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sabato 20 luglio 2013

Scrittori in gabbia un genere letterario



Mentre il governo con il recente decreto legge “Sfolla Carceri” ha platealmente preso per i fondelli le aspettative dei detenuti, da tempo vanno di moda i libri scritti da ospiti dello Stato, hai quali i mass media dedicano una notevole attenzione, a partire da “Il Candore delle cornacchie” di Salvatore Cuffaro, ex presidente della Regione Sicilia, che in pochi mesi ha venduto 40.000 copie ed è stato anche candidato al Premio Strega, fino a last but not least “Non mi avrai mai” di Gaetano di Vaio, il quale racconta lo spaccio, gli scippi, le rapine, la camorra e gli anni trascorsi nell’inferno di Poggioreale.
Il protagonista del romanzo autobiografico è uno scugnizzo cresciuto nel degrado di Scampia, tra lo squallore delle vele, una vergognosa espressione di una modernità frutto di un teorema antropologico che riduce l’uomo a bestia.
Inizia a rubare a nove anni, poi il cursus honorum: scippatore, rapinatore, per finire responsabile di una piazza di spaccio da 3.000 dosi al giorno.
Naturalmente la sua carriera lo porta nell’Alcatraz napoletano, dove avviene il miracolo, perché egli riesce ad incanalare rabbia e frustrazione nello studio e nella lettura.
È testimone di tanti episodi tragici, che trasforma in epica, e a differenza di tanti altri libri in chiave vesuviana, l’autore utilizza una fantasia ed una abilità descrittiva tali da creare una polifonia con le voci dei tanti personaggi perfettamente delineati, i quali acquistano agli occhi del lettore una consistenza corporea come se stesse assistendo ad un film, un kolossal alla Sergio Leone, che potrebbe intitolarsi tranquillamente “cera una volta a Napoli”.
Per rimanere nel tema vogliamo segnalare l’imminente ciclo di presentazioni di libri scritti da reclusi che si terrà nella mitica biblioteca Papillon di Rebibbia.
Si partirà con le “Favole da Rebibbia” del sottoscritto, si proseguirà con “Il candore delle cornacchie” e poi sarà il turno di pasquale Gissi autore di “Cronistoria di un amore folle”.

martedì 9 luglio 2013

Una monografia su Paolo de Matteis


Mentre da decenni studiosi ed appassionati attendono una grande mostra su Francesco Solimena e soprattutto una monografia aggiornata sulla sua opera, che aggiorni quella redatta nel 1958 da Ferdinando Bologna, divenuta oramai un libro da antiquariato del valore di alcune migliaia di euro, grazie al lavoro di uno studioso americano da tempo residente a Roma: Livio Pestilli, esce un esaustivo volume dedicato ad uno dei suoi più validi rivali.
Il testo: “Paolo de Matteis, neapolitan painting and cultural History in Baroque Europe (ashgan, farnham, surrey)” è uscito per il momento solo in Gran Bretagna, a dimostrare, se ve ne fosse bisogno della valenza internazionale della pittura napoletana. È un destino che accomuna tutti i testi sulla produzione figurativa all’ombra del Vesuvio, soprattutto quelli riguardanti il secolo d’oro, di vendere più all’estero che in Italia.
Ad un catalogo ragionato dei dipinti del de Matteis lavorava da tempo un mio allievo: Francesco Napolitano, ma purtroppo è sempre più difficile trovare un editore disposto a rischiare su un giovane, per quanto di talento.
Paolo de Matteis, allievo di Luca Giordano, nasce nel 1662 a Piano Vetrale, una frazione di Oria del Cilento ed è attivo fino al 1728, occupando una posizione di rilievo nel panorama artistico, non solo napoletano, soprattutto nei primi decenni del Settecento.
A differenza del Solimena, il quale, nei suoi 90 anni di attività non si è mai spostato da Napoli, de Matteis ha viaggiato molto soggiornando a Roma, Genova e Parigi, ed inviando opere non solo a collezionisti italiani, ma anche in Francia, Spagna, Austria, Germania e Inghilterra.
Il lavoro di Pistilli è frutto di lunghe indagini e parte naturalmente dalla lunga biografia che gli dedica il De Dominici, il quale, contemporaneo e ammiratore del Solimena lo indica come un artista di bassa statura “ofano” e rapidissimo nel completare le sue tele, addirittura più del suo maestro, soprannominato “Luca fa presto”. Ma quando passa ad esaminare la sua produzione esprime spesso dei giudizi lusinghieri.
Egli praticava dei prezzi di gran lunga inferiori al Solimena, tra i più cari artisti europei, con committenti importanti che gli affidavano opere di altissimo livello.
Un momento focale nel percorso artistico del de Matteis è costituito dall’incontro, avvenuto a Napoli nel 1711, con il conte di Shaftesbury, raffinato filosofo, il quale influenzerà il senso estetico del pittore, come possiamo apprezzare nel celebre: “Ercole al bivio”, conservato a Gile’s house, Dorset in Inghilterra.
Nel libro viene dedicata particolare attenzione al soggiorno parigino del pittore, adoperando un linguaggio colto, ma nello stesso tempo divulgativo.
La parte iconografica è molto ricca e si avvale di foto a colori di Claudio Garolfalo. Alla fine l’artista è delineato come abile quanto bizzarro e tra i protagonisti del Barocco italiano.

BIBLIOGRAFIA
A. della Ragione – il secolo d’oro della pittura napoletana – 10 tomi (ad vocem) - Napoli 1998-2001
A. della Ragione – la pittura napoletana del Seicento – (repertorio fotografico a colori) tomi I–II (ad vocem) - Napoli 2011
R. Lattuada – il volto di de Matteis, il genio barocco - pag 48 Il Mattino del 21/6/2013

 Paolo de Matteis - la  pittura che ritrae l'artista e mostra il volto di de Matteis


lunedì 8 luglio 2013

UN GIORNALISTA SCRITTORE

Antonio Ghirelli

Ho avuto numerosi contatti con Antonio Ghirelli all’epoca in cui preparavo il mio libro sul Comandante, “Achille Lauro Superstar: la vita, l’impero, la leggenda” (consultabile sul web), perché anch’egli ne aveva trattato in “Un’altra Napoli. Achille Lauro l’ultimo re borbone” del 1993 e nel volume “Napoli dalla guerra a Bassolino” del 1998.
Ogni volta che capitavo a Roma ci incontravamo per uno scambio di opinioni: si parlava di Napoli e mi colpì molto un aneddoto riguardante il preside del Liceo Sannazaro del Vomero che, durante il fascismo, aveva avuto il coraggio di formare una classe con ragazzi ed insegnanti ebrei.
Parlando con lui, fui sorpreso dalle sue considerazioni sul rapporto tra cristianesimo e socialismo che considerava l’unico pensiero laico più vicino agli insegnamenti di Gesù perché fondato sulla solidarietà. Nessuno, che stia bene, può far finta di niente se qualcun altro sta male perché siamo tutti sulla stessa barca e non si può ignorare il malessere degli altri.
Non considerava la divinità di Gesù come l’elemento fondante del suo insegnamento: per lui, il principio dal quale doveva derivare il tutto, era l’affermazione “ama il prossimo tuo come te stesso ed, allo stesso modo, anche il tuo nemico”. Considerava i primi tre evangelisti, Matteo, Luca e Marco, i più grandi giornalisti mai esistiti perché, con la semplicità della fede, senza orpelli aggiuntivi, raccontano gli avvenimenti così come si sono verificati, essendone stati, per molti di essi, anche protagonisti o spettatori. Il problema è che, ad un certo punto, il movimento cristiano è cresciuto ed ha avuto necessità di organizzarsi e ci si è affidati a Paolo di Tarso che, da romano, ragionava da legislatore e questo ha contribuito a creare un potere temporale che nel corso dei secoli si è fatto sempre più imponente.
Antonio Ghirelli nasce a Napoli il 10 maggio 1922. Frequenta il Liceo Umberto, nel quartiere Chiaia, avendo compagni di classe o d’istituto i giovani Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Francesco Rosi, Giorgio Napolitano, Francesco Compagna, Massimo Caprara, con i quali cementerà un’amicizia durata tutta la vita. 
Pubblica i primi articoli sulla rivista “IX Maggio”, il giornale della gioventù universitaria fascista. All’università di Napoli, che all’epoca non era ancora dedicata al grande Federico II, oltre all’amore per tutto quello che è cultura, libri,cinema, teatro, scopre l’impegno politico che, nel 1942, lo porta ad iscriversi al Partito Comunista ed a partecipare in seguito alla Resistenza. Negli anni della Repubblica di Salò è cronista a “Radio Bologna Libera”, allestita dagli Alleati e, dopo la guerra, inizia la vera e propria professione giornalistica collaborando con “L’Unità” e “Milano sera”.
L’amore per lo sport  lo porta a “Paese sera”, alla “Gazzetta dello sport” e poi, dal 1966 al 1977, a  dirigere  “Tuttosport” e “Corriere dello sport”.

