nel loro diapason iperbolico figli dell’urlo di Sgarbi, una meteora acustica entrata da tempo immemore nella classicità catodica, più dell’urlo di Munch, che impallidisce sbiadito al confronto o di quello animalesco di Tarzan, impersonato dal possente Weismuller, un vagito neonatale rispetto al clangore assordante dell’ineffabile Vittorio.
Sgarbi è un raffinato critico d’arte (posso confermarlo personalmente conoscendolo dai tempi in cui era alla corte di Federico Zeri), ma quando entra in contradditorio con chicchessia fa affidamento, non più sulla forza delle idee, ma unicamente sulla perentorietà vocale, più metallica che umana, della sua voce altisonante, superiore ai do di petto di Mussolini ed agli acuti di Pavarotti, certo che nessuno possa passare indenne attraverso un così abile uso del suono, capace non solo di far tremare un lampadario o rompere un delicato bicchiere di cristallo, ma soprattutto di far arrendere l’interlocutore dopo avergli perforato il timpano.
UNA BIOGRAFIA SU MARCO PANNELLA L’ULTIMO DEI POLITICI VERACI
Ricevere una mail da Pannella per un vecchio radicale non è una sorpresa, Marco possiede uno sterminato indirizzario ed è stato il primo politico a convertirsi al web, la sorpresa è stata accorgersi che non si tratta del solito invito ad un congresso o ad una riunione, bensì dell’annuncio dell’uscita della sua biografia, un’impresa nella quale aveva tentato di impegnarsi lo stesso Umberto Eco, ma senza successo. Finalmente il grande vecchio ha deciso di raccontarsi attraverso una lunga intervista concessa a Stefano Rolando, una carrellata di oltre cinquanta anni di vita politica italiana, che ha visto il prode Marco, non certo tra i protagonisti, ma sicuramente tra i comprimari nobili di quella squallida combriccola che ha dominato la scena tra prima e seconda repubblica. Il ritratto che ne viene fuori ci configura le tante anime pannelliane: evangelica, anarchica, gandiana, liberale, agnostica; il tutto tra non violenza, uomini sandwich ed infiniti digiuni, una specialità del Nostro, inventore dell’anoressia ingrassante, infatti mentre il mahatma, dopo poche astensioni dal cibo divenne evanescente se non etereo, Marco, complici pizze e cappuccini assunti di nascosto, dopo il millesimo digiuno aveva raggiunto e sorpassato i 140 kilogrammi.
Le duecento pagine del libro sono piene di aneddoti ed incontri con personalità non solo del mondo della politica, una compagnia, a volte pericolosa, che ha fatto corona per decenni al suo piccolo quanto incontrastato regno, sul quale voleva e vuole essere un astro senza satelliti, infatti ogni qual volta, uno dei suoi pupilli, da Rutelli a Capezzone, tentava di assumere una sua veste automa, lui lo estrometteva da ogni carica. Un’esperienza che ho vissuto sulla mia pelle, quando candidato nel 2001 per il Senato e risultato primo, non entrando a Palazzo Madama unicamente perché la lista non raggiunse il quorum, l’anno successivo alle europee, dove avevo serie chances di successo, non venni nemmeno messo in lista, per non intralciare un suo protetto.
Il partito è stato solo e soltanto Pannella (unica lodevole eccezione Emma Bonino) nel bene e nel male, e tramonterà con lui.
Il racconto si ferma alle soglie della sua camera da letto, per un inutile pudore, perché Marco non ha mai nascosto le sue preferenze a 360°, che includevano tutti i generi, anche se negli ultimi tempi pareva assiduo di una piacente ginecologa romana. Egli non ha fatto mai mistero di questa apertura di veduta, una lezione coraggiosa per questi nostri tempi ipocriti e corrotti. Vi è poi una parte dedicata a pensieri esoterici, per non dire gigantesche corbellerie, come quando afferma di credere alla compresenza dei vivi e dei morti o quando tenta di richiamarsi alle leggi dell’astrofisica per spiegare i concetti di armonia e rottura.
Un libro che forse vuole rappresentare una sorta di testamento spirituale, ma chi lo conosce bene, sa che dopo la prima e la seconda repubblica egli anela a divenire un attore, anche se nel ruolo di comparsa, pure della terza.
CHI OGGI PUO’ DIRSI UN INTELLETTUALE ?
Dopo aver tenuto una conferenza presso l’Istituto di cultura italiano di Parigi su Caravaggio ed i suoi seguaci a Napoli, la parola passa al pubblico per le domande, ma il primo quesito da parte di una giornalista francese è un po’ fuori tema: ” Secondo lei chi oggi può dirsi un intellettuale?”.
Sorpreso dall’argomento, per prendere tempo, affermo che risponderò volentieri al quesito dopo almeno una domanda sull’argomento trattato. Dopo aver chiarito alcuni aspetti della pittura di Battistello e di Sellitto, non vi è che ritornare sul tema dell’intellettuale, sul quale premetto che la definizione che proporrò è del tutto personale.
Di rincalzo la giornalista mi prega anche di fare il nome di 10 intellettuali italiani.
Ne citerò allora 11 e di ognuno il perché, alla fine sarà così facile estrapolare le caratteristiche patognomoniche che contraddistinguono l’intellettuale ideale.
Partirei da Umberto Eco il quale è, a mio parere, il prototipo dell’intellettuale moderno: profondo conoscitore della propria materia, abile divulgatore, esperto di tematiche di interesse generale e, nel caso specifico, eccellente conferenziere.
Anche un altro Umberto famoso può considerarsi a tutti gli effetti un intellettuale; intendiamo riferirci a Veronesi, chirurgo, oncologo di fama mondiale, aperto ai problemi che arrovellano l’uomo moderno dall’aborto alla clonazione, da tempo impegnato nel campo della prevenzione dei tumori e della medicina sociale.
Vittorio Sgarbi
Pier Giorgio Odifreddi
Eduardo Boncinelli
Sergio Romano
Giuliano Ferrara
Eugenio Scalfari
Giulio Tremonti
Ed infine per obbligo patriottico due napoletani: Giuseppe Galasso, indefesso studioso, strenuo difensore della verità storica, sempre pronto sulle principali testate a diffondere le sue profonde conoscenze ad un vasto pubblico e Gerardo Marotta, che ha lasciato la sua professione di avvocato ed ha profuso il suo cospicuo patrimonio familiare per fondare l’Istituto per gli studi filosofici, un faro di cultura di caratura internazionale in un mondo dominato dal disinteresse e dall’ignoranza.
Qualcuno potrà notare che da questo elenco mancano i filosofi, che dovrebbero costituire il prototipo dell’intellettuale, ma tra gli italiani non ne ho trovato uno di rilievo che potesse dirsi libero da legami politici, una condizione per me indispensabile per fregiarsi del titolo, per cui ne cito alcuni solo per onore di cronaca: Massimo Cacciari, Marcello Veneziani e Paolo Flores d’Arcais.
In questo elenco allargato di nomi non vi sono donne, perché ritengo che nessuna sia degna di essere considerata un’intellettuale, ma eccezionalmente, per non scontentare il mio pubblico, costituito in gran parte da appartenenti al gentil sesso, citerò Margherita Hack e Dacia Maraini, la prima per essere una delle poche scienziate italiane di fama internazionale, ma soprattutto per essere da sempre in prima fila nella divulgazione scientifica e per la ricerca di risposte a domande frequenti tra la gente comune sul nostro destino e sulla nostra condizione nei riguardi dell’immensità dell’universo; la seconda per il suo costante impegno sulla stampa a trattare con garbata ironia le più disparate questioni di interesse umano, che tutti noi siamo costretti ad affrontare in questi anni difficili.