Antonio Ghirelli

Sandro Pertini ed Antonio Ghirelli

La sua grande e multiforme cultura gli permette di scrivere articoli di terza pagina per il “Corriere della sera”, “Il Politecnico”, “Repubblica d’Italia”, “Il Mondo”  e  “l’Avanti!”, organo del Partito Socialista cui si iscrive  nel 1956 quando, a seguito dell’invasione dell’Ungheria da parte della Russia, lascia il Partito Comunista. 
Il primo presidente socialista della Repubblica Italiana, Sandro Pertini, lo vuole a capo dell’Ufficio Stampa del Quirinale, incarico da cui si dimette nel 1980 in seguito alla diffusione di un comunicato stampa nel quale il Presidente Pertini auspica le dimissioni del Ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, di cui si vocifera un probabile favoreggiamento a beneficio di Marco Donat Cattin, terrorista di Prima Linea, figlio di Carlo, importante esponente democristiano. In realtà, il comunicato era stato scritto da altri ma Ghirelli se ne assume la responsabilità per tutelare un  giovane collaboratore. Qualche anno dopo, Marco Donat Cattin muore tragicamente cadendo nel vuoto tra  i  guardarail di un’autostrada nel tentativo di prestare soccorso ad automobilisti coinvolti in un incidente sull’altra corsia.  
Dal 1983 al 1986 Ghirelli è chiamato dal capo del governo Bettino Craxi a dirigere l’Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dal 1986 al 1987 è direttore del TG2 e, dal 1988 al 1989, direttore dell’”L’Avanti!”.
Mi parlava del socialista Craxi in maniera entusiasta: diceva che era dotato di un’umanità enorme  ma era stato tradito da molti. Mi raccontò che, durante un viaggio  a Buenos Aires  dopo la caduta del regime fascista che aveva fatto letteralmente sparire migliaia e migliaia di oppositori (i “desaparecidos”) e l’elezione a presidente di Raùl Carlo Alfonsìn, giornalisti argentini gli avevano raccontato che erano accorsi per ascoltare e vedere da vicino  Bettino Craxi che, negli anni dell’oppressione, li aveva sostenuti politicamente e finanziariamente. Alla richiesta di Ghirelli di poter scrivere sull’argomento, ci fu il divieto del politico che, da buon siciliano, volle tenere riservata quell’opera meritoria.
L’amarezza del vecchio socialista Ghirelli è stata raccontata da Nello Ajello su “Repubblica” quando, nel ricordarlo dopo la morte, avvenuta a Roma  l’1 aprile 2012, ne ha evidenziato il dolore nel constatare, nella sua qualità di militante ed ex direttore dell’”Avanti”, che personaggi come Walter Lavitola, ultimo proprietario della gloriosa testata,  si professassero socialisti, tradendo il significato, per lui sacro, di quel termine.
La produzione letteraria di Ghirelli, dal 1954 al 2011, spazia dal teatro alla storia, dallo sport alla politica.
E’ autore di teatro (“Mettiamo le carte in tavola” per Aldo Giuffrè, la bellissima “Io, Raffaele Viviani” interpretata dal grande Achille Millo e da Marina Pagano ed “Un borghese napoletano) e saggista (“Storia del calcio in Italia” , ”Tre volte Campioni del mondo”, “Storia di Napoli”, “Napoli italiana”, “Napoli sbagliata”, “Napoli dalla guerra a Bassolino”, “Effetto Craxi. Profilo di un nuovo leader”, “Moro tra Nenni e Craxi”, “Tiranni: da Hitler a Pol Pot”, “ Un secolo di risate: Eduardo, Totò e gli altri”, Democristiani. Storia di una classe politica dagli anni Trenta alla Seconda Repubblica”, “Aspettando la rivoluzione. Cento anni di sinistra italiana”, “Una moglie incantevole”, ultima sua fatica pubblicata nel 2011). 
Il suo amico di gioventù, il presidente Giorgio Napolitano, lo ha ricordato come “interprete autentico dell’anima di Napoli” oltreché “giornalista di razza, guidato dalla sua passione di democratico e di socialista” ma il più bel ricordo ne è stato scritto da Cesare Lanza:  Ghirelli è stato <<giornalista, scrittore, partigiano, spirito inquieto e ribelle, curioso di tutto e di tutti, uomo buono e per bene: ricordiamo la sua passione politica, il suo estro, la sua versatilità, la sua nobile e sanguigna napoletanità, il suo umorismo, la sua ironia gentile, il suo amore infinito per la moglie Barbara>>. 
Con Antonio Ghirelli continuavo a mantenere un contatto epistolare.
Aveva in animo di scrivere un nuovo libro su Achille Lauro ma, candidamente, mi confessò che, dopo aver letto il mio, non avrebbe avuto nulla da aggiungere: naturalmente, questa dichiarazione mi ha reso orgoglioso.

Antonio Ghirelli


giovedì 27 giugno 2013

Presentazione del libro di Achille della Ragione “La Napoletanità arte miti e riti a Napoli”




 “Napoletanità arte miti e riti a Napoli” di Achille della Ragione
editore CLEAN, pag 176, fig 300 a colori, 15 euro
per la consegna del libro a domicilio Tel. 081 55 14 334

Venerdì 31 maggio 2013 nei locali della Galleria d’Arte “Minerva Auctions”, sita nel prestigioso Palazzo Odescalchi di Roma, è stato presentato l’ultimo libro di Achille della Ragione dal titolo “Napoletanità arte miti e riti a Napoli”, edito dalla casa editrice Clean di Napoli.
Alla presenza di un foltissimo pubblico si sono alternati al tavolo dei relatori la prof.ssa Elvira Brunetti, moglie dell’autore; il prof. Pietro Di Loreto, docente di storia dell’arte; l’ing. Dante Caporali, cultore di cose napoletane e l’autore stesso, il dott. Achille della Ragione.
Una breve introduzione della prof.ssa Brunetti ha focalizzato il contenuto del libro ed i motivi che hanno spinto Achille della Ragione a cimentarsi nella produzione di quest’opera che prevede la pubblicazione di altri quattro volumi sull’argomento per rappresentare alla fine un vero e proprio manuale di Napoletanità vista con gli occhi e l’animo dell’autore, in definitiva un atto d’amore verso questa meravigliosa città.
Il prof. Di Loreto ha tracciato poi un breve profilo dell’autore ricordando le sue varie pubblicazioni sulla pittura napoletana del ‘600, dall’opera in 10 volumi “Il secolo d’oro della pittura napoletana” alle varie monografie su molti pittori napoletani del ‘600 come Giuseppe Marullo, Pacecco De Rosa, Aniello Falcone, Niccolò De Simone, ricordando altresì la grande capacità di Achille della Ragione nel riconoscere le paternità di tanti dipinti del ‘600 napoletano, molti dei quali dati in precedenza ad ignoti ed altri non correttamente attribuiti, in virtù della sua straordinaria competenza.
L’ing. Caporali, amico di vecchia data dell’autore, ha parlato in primo luogo della sua lunga collaborazione con Achille della Ragione per la realizzazione di gran parte della sua produzione letteraria degli ultimi dieci anni, rammentando anche alcuni episodi relativi alle ricerche di archivio e alle innumerevoli visite a chiese e musei,tra i quali l’emozionante scoperta di una Pietà di Mattia Preti, nascosta nella sagrestia di una chiesa di Forio d’Ischia. In seguito ha parlato più in dettaglio del contenuto del libro, che si configura come un vero e proprio viaggio nell’anima più profonda della città di Napoli, nella sua storia, nelle sue tradizioni, nelle sue leggende, insomma in tutto ciò che costituisce la Napoletanità, intesa come un continuo susseguirsi di espressioni artistiche,di miti e di riti, in definitiva di questi tre aspetti che si ritrovano costantemente nella millenaria tradizione partenopea e che molto spesso si fondono tra loro fino a renderne indistinguibili i confini. Poi ha letto alcuni passi del libro soffermandosi in particolare sulle descrizioni di alcune opere d’arte e puntualizzando anche in questo caso la finalità dell’autore, cioè di andare sempre alla ricerca dell’intima essenza dei soggetti rappresentati e quindi dei loro significati più nascosti, sempre allo scopo di mettere in luce i caratteri salienti della Napoletanità.
Infine è intervenuto l’autore del libro, il quale si è intrattenuto in particolare sulla sua situazione personale ricordando le innumerevoli difficoltà da dover superare a causa di regolamenti anacronistici ed ottusi, spesso lesivi della dignità umana, che frequentemente portano anche a non tener conto delle condizioni di salute di tante persone, a volte già compromesse, che inevitabilmente tenderanno sempre più ad aggravarsi.
Quindi proprio per queste ultime considerazioni il libro assume una valenza straordinaria perché è il frutto dell’inesauribile forza di volontà dell’autore, il quale, nonostante le tante  restrizioni di cui è stato ed è ancora vittima, ha tenacemente creduto nella realizzazione di questa sua testimonianza per continuare a sentirsi vivo ed utile agli altri. La lettura di questo volume è senz’altro il modo più efficace per far sentire realmente la presenza di Achille della Ragione fra tutti noi, per non recidere quel sottilissimo filo che ancora ci unisce a lui.

Dante Caporali









martedì 4 giugno 2013

"Ho smesso di piangere" di Veronica Pivetti



Nella mitica biblioteca Papillon, fiore all'occhiello del penitenziario di Rebibbia, Veronica Pivetti ha presentato all'intellighentia dei detenuti il suo ultimo ( Ed anche il primo) libro: "Ho smesso di piangere", una sorta di via crucis, nella quale racconta i sei anni vissuti nella più profonda depressione, come ci é caduta e come é riuscita ad uscirene fuori.
Più che una presentazione tradizionale si é trattato di una botta e risposta con i presenti, molti affetti dallo stesso male oscuro , speranzosi di trovare attraverso la sua esperienza un modo per uscire da uno stato di malessere, che ti toglie la gioia di vivere.
Un'ora e mezzo conclusa con pasticcini ed aranciata e con un arrivederci nel teatro del carcere per assistere al suo prossimo spettacolo teatrale, una performance sul tema della morte, giusto per rimanere in allegria.
La novella autrice ha esordito, dicendo che la Mondadori, subito dopo averle offerto di scrivere il suo viaggio di andata e ritorno negli inferi dell'inconscio, le aveva subito proposto il ghost writer, che materialmente avrebbe preparato il testo, a cui apporre unicamente la firma.
Veronica sdegnata ha rifiutato, precisando che non solo avrebbe scritto di suo pugno la storia, ma non avrebbe accettato alcuna sorta di censura. Ci ha pure confidato che, sull'onda del successo del libro, grazie, oltre al suo nome noto al grande pubblico, come attrice spassosa e coinvolgente, soprattutto per la partecipazione alla trasmissione di Irene Bignardi "Le invasioni barbariche", un volano straordinario per captare lettori, la Mondadori le ha proposto la stesura di un nuovo volume dal titolo.... Non possiamo riferirlo per motivi contrattuali. Lo abbiamo promesso e non per niente siamo omertosi.
Non vogliamo raccontare la trama del libro per non togliere al lettore il piacere di percorrere pagina dopo pagina l'angoscioso cammino verso la luce, ma accenneremo soltanto all'origine del disturbo, che Veronica attribuisce ad una invasiva terapia di una forma di ipertiroidismo, ad un continuo cambio di medici curanti, psichiatri e psicologi e dell'aiuto decisivo per guarire del rapporto di vicinanza con l'amica del cuore Gio.
La depressione é una cosa tremenda, per guarire faresti qualsiasi cosa, anche leccare il pavimento, una condizione condivisa da tanti detenuti, come parlare di corda in casa dell'impiccato.
Ho chiesto se qualche psichiatra le avesse consigliato l'uso del Prozac, una vera panacea. In questo tipo di disturbo e se sifosse indagato sulle pulsioni sessuali, che notoriamente si azzerano, come ci ha confermato perentoriamente la nostra simpatica interlocutrice.
Senza citare le tante domande, un vero martellamento, alcune azzeccate, altre completamente fuori luogo, l'impressione finale del pubblico é stata che l'aiuto da parte di Gio, fondamentale per la guarigione, sottenda ad una infatuazione saffica, opinione che da consumato sessuologo ed impareggiabile conoscitore delle donne ( nel mio studio di ginecologo sono passate oltre 60.000 clienti, le quali, oltre alla nudità del corpo, spesso e volentieri, hanno messo a nudo la propria anima) non condivido pienamente.
Invito a consultare su internet il mio libro "La fragilità e la verginità nella donna" per trovare numerosi casi simili e la risposta al quesito:
Sic transit gloria mundi.


mercoledì 29 maggio 2013

Presentazione “Napoletanità arte miti e riti a Napoli


Venerdì 31 maggio 2013 
appuntamento alla "Minerva Auctions Palazzo Odescalchi" piazza SS. Apostoli 80, Roma
alle ore 16:45 per la presentazione del più recente libro di
Achille della Ragione.
Sarà presente l'autore!!!!!


Il libro di Achille della Ragione “ Napoletanità arte miti e riti a Napoli” editore Clean è dedicato a tutti coloro che hanno continuato ad amare Napoli nonostante tutto…
Si tratta di un insieme di articoli che ricordano la storia ed esaltano le tradizioni, i costumi e i misteri della culla di un antico fascino: dalla mitica Piedigrotta allo Struscio, alla Sirena Partenope. Dal mondo delle fatture al Diavolo di Mergellina, dal Misterioso mondo dei Femminielli a Maradona. Da “Gli antichi Monte dei pegni all’epicedio del Banco di Napoli”. Interessante l’analisi della “Gloriosa storia ospedaliera, ma una sanità malata”. Dalla Ruota dell’Annunziata a Gomorra di Saviano, senza dimenticare San Gennaro, che da sempre protegge la sua città.
Si evidenzia nello scorrere della lettura una profonda conoscenza degli argomenti affrontati da un punto di vista artistico, storico e scientifico; tutti corredati e documentati da fotografie e immagini a colore.
Il presente volume è il primo di un cofanetto con 3 tomi sulla Napoletanità e 2 su 100 personaggi napoletani da ricordare, per un totale di 1000 pagine e 2000 foto.

per la consegna del libro a domicilio Tel. 081 55 14 334


Achille della Ragione, già noto ginecologo napoletano ha avuto sempre la passione della scrittura. Ha pubblicato diversi libri, prevalentemente saggi di storia dell’arte, ma anche monografie di personaggi illustri come “Achille Lauro superstar”. Continua a scrivere articoli giornalistici pluridisciplinari e collabora con riviste italiane e straniere.

domenica 14 aprile 2013

Dal Carcere di Rebibbia Achille della Ragione scrive: una raccolta di favole per bambini




di Savino De Rosa

Immaginarsi rinchiusi, lontano dall’affetto dei cari e da quello dei piccoli che non capiscono il perché di una lontananza ed un’ assenza così lunga e soffrono e chiedono, e voler inviare ad essi un dono anche se intangibile, ma pieno di valori e di immagini. Così nasce l’idea di Achille di trasformare le esperienze, le relazioni, le sofferenze di una vita di costrizione in favole, leggendo le quali tutti noi, ma in particolare i piccoli possano fantasticare e pensare il loro caro come un valoroso condottiero impegnato a combattere feroci pirati, per liberare tutti i suoi compagni dalla disumana costrizione.
Quando, durante le festività Natalizie, lessi tutte d’un fiato e per la prima volta le favole per bambini scritte dal carcere di Rebibbia da Achille, cercai di trovare in esse il messaggio che egli voleva inviare a tutti noi, che viviamo nella condizione di agire secondo il nostro libero arbitrio, non prigionieri costretti, come lui dice, dai pirati. Le ho rilette tante volte per percepire in ognuna di esse tristezza, malinconia, ma forza interiore, amore e rispetto degli altri, voglia di riscatto che accomuna e da coraggio. Le immagini che tanto colpiscono i bambini, Rebibbia appare come un castello con torri merlate, a sinistra un cielo terso con un sole splendente e sulla destra la notte, tranquilla con una falce di luna e dal comignolo coriandoli colorati, così come le lingue di fumo. Ci sono le grate ma si perdono nella policromia dell’insieme, e la nave dei pirati, disegnata con i pastelli dal nipotino Leonardo e tutte le altre immagini, foto ci danno una rappresentazione di vita vissuta in amicizia e gioia nella comunità.
Questo è il dono di Achille per Natale, ha raggiunto e commosso noi adulti, ha raggiunto ed entusiasmato i piccoli che hanno capito il perché della sua assenza e lo hanno eletto a loro prode condottiero. Ma a noi adulti ha voluto trasmettere anche la sua visione cristiana del mondo, non creato solo per uomini, ma anche per la natura, che sia essa una fonte, un albero, un animale. L’amore, il rispetto e la dedizione per i suoi compagni, che molte volte qui fuori, viene trascurato e a volte mercificato, è un valore formidabile che completa il suo messaggio. Ogni favola è una dedica ai suoi compagni e che li ha fatti diventare compagni di tutti noi che abbiamo letto. L’amore per la natura, per gli animali, il volo libero dei gabbiani, il rapporto con la gattina Chicca e con gatta Lucia, la rianimazione bocca a bocca del cagnolino, Il curioso topolino Michele, che seppur protetto dai gatti all’interno, preferisce ripercorrere all’inverso il piccolo foro da cui era entrato, dopo aver visto le cucine ed il cibo preparato, sono messaggi che toccano i cuori dei bambini, ma non solo. E’ stato bravo come sempre, Achille, ma questa volta ha voluto darci qualcosa che a volte, noi, non sappiamo cogliere: la forza delle cose semplici, l’integrazione tra diversi, il presepe che unisce gli affetti, la competizione che premia il vincitore e fa sognare la libertà e tanto altro.
Siamo in periodo Pasquale, festa di resurrezione ed il nuovo Papa ha messo nella sua missione l’aiuto dei poveri, dei deboli, degli indifesi, dei costretti e allora se tutto questo è un valore e se le sue favole sono un valore, non può pensare e sperare che ad un solo finale, quello che lo vede tornare vittorioso ai suoi cari ed ai suoi piccoli. Gli altri finali porterebbero solo dolore, dispiacere, ricordo che si affievolisce e lascerebbe molto poco di sé.
Brinderemo un giorno di grande festa e che sia prossimo, ma fino ad allora dai sempre agli altri tutto quello che hai dentro ed è tanto. Forza amico mio!