“Potrebbe farci il nome di qualche intellettuale non italiano?”, incalza la giornalista.
Tra gli stranieri Tahar Ben Jellun, Jeremy Rifkin e sarei tentato di includere anche papa Benedetto XVI.
Il primo, scrittore francofono di ampie vedute, per avere sempre nei suoi libri tenuto ben presente il problema della coesistenza di popoli e culture diverse, uno degli imperativi categorici più impellenti della modernità, il secondo per essersi interessato con grande vigore morale ed estrema competenza di una serie di problematiche di vitale importanza per il nostro futuro, dalle energie alternative alla fine del lavoro, riuscendo sempre ad avere un uditorio ampio, internazionale ed estremamente qualificato.
Riguardo al pontefice, nessuno può discutere la sua sterminata erudizione ed estrema saggezza, che ne fa uno dei punti di riferimento più certi non solo per i credenti, ma per tutti gli uomini di buona volontà, come dimostrano le sue encicliche, che parlano di argomenti di scottante attualità per i quali propone ragionevoli soluzioni.
Nel passato l’intellettuale, si identificava spesso con il potere o era al suo servizio, la conoscenza in un mondo di ignoranti era un passaporto decisivo per occupare una posizione di rilievo nella società, dallo stregone in una tribù al consigliere del principe o dell’imperatore.
Anche nel secolo scorso il ruolo dell’intellettuale era frequentemente contiguo alle stanze del potere o ad un credo politico; emblematico in Italia il caso dell’intellettuale definito organico, per intendere un personaggio legato, per non dire docilmente asservito, ai diktat del partito comunista.
Oggi dall’intellettuale ci aspettiamo un’indipendenza di giudizio, che dia alle sue affermazioni pubbliche la necessaria autorità morale.
Possiamo inoltre delineare le altre caratteristiche: erudizione nella propria materia, apertura ai problemi della società, disponibilità ad usare i mass media per trasmettere idee e pensieri, estraneità nei riguardi dei partiti, preoccupazione per il futuro dell’umanità.
REGOLIAMO LA CACCIA, UN’ANACRONISTICA VERGOGNA
In questi giorni al Senato si discute di abolire i periodi in cui la caccia è permessa, in tal modo si potrà sparare qualsiasi preda dal 1 gennaio al 31 dicembre, con esiti naturalmente devastanti sul pochi animali che ancora sopravvivono sul nostro territorio. Periodicamente monta la polemica sulla caccia e sempre più persone ne chiedono l’abolizione; anni fa la questione fu persino oggetto di un referendum, che però non raggiunse il quorum, ma questa volta i giornali non si sono interessati minimamente della vicenda, perché in Italia esistono più di due milioni di cacciatori, i quali mettono in moto un mercato multimilionario. L’economia di intere città, ad esempio Brescia, è legata alla vendita delle armi, delle cartucce, delle divise, una massa di denaro e di posti di lavoro che sarebbero in pericolo se fossero vietate le attività venatorie.
I cacciatori esercitano per puro diletto quella che fu un’inderogabile necessità per i nostri progenitori: procacciarsi il cibo, ma uccidere a freddo senza motivo è semplicemente vergognoso. L’aspetto più sconcertante, e da abolire quanto prima, è la possibilità per i cacciatori, sancita dall’articolo 842 del codice civile, di poter entrare armati nelle proprietà altrui e sparare a 150 metri dalle case, con rischi gravissimi, tenendo conto che le carabine adoperate per gli ungulati possono avere un raggio di azione di 3500 metri ed in considerazione anche dei requisiti richiesti per ottenere la licenza di uccidere, che ne permettono il rilascio anche a guerci, occhialuti e monchi con protesi. E non dimentichiamo che l’arcaico rito prevede un corteo inevitabile di grida spaventate, rantoli strazianti, sangue in abbondanza e spari assordanti, uno spettacolo indegno al quale si è costretti ad assistere in casa propria, subendo un’invasione autorizzata dalla legge di gente spesso prepotente e minacciosa.