NB: il testo del libro: ''Dal Carcere di Rebibbia: una raccolta di favole per bambini'' è disponibile in formato PDF a questo link.

lunedì 11 febbraio 2013

“Napoli e la Napoletanità. Arte, miti, riti”



nuova opera letteraria di Achille della Ragione

(Edizioni CLEAN, pag. 176, 200 immagini, 15 euro), 


Questo libro è dedicato a tutti quelli che hanno continuato ad amare Napoli nonostante tutto e vede la luce in un momento di declino della città, per anni gloriosa capitale delle arti e delle scienze. Esso rappresenta un omaggio al carattere dei Napoletani e all’anima immortale della città, che per secoli è stata, per la sua felice posizione nel cuore del Mediterraneo, crocevia di traffici e commerci, ma anche di culture diverse, che ha sempre saputo assimilare.

lunedì 7 gennaio 2013

Il candore delle cornacchie



Il grido di dolore e speranza di Totò Cuffaro dal carcere di Rebibbia


Da pochi giorni in edicola ed in libreria sono state distribuite le prime 10000 copie de “Il candore delle cornacchie” (Ed. Guerini - 20 euro; i diritti d’autore saranno devoluti in beneficenza).
Il volume scritto da Totò Cuffaro racconta la sua esperienza da uomo politico più potente della Sicilia a matricola 87833 del carcere di Rebibbia.
Per il titolo l’autore si è ispirato alle numerose cornacchie che affollano il cielo del penitenziario cantando allegramente, libere di poter andare dove desiderano e dalla circostanza che una di esse, il primo giorno di detenzione, si posò sulla finestra della sua cella e pareva volesse intraprendere un sorprendente dialogo muto col prigioniero; si parlarono con gli occhi, poi il volatile scappò via verso il vento della libertà.
Cuffaro rivendica la sua innocenza, ma, nello stesso tempo, accetta con cristiana rassegnazione la sua condanna.
Egli è sorretto da una fede incrollabile, la quale gli permette di sopportare le angherie e le assurdità di un regolamento penitenziario colmo di divieti e dove i numerosi doveri umiliano i pochissimi diritti.
Molti gioiscono quando un potente viene sbattuto nelle patrie galere, ben pochi riconoscono il rispetto per chi era andato a costituirsi con i suoi piedi, senza imprecare contro i giudici, con una dignità riconosciuta dagli stessi avversari politici. 
Nella narrazione vengono descritti senza acrimonia l’umiliazione delle manette del tutto inutili per chi si era consegnato spontaneamente, la cattiveria del sequestro degli effetti personali che con amorevole dolcezza la moglie aveva sistemato nella sua borsa, l’approfondita ispezione corporale subita, tutto nudo, in una stanza gelida.
Vedendo gli ergastolani egli si considera fortunato, che un giorno, a differenza di loro, potrà tornare ai suoi affetti familiari, alla sua tenuta in campagna dove farà il contadino, allevando pecore e capre e continuando  a produrre un vino tra i più rinomati della Sicilia.
Si parla della sua ora di corsa mattutina che gli ha permesso una forma fisica perfetta, perdendo in un anno oltre trenta chili.
Oltre cento parlamentari sono venuti a fargli visita oltre a numerosi ecclesiastici da semplici sacerdoti a qualche cardinale. Ma la visita più gradita fu quella di Marco Pannella, venuto la notte del 31 dicembre per cenare con lui assieme a detenuti ed agenti carcerari.
Poco prima vi era stato il 18 dicembre l’incontro con il Pontefice, dopo tante volte che aveva parlato con lui affettuosamente nelle sfarzose sale del Vaticano.
Confessa che vi è una donna misteriosa di cui conosce solo il nome, Antonella, che ogni giorno gli manda una cartolina per fargli compagnia da ogni parte del mondo, forse una hostess.
Vi sono anche particolari raccapriccianti come il suicidio per impiccagione di Luigi, un detenuto dimenticato dai suoi familiari e che ha pensato che l’unico modo per uscire dall’inferno della galera era togliendosi la vita.
Vogliamo terminare con una sua poesia che fa da quarta di copertina del libro.

Il carcere è un posto
che ti priva
non soltanto della libertà
ma soprattutto
del respiro lungo della vita.
Ci manca il fiato.
Il carcere ti spezza il fiato.

Totò Cuffaro



Rebibbbia 2012: Totò Cuffaro ed Achille della Ragione

mercoledì 5 dicembre 2012

Cronistoria di un amore folle


Una voce disperata che parla da Rebibbia

Continuamente ricevo libri da autori novelli che vogliono un parere o, i più audaci, una recensione. Purtroppo dovrei passare gran parte del mio tempo a leggere libri autobiografici che spesso non hanno alcun valore letterario per cui, anche se imbarazzato, sono costretto a dire di no.
Credevo fosse un caso simile a quello del libro scritto da Pasquale, un mio amico al quale non potevo rifiutarmi, ma dopo aver letto le prime pagine della sua “Cronistoria di un amore folle” mi sono dovuto ricredere perché le frasi d’amore, le descrizioni delle emozioni, le sensazioni voluttuose, spinte fino ad un erotismo esplicito quanto accattivante, sgorgano impetuose come un fiume in piena che appassionano il lettore, il quale brucia il libro tutto di un fiato.
Il protagonista della narrazione è l’amore, il più bel regalo che il Creatore ha fatto all’uomo; un sentimento che ci fa dimenticare la nostra condizione di animali, anche se intelligenti e ci avvicina alla spiritualità delle entità celesti.
Non possiamo credere che tutto si riduca ad un gioco di ormoni e mediatori chimici. I ferormoni, così efficaci nel regolare la riproduzione dei mammiferi scompaiono di fronte al profumo che emana prepotente dalla donna che si ama, la quale diventa il centro dell’universo e senza di lei la nostra esistenza non è degna di essere vissuta.
Il volume racconta l’amore tra Pasquale ed Elisabetta, che si dipana nel corso di vari anni e nasce come tutti gli amori: uno sguardo interessato, un sorriso di complicità che dà luogo in breve ad una passione folgorante, condita di frasi mielose, di baci appassionati, di tenere poesie recitate dall’autore nei momenti topici e che sono riportate nel testo, ma soprattutto di amplessi acrobatici e ripetuti da far invidia ai patiti del Kamasutra.
“Ci baciamo intensamente, ci graffiamo, ci mordiamo ed eccoci in un attimo nell’apoteosi dell’orgasmo che esplode dentro di te e ancora e poi ancora per tutta la notte. L’amore non è materia, è qualcosa che ti esplode dentro e ti annienta, ti fa impazzire di gioia … E’ un cosmo a sé che ti perfora l’anima, ti coinvolge, ti droga, ti penetra nel sangue, ti logora, ti dà forza, ti dà pazienza, si impossessa di tutto il tuo essere.” 
La “love story” nasce a Mergellina, in un ristorante di lusso e poi si sviluppa tra Roma, dove Pasquale ha la sua attività della moda, e Napoli, dove vive Elisabetta, ma i week-end sono di fuoco.
Un brutto giorno Pasquale riceve una telefonata dal suo avvocato, il quale, imbarazzato, lo informa che per un lungo periodo deve prepararsi a divenire ospite dello stato per un vecchio procedimento andato in giudicato.
Il mondo sembra cadergli addosso, ma quando riferisce dell’intoppo ad Elisabetta, lei gli giura amore eterno e gli promette che non l’abbandonerà mai, soprattutto in un momento così difficile, non mancherà ad un colloquio, continuerà a scrivere lettere grondanti tenerezza e compassione e tutto sembrava continuare come prima, fino all’arrivo di un telegramma …. E qui non vogliamo togliere ai lettori il piacere di scoprire il finale istruttivo anche se pieno di amarezza.
E’ un libro che incontrerà, ne siamo certi, un grande successo e sarà sicuramente seguito da altri, perché Pasquale mette in mostra uno stile ed una fantasia che gli permetteranno di scrivere altre storie in grado di interessare un pubblico anche dal palato raffinato.

giovedì 5 luglio 2012

151 PERSONAGGI CHE HANNO FATTO L’ITALIA



Un libro di Giuseppe Parlato che fotografa la storia
GLI ITALIANI CHE HANNO FATTO L’ITALIA (EDIZIONI RAI-ERI 2011)

Presso la mitica biblioteca Papillon di Roma Giuseppe Parlato ha chiuso il ciclo di presentazioni di libri sui 150 anni dell’Unità d’Italia, organizzata dalla Fondazione Ugo Spirito, di cui è presidente, illustrando, sotto i riflettori del TG1 e con la partecipazione di un folto ed attento pubblico il suo volume sui 151 italiani che hanno fatto l’Italia (edizione RAI-ERI).
Egli ha magistralmente delineato un’ideale galleria di personaggi, rappresentanti le eccellenze che, dal 1861 ad oggi, nel bene e nel male, hanno contribuito a creare il nostro Paese.
Nato da una rubrica radiofonica di Radio Uno: “Centocinquanta Italie”, che, nonostante andasse in onda alle 5,23 del mattino, ha avuto un largo seguito, segno che alcune categorie sono mattiniere, dai camionisti ai poliziotti, dagli spazzini alle prostitute.
Trasformato in libro ogni capitolo è stato ampliato.
Si parte da Cavour per arrivare a Napolitano. A seguire una lunga serie di capi di stato e di governo, leader politici e sindacali, premi Nobel, intellettuali, filosofi, romanzieri e poeti, senza naturalmente trascurare attori, registi, uomini dello spettacolo, calciatori, ciclisti, pugili, che hanno riunito per anni l’Italia davanti alla televisione, rappresentando spesso l’unica manifestazione d’amore verso la Patria.
Tanti sono i personaggi poco noti, che pure hanno avuto un ruolo non marginale, come Edoardo Bianchi, inventore della bicicletta moderna o Luigi Vittorio Bertarelli ideatore del Touring club, al fianco di grandi scienziati come Guglielmo Marconi ed Enrico Fermi.
Vi è ricordato Filoteo Alberini, inventore del cinema, che, solo per lungaggini burocratiche nel depositare il brevetto, si vide scippare la sua idea dai fratelli Lumière. E Maria Montessori, l’illustre educatrice, unica donna che ha avuto l’onore di comparire su una banconota.
Sono ricordati tutti i papi incluso Wojtyla, romano di adozione, un burattino: Pinocchio ed una coppia (ci aspetteremmo le Kessler) invece sono gli eroici Falcone e Borsellino.
Tra i tanti nomi ci sono anche celebri assenti come Primo Carnera, che rappresentò per anni all’estero l’immagine dell’italica forza o Livio Berruti, il quale infiammò Roma alle olimpiadi del 1960 con la sua stupenda cavalcata nei 200 metri.
Fra i napoletani si lamenta una dimenticanza di un erudito come Alessandro Cutolo e la sua famosa trasmissione “una risposta per voi” e ben più grave: Eduardo De Filippo, celebre attore e drammaturgo, Achille Lauro, grande armatore e sindaco plebiscitario e Sophia Loren, dalle forme prorompenti, la quale ha esportato nel mondo la bellezza mediterranea ed il cui seno procace ha costituito per generazioni di uomini il porto sicuro da raggiungere per riposare per sempre.
Passando ai contemporanei, intendendo gli italiani attivi nel dopoguerra, voglio ricordare tutti coloro che ho avuto modo di conoscere o di ammirare, partendo da Totò che nel 1954 ebbi modo di applaudire al Metropolitan nella sua ultima rivista Volumineide, a Giovanni Leone, di cui da bambino andavo ad ascoltare arringhe memorabili nell’aula della Corte d’Assise ricavata dalla sala capitolare del convento dei Domenicani, a Giulio Andreotti, appassionato bibliofilo, di cui conservo gelosamente un libro con dedica, a Renzo Arbore ospite della mia villa di Ischia, a Mike Bongiorno che nel 1972 ho conosciuto quando partecipai alla sua trasmissione Rischiatutto, occasione unica per contemplare il corpo statuario di Sabina Ciuffini), Bruno Vespa, di cui presentai un libro in una rassegna letteraria ad Ischia, per chiudere in gloria con il presidente Napolitano, che nel 2003 ebbi l’onore d’invitare ad un convegno da me organizzato all’Istituto degli studi filosofici sul tema: “Napoli capitale del Mediterraneo”.
Per concludere: un libro agile che si legge di un fiato, ottimo da portare sotto l’ombrellone per celebrare degnamente, fra una nuotata ed uno sguardo a qualche topless di passaggio, i 151 personaggi che hanno fatto l’Italia.

lunedì 25 giugno 2012

Libro di Melania Rizzoli sul dolore nel carcere


VOCI DI DETENUTI CELEBRI RIDOTTE A PALLIDI ECTOPLASMI


DETENUTI - INCONTRI E PAROLE DALLE CARCERI ITALIANE
 (SPERLING & KUPFER)

Il drammatico problema del sovraffollamento e dell’invivibilità dei penitenziari italiani è argomento di scottante attualità e, nonostante più volte il Presidente Napolitano abbia fatto sentire la sua voce solenne ed ammonitrice, Parlamento e Governo si sono disinteressati alla questione, impegnati a tartassare con tasse e balzelli i dipendenti a reddito fisso.
Melania Rizzoli, medico e deputato, nonché moglie dell’editore Angelo Rizzoli, ha scritto un libro che si legge, dalla prima all’ultima pagina, con le lacrime agli occhi: “Detenuti - Incontri e parole dalle carceri italiane”, il cui sottotitolo potrebbe essere il celebre verso dantesco: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”.
La premessa sconvolgente è affidata ai numeri: 206 istituti, che potrebbero accogliere 45000 reclusi, costretti ad ospitarne quasi 70000, mentre ogni giorno le entrate superano le uscite.
La scrittrice ha visitato questi gironi infernali ed ha ascoltato voci famose ed anonime, entrambe accomunate da un identico destino di solitudine, malinconia, annientamento fisico.
Uno dopo l’altro si ascoltano racconti di detenuti, che hanno avuto l’onore della cronaca per i loro delitti da Mambro a Vanna Marchi, dal boss dei boss Provenzano a Cuffaro, da Michele e Sabrina Misseri, Sofri, Tanzi, Lele Mora e Olindo Romano. Tutti colloqui privati che si trasformano in un viaggio interiore, che modifica profondamente chi vive tra quelle tristi mura, dimostrando alla fine come il sistema repressivo italiano tenda a distruggere la personalità ed a far ritenere il suicidio come una liberazione.
Sofri: “In carcere non puoi permetterti i sentimenti, perché diventano delusioni”.
Mambro: “Il carcere è un tritacarne, ti schiaccia e ti schianta”.
La Marchi parlando di Lele Mora: “Per affrontare il carcere ci vogliono le palle e due non bastano”.
Tanzi: “No, non leggo i quotidiani, ma solo il Vangelo, una pagina la mattina e una la sera”.
Emblematica la visita a Provenzano, che non parla con nessuno ed ha vissuto un’interminabile latitanza come un topo in una fogna. “Cosa le manca di più?”. “L’aria, mi rispose deciso guardandomi con occhi senza espressione”.
Il libro termina con un ammonimento ai magistrati quale responsabilità si assumono quando firmano un ordine di carcerazione senza avere ancora la certezza della colpa, in stridente contrasto con l’articolo 27 della nostra costituzione.

giovedì 17 maggio 2012

PeramareNapoli, un vero capolavoro



Una testimonianza sui mali della città




Tra i numerosi libri che sono stati scritti su Napoli negli ultimi tempi il più bello, une vera testimonianza d’amore verso questa sfortunata città, antica e gloriosa capitale decaduta al ruolo di capitale della monnezza e della criminalità, è senza dubbio PeramareNapoli di Renato Nicolini (Edizioni Clean). 
L’autore non ha bisogno di presentazioni. Egli è stato assessore all’Identità del comune di Napoli per tre anni dal 1994 al 1997 nella giunta Bassolino, dopo essere stato per un decennio deputato, ma soprattutto famoso per essere stato l’ideatore della Mitica Estate Romana.
Architetto come professione tra le sue passioni ha il teatro e la scrittura.
Il libro è scorrevole, diviso in 21 capitoli, ricco di illustrazioni e si legge tutto di un fiato, tanto avvincente è il ritmo della narrazione. Esso nasce di getto ed è una rivisitazione critica del suo operato, di ciò che si è fatto e del tanto che ancora deve farsi, restituendo alla cultura il ruolo di volano del progresso e della rinascita. L’autore ribadisce perentoriamente: “L’oro del futuro è costituito da quelle risorse che non inquinano e sono sempre rinnovabili e Napoli è una miniera di energie da radicate tradizioni alla più alta concentrazione di giovani del mondo occidentale”.
Il tesoro di Napoli è quello di essere una città stratificata nel tempo che mescola sapientemente Pulcinella con la pizza, Domenico Vaccaro con Caravaggio, il Sannazzaro col Boccaccio, la sfogliatella al presepe, la Piedigrotta con le moderne installazioni del Madre e del Pan.
E’ proprio a Napoli che nasce, partendo dal Trecento, l’idea stessa di una moderna metropoli, dove convivere con persone di provenienza diversa ed oggi rischia di smarrire l’orgoglio e la dignità della grande città.
La critica all’operato di Bassolino ed all’illusione di un nuovo rinascimento è chiara senza giri di parole. Egli accusa il mitico sindaco di aver sperperato un patrimonio di entusiasmo, quando “A nuttata” sembrava passata e tutti vivevano un sogno di libertà.
Ma le colpe maggiori vengono attribuite allo Spoil System che governa attualmente, impegnato più a distruggere che a ricostruire.
“Sono incazzato, incazzatissimo, ma più che altro triste” e cita tra i tanti la vicenda del Trianon, il teatro posto nel cuore di Forcella chiuso per volontà della regione, con Nino D’Angelo, che ne era divenuto l’anima, licenziato dalla sera alla mattina come un qualsiasi precario, lui che aveva fatto recitare le mogli dei carcerati, aveva creato dal nulla una orchestra multietnica, dato spazio a chi non ha voce.
Mentre manifestazioni culturali come Galassia Gutemberg scompaiono, il cinema riesce a proporre ancora spunti di meditazione ed attraverso una puntuale trasposizione della realtà rimettere in discussione antichi stereotipi.
A parte Gomorra, icona indiscussa della ferocia che tiene in ostaggio gran parte della cittadinanza ansiosa di vivere e di riscattarsi, Nicolini cita L’Amore Buio di Capuano o il Gorbaciov di Incerti, che ci propone una immagine di Napoli refrattaria alla corrente oleografia, tra retrobottega di ristoranti cinesi e maestosi grattacieli del Centro Direzionale, oppure il Noi Credevamo di Martone, una rivisitazione acida e spietata del Risorgimento e dei suoi vistosi buchi neri ignorati dalla storiografia ufficiale.
Ha parole di disprezzo per il dramma di Bagnoli e delle sue acque, che trasudano amianto, auspica un museo per la Canzone Napoletana, un patrimonio inestimabile, che rischia di disperdersi, un recupero del Teatro Margherita, dove per decenni trionfò il Café Chantant, permettendo a Napoli di rivaleggiare con la Parigi della Belle Epoque e non si dimentica di Villa Ebe, la casa dove abitò Lamont Young, il geniale architetto, che oltre ad edificare gioielli come il Grenoble ed il Castelletto Medievale del Parco Margherita, fu il primo al mondo a progettare una linea metropolitana.
E poi ancora restituire dignità al Miglio d’oro ed a Pompei ed Ercolano, dove è nata l’archeologia. Ma bisogna affidarsi agli studiosi e non ai manager, perché non si può ridurre il fascino della cultura unicamente al dio denaro.
Il perno sta nel ripristino del merito e della legalità, senza la quale non può esserci che il dominio dei poteri criminali.
Bisogna sconfiggere il cattivo governo e la camorra da tempo alleati.
Solo così Napoli potrà ritrovare l’antico splendore, altrimenti la stessa mano maligna che spense la rivoluzione del ’99 ed oggi l’ha trasformata in Gomorra cancellerà per sempre i sogni di tutti coloro che hanno continuato ad amare e si battono per Napoli nonostante…