Ci sarà qualche parlamentare coraggioso che voglia inimicarsi le lobby potentissime che si arricchiscono su questa turpe abitudine? Possiamo solo sperarlo.
IL LEONARDO, MONUMENTO ALL’INEFFICIENZA IN MOVIMENTO
Il Leonardo del quale intendiamo parlare non è il celebre scalo internazionale sul quale pure ci sarebbe tanto da recriminare, bensì più modestamente è il treno che ogni 30 minuti permette ai viaggiatori che debbano prendere un aereo di raggiungere le piste dalla stazione Termini e viceversa. Il prezzo del biglietto: 12 euro per un percorso di poche decine di chilometri farebbe ipotizzare grande confort ed elevate velocità, pagando l’utente una cifra superiore in proporzione a quanto si sborsa per accomodarsi sul Freccia Rossa, vanto delle nostre ferrovie.
Si comincia con la difficoltà ad identificare il binario di partenza, arretrato di oltre cinquecento metri rispetto alla griglia degli altri treni, con sforzi sovraumani per trasportare le valigie in una stazione dove mancano non solo i facchini, una specie estinta nonostante la straripante disoccupazione, ma anche dei modesti carrelli. Giunti finalmente alla metà, affannati ed imprecanti, si fatica a riconoscere il convoglio sul quale salire; infatti ad accogliere il malcapitato utente vi sono carrozze puteolenti, prive di settori per i bagagli e con i servizi igienici quasi sempre fuori servizio, senza parlare dei tempi di percorrenza, superiori a quelli del primo treno italiano: il Napoli Portici, che nel lontano 1839 viaggiava più veloce, grazie ai tanto bistrattati Borbone.
Un biglietto da visita per il turista deplorevole che richiede al più presto un intervento per dare dignità ad un servizio indispensabile, che fa attualmente di Roma nel campo dei trasporti una città del quarto mondo.
IL BAROCCO TRA APOLOGETI E DENIGRATORI Il sogno inesausto di un cromatismo straripante
Il Barocco ha rappresentato il linguaggio della Controriforma trionfante in pittura, scultura ed architettura, dopo un periodo segnato dalla severità e dal grigio rigore tridentino. La Chiesa vuole celebrare la propria gloria e la potenza della fede, uscita vittoriosa dal confronto con i protestanti. Vi fu un’ansia quasi smodata di celebrare il rinnovato potere. La nuova corrente nasce a Roma intorno al 1630 con artisti del calibro di Bernini, di Borromini e di Pietro da Cortona e da lì si irradierà in gran parte dell’Europa cattolica.
In Italia conobbe momenti di debordante felicità cromatica a Napoli grazie a Mattia Preti, convertitosi al nuovo verbo dopo una prima adesione alla lezione caravaggesca, a Luca Giordano ed al Solimena, fino al De Mura attivo a metà del Settecento e toccò anche Lecce e la Sicilia. La versione genovese ha l’uomo di punta in Gregorio de Ferrari, un pennello di gusto già rocaille ed a Venezia fu un’ondata che si fermò solo nel secolo successivo con Piazzetta e Tiepolo.
All’estero dalla Spagna il movimento si diffuse a macchia d’olio in America meridionale sulla scia dei Gesuiti, fu molto vivo nella Germania meridionale ed in Austria, territori riconquistati alla religione cattolica e toccò il vertice in Belgio con il Rubens e con la ritrattistica aulica del Van Dyck. Non ebbe fortuna in Francia dove a lungo vi fu una polemica tra poussinisti e rubensisti e dove dettava legge una cultura ufficiale di stampo classicistico.