venerdì 6 aprile 2012

Andrej Longo, uno scacchista scrittore


14/7/2011
Maestro di scacchi, pizzaiolo, ma soprattutto autore di successo

Nel panorama degli scrittori campani Andrej Longo occupa una posizione defilata: non ama apparire, non partecipa a dibattiti, non frequenta i colleghi, non si spaccia per intellettuale, nessun giornalista lo interroga sul presente e sul futuro di Napoli.
Un libro all’anno, un editore autorevole, Adelphi ed il successo che si ripete puntuale.
In passato gli editori lo presentavano come pizzaiolo, faceva chic, dimenticando la laurea al Dams e tanti anni di collaborazione con la Rai. 
Per la sua ultima fatica letteraria Andrej ha ideato una furbata. Per Lu campo di girasoli alla lingua tradizionale ha sovrapposto una parlata meridionale, scorrevole ed accattivante, in grado di mescolare lingua e vernacoli, storie ed emozioni e produrre un melting pot di struggente suggestione, che ambisce a divenire un nuovo esperanto.
Una scelta coraggiosa, ma in parte già praticata in Dieci, una raccolta di racconti di qualche anno fa, dove il napoletano dominava con aurea dignità ed animava la narrazione.
La critica più avvertita ha richiamato i celebri esempi del Finnegam Wake di Joyce e l’Horcinus orca di D’Arrigo, ma si tratta naturalmente di esagerazioni senza senso, che solo recensori prezzolati e adulatori possono immaginare. 
Nel nuovo lavoro l’invenzione di una vera e propria lingua esercita un ruolo più incalzante ed avvince il lettore, che si appassiona alla storia dell’amore contrastato dei due poveri giovani, Caterina e Lorenzo, sui quali incombe la protervia di Rancio Fellone, il quale, aiutato da due complici, vuole possedere la bella fanciulla il giorno della festa di San Vito, quando tutta la folla si eccita e si sfrena nei gorghi della tammurriata. 
Molti altri personaggi intrecciano le loro storie nella narrazione, che scorre veloce tra le amenità della fiaba e lo squallore della cronaca nera, intessuto di passioni primordiali e di riti arcaici.
L’antica amicizia e la comune predilezione per il nobile gioco degli scacchi ha permesso un’esclusiva intervista con l’autore durante una memorabile sfida sulle 64 caselle.
Come ti è venuta l’idea della lingua vernacolare?
Durante un sogno ho avuto la folgorazione, mi sono svegliato ed ho cominciato a prendere appunti, mescolando il napoletano al pugliese,il dialetto di mio padre al siciliano che tanto amo.
Come pensi che risponderanno i lettori della Padania a questo coacervo di parlate meridionali?
Non mi sono posto il problema, ho seguito unicamente la mia ispirazione.
La figura di Rancio Fellone con i suoi bravi mi rammenta più che i Promessi Sposi il night che Altafini aprì ad Ischia negli anni Sessanta.
Hai ragione, ero bambino e non potevo entrare in quel locale, nel quale entravano tutti i miei amici più grandi ad abbordare le turiste del Nord.
Nel romanzo mi è parso di percepire che i protagonisti, tutti senza esclusione, non vogliono arrendersi al fato che nel Sud sovraintende a tutti gli avvenimenti.
Bravo hai colto un aspetto fondamentale del libro che nessuno dei recensori aveva fino ad oggi sottolineato.
Pensi di ripetere questo esperimento linguistico anche in futuro?
Non faccio previsioni, ora con questo caldo, finito un ciclo di presentazioni, non vedo l’ora di bagnarmi nelle acque del mare di Ischia. 

Pittura tra Napoli e Malta nel segno del Barocco


28/6/2011

Negli ultimi tempi libri belli di storia dell’arte napoletana se ne vedono sempre meno in commercio, fa eccezione il corposo volume di Salvatore Costanzo sui rapporti intercorsi tra Napoli e Malta in un arco cronologico di circa cento anni (1650-1750), caratterizzato da uno scenario multiforme, di non facile definizione per la diversità di accenti, incroci e sovrapposizioni di correnti artistiche. 
Salvatore Costanzo, architetto e grande appassionato dell’arte figurativa della sua Terra, è autore di numerosi saggi critici e articoli apparsi su quotidiani e riviste. Studioso della pittura napoletana del '500 e '600, ha pubblicato un’importante volume sulla scuola del Vanvitelli e recentemente ha esteso i suoi interessi al recupero critico della produzione di Ludovico de Majo (2009) e alle tematiche paesaggistiche di Salvator Rosa (2010). 
Pubblica da tempo con la Clean, una benemerita casa editrice di nicchia, la quale ha curato in maniera impeccabile la veste di quest’ultimo libro, che si contraddistingue per la qualità delle foto e per l’esaustiva bibliografia, la quale cita doverosamente (e dovrebbe divenire abituale consuetudine per gli studiosi) anche le fonti non cartacee presenti sul web, che da tempo costituiscono il materiale più consultato.

Nella ”piccola isola dalla grande storia” abbondavano le commissioni sia ecclesiastiche che laiche, grazie soprattutto all’Ordine Gerosolimitano che acquistava incessantemente quadri da vari autori, per cui è interessante approfondire le modalità di espansione di alcuni modelli figurativi sacri di celebri maestri italiani e stranieri dell'epoca che, per una certa peculiarità stilistica, sono messi in rapporto ai principali filoni pittorici di La Valletta e a quelli "importati" da diverse aree del Meridione d'Italia.  
La prima sezione tematica del saggio è dedicata all'inquadramento biografico di un cospicuo numero di artisti isolani, molti dei quali considerati a torto ancora minori, influenzati dalla lezione del Preti e dai modi del Solimena. Il discorso sul fluido decorativismo del "cavalier Calabrese", impegnato nei lavori di affrescatura della co-cattedrale di San Giovanni a La Valletta, privilegia -tra l'altro- gli inizi di uno dei suoi più giovani allievi, Raimondo De Dominici, detto il Maltese, padre del più noto pittore e biografo napoletano Bernardo. Di non trascurabile portata la produzione seicentesca degli artefici appartenenti alla cerchia pretiana (Gioacchino Loretta, Pedro Nunez de Villavicencio, Giovan Battista Caloriti, Gian Paolo Chiesa), mentre di buon livello qualitativo si rivelano le esperienze maturate dalle scuole pittoriche "napoletane" di Stefano Erardi e Giuseppe d'Arena, tutti e due giudicati tra i principali antagonisti del Preti. 
Con ampi e opportuni riferimenti, l'indagine critica sottolinea la presenza nel tessuto dei primi decenni del Settecento di altre due personalità di rilievo nel panorama figurativo maltese: Gian Nicola Buhagiar e Francesco Vincenzo Zahra, artisti di elevata genialità interpretativa che, oltre ad attingere a diversi indirizzi pittorici (Preti e Chiesa, in particolare), gravitano prevalentemente nell'orbita solimeniana.

La seconda parte del volume si apre considerando come nucleo problematico significativo la formazione napoletana di Raimondo De Dominici nel grande e prolifico ambiente del Giordano. Il percorso del pittore maltese (oggi arricchito di altri due dipinti custoditi in Chiese di Marcianise), accoglie preziosi apporti critici sull'esperienza del barocco prodotto da moltissimi artisti di "seconda fila" attivi nella capitale del Regno e mira a far emergere nuove proposizioni di pensiero e indagini stilistiche su due scolari dedominiciani: Michele Pagano e Filippo Ceppaluni (entrambi raccoglieranno l'eredità dell'arte di Raimondo e diventeranno discepoli del figlio Bernardo De Dominici). Un discorso a parte riveste il difficile recupero delle fasi stilistiche di Bernardo "pittore di corte" di Aurora Sanseverino, duchessa di Laurenzano. Particolarmente indicativo, in questo senso, è il nuovo gusto rococò a cui l'artista napoletano sembra accostarsi, che traspare anche dal rapporto col paesaggista tedesco Franz Joachim Beich e con l'olandese Paul Ganses, considerati suoi maestri. 
In conclusione un libro stimolante per lo specialista ed interessante per gli appassionati che non può mancare nelle biblioteche sia degli uni che degli altri.