Esso rappresentò la fine per consunzione dell’arte rinascimentale: Raffaello, Michelangelo e gli altri giganti dei secoli d’oro avevano toccato la perfezione e non vi erano più traguardi da raggiungere. Il Barocco nasce da questa esigenza di nuovo, oltre che dal desiderio della Chiesa di esaltare i suoi trionfi. Essa diventa per molti anni l’unica committente, in mancanza di un ceto borghese con un gusto laico, come invece era la regola per i paesi protestanti dove gli artisti non erano costretti a lavorare per un mecenate assecondandone le richieste, ma potevano lavorare per una clientela anonima di mercanti, imprenditori, professionisti, artigiani ricchi. Nelle opulente case del nord non vi è spazio alcuno per l’apologia né per il compiacimento delle virtù, mentre paesaggi, nature morte, meticolose indagini anatomiche e scene della vita di ogni giorno del villaggio sono molto diffuse.
In precedenza nel Quattrocento e nel Cinquecento la Chiesa non aveva goduto di una preminenza da monopolio, per la presenza di potenti mecenati laici. Un artista licenziato dal papa o da un cardinale avrebbe trovato subito sistemazione presso un Medici o un Gonzaga, se non alla corte di un doge, inoltre l’umanesimo aveva permeato anche i religiosi, che tolleravano quei pittori che plasmavano le loro madonne con una sensualità più carnale che celeste.
L’arte sacra era anche profana e perciò riuscì a raggiungere i livelli più alti.
Dopo il Concilio di Trento questa tolleranza viene meno e vengono fissati dei canoni severi ai quali bisogna sottomettersi, pena l’intervento dei gendarmi spagnoli, braccio armato di una Chiesa che esercitava una rigida censura sulla libertà di pensiero e di espressione. Non vi era altra scelta che enfasi e declamazione, solennità ampollosa e glorificazione di santi e madonne.
Tutta l’arte viene costretta ad esprimersi entro binari ben determinati e l’unica evasione per l’artista risiede nel poter sfogare senza limiti la sua fantasia coloristica e la bizzarria decorativa fino alla pura farneticazione. Grande maestria, ma anche tanto mestiere, nel creare quell’orgia di forme e quel diluvio cromatico, quella teatralità di sfondi, quei contorsionismi muscolari esagitati nella scultura, quella falsa solennità scenografica nell’architettura.
Il trionfo del Barocco si raggiunge quando si può dare libero corso alle ragioni del cuore più che della mente, dare ascolto alle voci varie e mutevoli dell’universo traducendole in fantasie ed emozioni variopinte. In questo abbandono dei sensi il sogno di levità, di delizia e di rapita eleganza del secolo si esprime in una radiosa tastiera cromatica, in grado di sciogliere la forma in luce, radiosa e vibrante , mentre la materia si scorpora e si smaterializza come un tenero miele di sole che scorre dappertutto e tutto intride con la sua dolcezza.
Nell’Ottocento il Barocco, oramai soppiantato da altre mode ed espressioni artistiche, fu condannato in un clima di rigore neoclassico e fu definito come strampalattezza e cattivo gusto. Anche Croce condannò il movimento, ma il suo giudizio era riferito alla letteratura del tempo ed a certi aspetti del costume seicentesco, anche se poi il suo parere è stato erroneamente esteso anche alle arti figurative.
Vi furono come in ogni tempo buoni e cattivi artisti, i primi agitati da un pathos interno che domina gli spazi, flette le superfici architettoniche, agita i marmi, imprime la vita al bronzo e fa turbinare con eguale energia glorie celesti ed allegorie profane, mentre i meno ispirati, appesantiscono con pesante orpello le superfici sfacciatamente dorate in una volgare combinazione di forme grevi e di colori stridenti.