Attualità di Marx, pensatore del XXI secolo


19/6/2011

Il sommo filosofo sopravvive alla fine del comunismo L’ultimo libro di Eric Hobsbawn, uno dei massimi storici viventi, Come cambiare il mondo. 
Perché riscoprire l’eredità del marxismo, dopo il grande successo in Inghilterra è stato prontamente tradotto in italiano e costituisce una delle più eccitanti avventure intellettuali per il lettore, grazie alla libertà di giudizio ed all’originalità delle tesi proposte. 
L’autore riesce a convincerci(e forse convincerebbe anche Berlusconi se decidesse di leggerlo) che il sommo filosofo tedesco non è affatto superato, bensì le sue teorie lo fanno apparire come uno degli scrittori più attuali del XXI secolo. La dilatazione planetaria dei mercati(merci, idee, culture e stili di vita), la concentrazione del potere, non solo economico, in poche mani e l’ instabilità patologica del capitalismo, hanno provocato, soprattutto negli ultimi anni, crisi periodiche, recessioni, disoccupazione di massa e insanabili diseguaglianze sociali. 
Bisogna cambiare il mondo, correggendo gli errori del capitalismo e per fare ciò è necessario ed urgente che di nuovo la politica abbia la supremazia sull’ economia. In passato il new deal americano ed il riformismo social democratico europeo ci sono riusciti, anche se parzialmente, bisogna ripercorrere questa strada con energia, per domare un capitalismo selvaggio che provoca più danni che benefici. La società capitalista ha prodotto una sterminata quantità di beni senza dividerli equamente e la merce ha assunto una posizione predominante, dal sapore incantatore e feticista, relegando l’uomo in posizione subordinata. 
Marx ci indicava una ricetta basata sull’abolizione della proprietà privata, l’ eliminazione del mercato e la concentrazione dei mezzi di produzione nelle mani dello Stato; purtroppo, pur avendo previsto con due secoli di anticipo i disastri del capitalismo, non ci ha fornito un’idea precisa di come far funzionare il socialismo, adeguandolo alla natura individualista e profondamente egoista dell’uomo, il disastro lo hanno poi provocato i suoi discepoli da Lenin a Stalin. 
Il capitalismo al suo apogeo mostra tutte le contraddizioni di un sistema teso alla produzione, che umilia l’uomo e le sue esigenze di giustizia sociale, i crac continui hanno evidenziato quanto soffra il capitalismo di fondamentalismo, una triste malattia dei nostri tempi agitati, bisogna scoprire al più presto una formula giusta senza perdere i benefici del progresso e della produttività e rileggere Marx con occhi nuovi può essere molto utile per tutti. 

giovedì 5 aprile 2012

Il grande disegno secondo Hawking


1/5/2011

Stephen Hawking è il più noto degli scienziati viventi. Inchiodato su una sedia a rotelle da decenni e costretto a comunicare col mondo attraverso un computer azionato dall’unico dito che riesce ancora a muovere, ha occupato per oltre trenta anni la cattedra prestigiosa di matematica che fu di Newton all’università di Cambridge. 
Egli nel suo ultimo libro cerca di dare una risposta agli interrogativi più drammatici che l’uomo si pone dalla notte dei tempi: Perché esistiamo? Chi ha creato il mondo? Quali leggi regolano l’universo?
Domande angoscianti che sono state appannaggio da sempre dei filosofi e che solo negli ultimi tempi sono divenute di competenza degli scienziati che hanno ricevuto il testimone della conoscenza. 
Nel libro l’illustre scienziato ci propone una nuova concezione dell’universo assai diversa da quella tradizionale e che francamente lascia sconcertati non solo i credenti, ma anche i liberi pensatori.
La vita è il prodotto di fluttuazioni quantistiche avvenute nei primi istanti di vita dell’universo e possono esistere molteplici universi apparsi tutti spontaneamente ed ognuno con proprie leggi.
Si tratta di un saggio rivoluzionario che cerca con un linguaggio relativamente accessibile di dimostrarci e con numerose illustrazioni come l’astrofisica sia oramai prossima a comprendere i segreti più reconditi della materia. 
Se accettiamo fino in fondo le teorie dell’autore, e come possiamo non farlo, siamo costretti a rivedere profondamente le nostre credenze più consolidate.
La lettura è difficile ma affascinante, non è certo il romanzo di evasione da leggere sotto l’ombrellone, ma non possiamo esimerci dal confrontarci con una delle più lucide menti che sia mai apparsa nella storia della civiltà.

Corpi sull’uscio identità impossibili


29/4/2011

Tra i libri più interessanti usciti di recente vi è senza dubbio Corpi sull’uscio identità impossibili (Filema editore) scritto da Paolo Valerio ed Eugenio Zito, il primo titolare della cattedra di psicologia clinica presso la facoltà di medicina, il secondo psicologo e psicoterapeuta.
Il volume sviscera il mondo dei femminielli a Napoli attraverso un riepilogo delle indagini precedenti, ma soprattutto servendosi di un corpus di testimonianze dirette raccolte dagli autori e getta nuova luce sul variegato universo omosessuale, ancora mal classificato sia scientificamente che culturalmente, il pianeta costituito dai femminielli napoletani, che occupa da sempre un’isola privilegiata.
A Napoli il femminiello può vivere quasi sempre, soprattutto nei quartieri popolari, in una atmosfera accogliente, segnata dal consenso e dal buonumore. 
Nato in uno squallido basso, privo di aria e di luce, in una famiglia in cui la promiscuità è la regola, e dove i figli, tanti, dormono tutti assieme in un unico letto, il femminiello trova il pabulum ideale per sviluppare le sue particolari tendenze; è sempre l’ultimo dei figli maschi, cocco di mamma, al cui modello di dolcezza femminile tende spontaneamente, decidendo, ad un certo momento, senza essere incalzato da cause organiche o costituzionali, di appartenere: di essere donna!
Nei quartieri popolari è raro che questa decisione venga giudicata una disgrazia, la famiglia non pensa nemmeno lontanamente di allontanarlo, perché sa bene che anche la società del vicolo lo accetterà senza problemi, anzi poco alla volta lo utilizzerà bonariamente come un factotum buono per mille piccoli servizi, dall’aiuto nel fare la spesa al rammendo degli abiti, mentre nessuna mamma avrà timore di affidargli i suoi bambini, anche piccoli, se dovrà allontanarsi per qualche ora dal basso per un’improvvisa incombenza.
Il femminiello gode quindi di una bonaria tolleranza in tutti i quartieri poveri della città, dove collabora attivamente all’arcaica economia del vicolo e dove, per la cultura popolare, non è mai un deviato, ma al massimo uno stravagante, che ama travestirsi ed imbellettarsi come una donna, assumere movenze e tonalità vocali caricaturali, amplificate da una gestualità quanto mai espressiva.
Il popolino lo accetta volentieri e lo utilizza frequentemente come valvola di sfogo di malumori e aspettative insoddisfatte, scaricandogli addosso, senza malizia, una valanga di improperi in un cordiale quanto irripetibile turpiloquio, condito di frasi onomatopeiche ad effetto, comunque senza mai isterismi o inutili intenzioni moralistiche.
Il libro indaga sulle origine remote di questi personaggi dal sesso mascherato, i quali erano già presenti presso di noi da migliaia di anni e dobbiamo tornare molto indietro nel tempo, se vogliamo comprendere fenomeni che ancor oggi resistono nella nostra cultura, pur con le dovute trasformazioni.
Un esempio paradigmatico di quanto profonde siano le radici di antiche pratiche appartenenti al mondo dei travestiti, esistenti ancora oggi, anche se difficilmente visibili, avendo nel tempo acquisito il carattere della massima riservatezza, è costituito dalla cosiddetta figliata d’’e femminielli. 
Essa non è altro che un rituale derivante dall’antico rito della fecondità, praticato per secoli nella nostra città. 
La figliata si svolge segretamente alle pendici del Vesuvio, a Torre del Greco, ed è stata descritta accuratamente con accenti vivaci da Malaparte nel suo libro” La pelle” e dalla regista Cavani nell’omonimo film.
Sdraiato sul lettino ed assistito dalle parenti, il femminiello vive le ore del travaglio ed il momento del parto. 
Alcuni soggetti si immedesimano a tal punto nel rituale, da presentare, per effetto di una profonda quanto inconscia memoria ancestrale, tutti i segni della sofferenza con un’evidenza sconcertante, dall’accelerazione del battito cardiaco alla sudorazione, dal pallore anemico alle contrazioni dei muscoli addominali. 
Durante le doglie le parenti accompagnano il travaglio con ritmiche litanie, la cui origine si perde nella notte dei tempi, dal trivolo vattuto, letteralmente dolore picchiato, al classico taluorno, un triste accompagnamento vocale delle veglie mortuarie, caratterizzato da una lamentazione ritmica, scandita da colpi portati alle guance dalle due mani contemporaneamente, mentre la testa oscilla ampiamente avanti e indietro. 
Nell’acme della figliata, il femminiello simbolicamente espelle dalle cosce un bambolotto di pezza (di legno a forma di fallo, secondo Malaparte, che asserisce di aver assistito ad una figliata) accolto con grande gioia dalle comari, che accolgono trionfante il neofita nella loro ambigua comunità, offrendo in abbondanza agli astanti vermouth e babà.
A questi riti antichi e dimenticati si ricollega la credenza che il femminiello porti fortuna, sia portatore di una carica di magico, stando al limite del diverso, in condizione simbolica di ermafroditismo. 
Questo è il motivo per cui egli è delegato a distribuire parte della sua fortuna agli altri nelle riffe, dove si mettono in palio dei regali in natura, legati all’estrazione dei numeri del lotto. In genere di lunedì, giorno dedicato tradizionalmente al culto dei morti, avvengono, in vari punti della città, queste originali tombolate, accompagnate ad ogni numero estratto dalla spiegazione dei significati reconditi espressi nella “Smorfia”. 
La più famosa estrazione avviene ancora oggi periodicamente nella chiesa di Santa Maria alla Sanità, conosciuta dal popolino come Monacone, all’uscita delle sottostanti catacombe di San Gaudioso. 
Il rituale è stato magistralmente descritto da Roberto De Simone nella “ Gatta cenerentola”.
Gli autori dopo aver esaminato il passato, gettano uno sguardo ai nostri giorni, giungendo ad amare conclusioni.
La diffusione capillare della droga, anche se giunta in ritardo nella nostra città, perché ad essa si opponevano famosi camorristi, come lo stesso Cutolo, ha travolto equilibri secolari ed anche la comunità dei femminielli ne ha risentito vistosamente. 
La peste del XXI secolo, l’AIDS, ha cominciato a dilagare, riducendo a larve e fantasmi vaganti tanti omosessuali, costretti a diventare miseramente posteggiatori abusivi o mendicanti. 
I vicoli dei quartieri spagnoli, dopo il sisma del 1980, sono stati progressivamente occupati da extracomunitari, dalla cultura lontanissima dalla nostra, per cui è scomparso quell’ambiente familiare del vicolo, con la sua economia ed i suoi rapporti interpersonali molto stretti, quasi maniacali. 
La vita quotidiana nelle stradine sopra via Toledo era scandita da un senso di socializzazione e di appartenenza fortissimo, ancor più stretto per chi viveva nella stessa strada. 
Il senso della vita comunitaria tra il popolino si è affievolito lentamente dal dopoguerra in poi, per deteriorarsi maggiormente con l’arrivo di cingalesi e capoverdiani. 
Un dato eminentemente urbano, non derivato dalla civiltà contadina, che ha caratterizzato per secoli i nostri vicoli e che oggi è al capolinea. 
Scomparso il proprio territorio protetto i femminielli si trovano oggi alla deriva senza bussola e senza consenso sociale. 
Devono combattere con i viados brasiliani, importati massicciamente dalla malavita, portatori di una sottocultura diversa, legata unicamente al moloch dei nostri giorni infelici: il denaro.
Cambieranno, scompariranno, come sono scomparse le nostre puttane, sostituite egregiamente da albanesi e nigeriane? 
Sembra sia in atto una vera e propria mutazione cromosomica. 
In ogni caso i femminielli di domani saranno diversi da quella specie, che ha allignato per 25 secoli all’ombra del Vesuvio, costituendo una caratteristica, nel bene e nel male, della nostra amata città.