Queste brevi considerazioni sul Barocco hanno costituito il nucleo principale di una lezione da me tenuta, su invito del professor Loire, davanti ad un pubblico giovane ed entusiasta, costituito da appassionati e non da specialisti, al College de France, una celebre e preziosa istituzione, che autorizza i relatori ad affrontare i temi assegnati con una certa libertà e di questa possibilità dobbiamo essere grati in egual misura a Guillaume Budé e a Francesco I.
IL COMPITO DELL’EUROPA: FAVORIRE L’INTEGRAZIONE
Nel suo ultimo libro, Bauman, celebre per le sue ipotesi rivoluzionarie e per aver coniato il termine di società liquida, assegna all’Europa un compito gravoso: quello di correggere il progresso e la sua spirale di consumismo esasperato, con bisogni che tendono a dilatarsi all’infinito, fino all’imminente esaurimento delle risorse planetarie. Il nostro deleterio modello di sviluppo senza limiti prevede, come corollario indispensabile, il degrado intollerabile del tenore di vita di miliardi di uomini e l’irreversibile apocalisse ambientale. Anche le forze di sinistra più oneste, prive di idee e di programmi, si limitano a mitizzare l’aumento della produzione come panacea di tutti i mali. Purtroppo tra i pochi intellettuali rimasti, spenti i grandi ideali del secolo passato, si avverte oramai la sensazione di essere giunti al fine corsa. L’Europa è in grado di adempiere a questa missione impossibile nello stato di apparente decadenza che da tempo sembra averla colpita e che si può riscontrare nei troppi corpi debordanti ed in tante menti svogliate?
Il vecchio continente da tempo ha abdicato al suo ruolo di guida del mondo, dopo aver dominato la scena per secoli, grazie alla sua straordinaria forza creatrice che negli ultimi due secoli ha prodotto ingegni mirabili da Proust ad Einstein, da Baudelaire a Picasso, da Freud a Marx, da Yeats a Monet, ma anche grandi massacratori come Napoleone, Hitler, Stalin. La vocazione dell’Europa è stata sempre quella di accogliere e di trasformare, una prodigiosa capacità di amalgamare dei e miti provenienti da lontano ed oggi vi è un disperato bisogno di questo dono di metamorfosi. Il brulicante mondo povero preme ai nostri confini e reclama almeno le briciole della nostra opulenza. I giovani indiani e cinesi studiano più dei nostri figli ed il futuro dell’umanità è nelle loro mani.
Bisogna però domare i veleni devastanti annidati nel fanatismo religioso, che agita milioni di uomini in marcia, esaltando nello stesso tempo le energie più vitali che sgorgano copiose dall’intreccio libero e fantasioso del meticciato genetico e culturale. Nessuno come gli europei ha viaggiato, ha conosciuto, ha posseduto il mondo con inesauribile vitalità, fin da quando le navi greche portavano la civiltà su tutte le coste del Mediterraneo ed Ulisse placava la sua sete di conoscenza oltre le colonne di Ercole. Ora non sentiamo più l’obbligo di dominare la storia, di vincere, di conquistare, di colonizzare, percepiamo la presenza intorno a noi di popoli proiettati verso il futuro dell’umanità, ma possiamo concedere loro di abbeverarsi alla nostra cultura ed alla nostra saggezza.
Sappiamo discernere le civiltà più lontane da noi ed i sussulti magmatici di uomini in marcia verso una nuova civiltà, dobbiamo sforzarci di comprendere le loro ansie e le loro aspirazioni, dobbiamo favorire la creazione di uno spazio dove possano convivere pacificamente tutte le idee e le passioni che si sono affacciate sulla scena dall’inizio del mondo. Bisognerà sfruttare ancora la nostra intelligenza e la nostra fantasia, la nostra intuizione e la nostra immaginazione, questa è la missione che attende l’Europa e che tutti noi dobbiamo affrontare con volontà e determinazione.
Possiamo essere certi: l’Europa sarà all’altezza delle sue migliori tradizioni ed ognuno di noi può divenire un umile quanto indispensabile soldato in questa pacifica battaglia
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