mercoledì 4 aprile 2012

Il labirinto femminile un best seller mediatico


12/2/2011

Quando ho saputo che il mio amico Alfonso Luigi Marra si era dato alla narrativa ed aveva scritto un romanzo basato su un epistolario d’amore ho subito pensato: sta invecchiando, perché dopo aver dato alle stampe robusti saggi pregni di meditazione e di dottrina, si era abbandonato ad una prosa melliflua, riportando una serie di sms tra Luisa, giovane avvocatessa e Paolo, il titolare del grande studio legale in cui lavora. 
Naturalmente ho immaginato un racconto autobiografico ed ho cominciato alacremente la lettura. Mi sono subito ricreduto, soprattutto andando alle 80 pagine di analisi finale, che permettono di reinterpretare le 278 precedenti attraverso un’analisi serrata sulla coppia e sulla società contemporanea, sulla dinamica dei sentimenti e sulla caducità della vita.
L’autore ha accompagnato alla grande l’uscita del suo libro con una campagna pubblicitaria anticonvenzionale, utilizzando come presentatori negli spot televisivi, che ad ogni ora del giorno tempestano gli spettatori, personaggi fuori dell’ordinario e soprattutto agli antipodi della cultura. Prima Manuela Arcuri, dalle forme accattivanti, poi il ghigno viscido di Lele Mora e nelle prossime settimane addirittura la supermaggiorata Ruby, si proprio lei la prediletta di papi.
Il libro soffre di una prosa contorta e di non facile lettura, ma deve essere l’occasione per conoscere meglio l’autore: un geniaccio folle quanto lucido, leggendo altri suoi libri di ben diverso spessore come la Storia di Giovanni e Margherita o la Civiltà degli onesti, un lucido atto di accusa della nostra traballante giustizia, scritta con dovizia di particolari, senza dimenticare che Marra è un grande avvocato con uno studio con decine di procuratori, pedissequi esecutori delle sue idee, che gli hanno fruttato un fiume di denaro.
Sua l’idea di chiedere ai tribunali europei un giusto rimborso per le cause che durano un’eternità, da anni in lotta contro il potere della banche, aduse a praticare spudoratamente anatocismo e signoraggio, un altro dei pallini di Marra, che ha lungo ha studiato il poco noto fenomeno speculativo.

Suor Giulia, una torbida storia di sesso e religione


28/12/2010

Napoli è stata definita sul finir del Seicento la nuova Ossiringo, l’antica città egizia celebre per la presenza di ben diecimila monaci e ventimila monache ed infatti all’epoca la città contava ben centoquattro conventi maschili e all’incirca una quarantina di monasteri femminili, mentre le chiese enumerate dal Celano nel 1692 erano cinquecentoquattro, al punto che poteva ben dirsi ogni contrada, ogni angolo o è chiesa o è di chiesa.
Le mura dei monasteri vengono costruite sempre molto alte, perché ciò che succede all’interno a volte è preferibile che non esca fuori, come nel caso delle monache di S. Arcangelo a Baiano, che si racconta si abbandonassero spesso e volentieri a pratiche orgiastiche. E di queste poco commendevoli abitudini si vociferava da tempo in città, se una loro badessa compariva degnamente nella novella boccaccesca di Masetto da Lamporecchio. 
Il padre spirituale del convento, S. Andrea Avellino, fu costretto ad intervenire con decisione, trasferendo le religiose, tutte di nobile famiglia, in un altro monastero quello di San Gregorio Armeno e consigliò al cardinale Paolo Burali d’Arezzo la riduzione del luogo sacro allo stato laicale, perché si accorse che agivano forze misteriose, preesistenti alla costruzione della struttura, dove in passato sorgeva un tempio pagano, la cui localizzazione veniva delegata a sacerdoti rabdomanti, in grado di percepire energie sconosciute, la cui presenza facilitava lo svolgersi dei riti misterici.
La vicenda delle monache di facili costumi è stata immortalata anche dal pennello di Tommaso de Vivo, il quale, travisando la punizione per le suore, che fu un semplice trasferimento, immaginò una condanna esemplare ed in un grande quadro, conservato nella pinacoteca del principe di Fondi, immortalò un eccidio con monache, avvelenate, trafitte a fil di spada o precipitate giù dalle finestre.
Un’altra vicenda scandalosa ci viene rivelata da un processo del 1599 in cui viene condannato un parroco di Pollena Trocchia per aver abusato di alcune penitenti vergini, adescate attraverso il sacramento della confessione, una abitudine che pare fosse molto diffusa a quei tempi.
Singolare invece la pratica di un religioso teatino, il quale aveva ideato un particolare esorcismo, che diveniva efficace solo se applicato sui genitali femminili, una preferenza anatomica che diverrà un vero e proprio culto nella Confraternità della carità carnale ideata alcuni anni dopo da suor Giulia.

Una vicenda ancora più inverosimile delle monache di S. Arcangelo a Baiano e poco conosciuta anche dagli storici riguarda infatti una suora ex francescana, Giulia de Marco, protagonista nel 1611 di una torbida storia di sesso e religione, di recente scoperta compulsando antichi documenti processuali. 
Infatti della poco edificante storia si occupò la stessa Inquisizione in uno dei rari interventi negli avvenimenti cittadini.
Della donna non sappiamo molto: ceduta ad una coppia senza figli rimarrà presto sola per la morte dei genitori adottivi, venne affidata ad una parente che la condusse a Napoli nella sua casa, dove fu deflorata da un servo e dalla tresca nacque un bimbo che finì nella ruota dell’Annunziata. 
La donna comincia ad avere visioni mistiche e subito viene ritenuta in odore di santità non solo presso il popolino, ma anche presso la migliore nobiltà napoletana. 
Ella fondò una congregazione con un popolano, Aniello Arcieri ed un avvocato, tale Giuseppe De Vicaris. 
Si venne a costituire una sorta di setta, detta della carità carnale, la quale preconizzava la possibilità di accedere alle porte del paradiso, rendendo omaggio alle parti intime della suora, attraverso baci ed altre forme materiali di venerazione. 
Di questa consorteria facevano parte personaggi insospettabili, tra cui lo stesso viceré conte di Lemos con la moglie, decine di membri della nobiltà sia spagnola che napoletana e numerosi cardinali ed arcivescovi. 
L’atto sessuale non solo non veniva considerato un peccato, bensì un’opera meritoria nei riguardi di Dio. Cadevano così gli obblighi di castità e le preghiere venivano sostituite da accessi più o meno penetrativi alle parti intime della santona.
La Madre riceveva i fedeli nelle stanze di Palazzo Suarez, dove esistevano due differenti percorsi iniziatici: uno dedicato agli uomini più attempati o sposati che potevano solamente pregare, mentre i più giovani e prestanti avevano accesso alla contemplazione più o meno platonica delle parti intime di suor Giulia. 
Lo straordinario successo di pubblico insospettisce l’inquisitore locale, messo in allarme da suor Orsola Benincasa, gelosa dell’aura di santità della collega rivale. 
Si mette in moto l’ordine dei Teatini, nonostante la protezione che godeva la donna e Giulia viene accusata di avere legami con il diavolo, un capo di imputazione consueto sin dai tempi della caccia alle streghe. 
I giudici del Sant’Ufficio per evitare tumulti decidono di trasferire di notte il terzetto a Roma, dove il 12 luglio 1615, essi faranno pubblica abiura, salvandosi così dal rogo e venendo condannati a finire i loro giorni nelle tetre prigioni di Castel Sant’Angelo.
La storia di suor Giulia e della sua confraternita, restituita alla sua oggettività storica, dal reperimento dei documenti, anche se solo dell’accusa, rimane uno dei capitoli più nebulosi ed accattivanti della Napoli seicentesca e diventa difficile capirne la matrice, se si trattasse cioè di semplici pratiche sataniche, di un revival di riti sessuali a sfondo misterico, da sempre diffusi in area partenopea o di una struttura di potere che adoperava un paravento confessionale per cementare la sua forza, senza trascurare le tentazioni e le gioie del sesso.