giovedì 16 maggio 2013

Un attore dal multiforme ingegno

01-Toni Servillo


Passare dal teatro al cinema con nonchalance rappresenta la cifra stilistica del più grande attore napoletano attualmente in circolazione:Toni Servillo, 54 anni, nativo di Afragola, vincitore di tre David di Donatello e tre Nastri d’Argento.
Memorabili le sue interpretazioni cinematografiche, a partire da “Gomorra” di Matteo Garrone, che riesce a trasferire in immagini il cupo e fosco capolavoro di Saviano e nel quale Servillo impersona con cinismo un mercante di morte, che trasferisce i veleni delle industrie del nord, inquinando irreparabilmente terreni da sempre ubertosi, incluse le falde acquifere, rubando letteralmente il futuro alle nuove generazioni.
Dopo “Le conseguenze dell’amore” e “La ragazza del lago”, nel 2008 con “Il Divo”, in cui con volto da clown impassibile ci restituisce un Andreotti espressione paradigmatica del potere, vince a Cannes, dove il film riscuote un grande successo di pubblico e critica.
02-Toni Servillo e Paolo Sorrentino

03-Paolo Sorrentino e Toni Servillo
Ed ora vi è un’attesa spasmodica per come  giurati e botteghino risponderanno alla sua ultima fatica, “La grande bellezza”, sempre in coppia con Sorrentino,  nella quale interpreta uno scrittore disilluso che voleva conquistare la Capitale, ma viene conquistato dalla Città Eterna, in preda alla corruzione e con una morale da basso impero, specchio di una nazione infetta e moribonda.
E’ il quarto film girato con Sorrentino, che nel raccontare la mostruosa bellezza di Roma, vuole anche essere per entrambi una sorta di autobiografia intrisa da quella malinconica ironia con la quale i napoletani attraversano la vita.
Toni è Jep Gambardella, un giornalista mondano, arrivato nella capitale da giovane, sull’onda di un primo romanzo di successo alla ricerca della grande bellezza, ma rimasto prigioniero dello scintillante nulla mondano. Arrivatoa 60 anni, senza aver trovato quell’agognata bellezza, vorrebbe scrivere un romanzo sul nulla ma si accorge di non esserne capace.
L’altro protagonista del film è Roma, percorsa nei suoi gironi d’inferno contemporaneo.
La narrazione parte dalla descrizione di una grottesca  ed assordante festa romana, una spietata parodia della  nostra società dello spettacolo, vivisezionata con una curiosità antropologica, un mondo precipitato in un vorticedi atonia morale, frequentato da giornalisti, artisti e politici a braccetto con un drappello di prelati presenzialisti, perdutamente attratti dalla mondanità: un universo dove tutti vogliono apparire e nessuno ascolta nessuno.
Ne esce il quadro di una città unica: da un lato il caos della metropoli, dall’altro  un tempio di rovine archeologiche e morali, la Roma papalina, città di Dio,  e la Roma infernale morbosamente pagana, un po’quaresimale e un po’ carnevalesca, un luogo ove Yin e Yang sono riusciti ad alternarsi, in forme sempre più degenerate.
Sullo sfondo troneggia un paese allo sbando, in preda ad una grave crisi più morale che economica, che cerca disperatamente di ancorarsi ad un passato glorioso, più immaginato che reale.
Nel cast anche i personaggi minori sono straordinari, da Roberto Herlitzka a Massimo Popolizio, da Sabrina Ferilli ad uno straordinario Carlo Verdone, liberatosi dal consueto cliché e restituito alla dimensione di grande attore drammatico.

04-Il Divo

05-La grande bellezza

06-Servillo e Verdone nel film La grande bellezza

Prima di passare alla dimensione teatrale di Toni Servillo, dobbiamo ricordarlo come protagonista della “Trilogia della villeggiatura” (di recente riproposta in un elegante cofanetto), con la quale è stato in tounée per quattro anni in giro per il mondo, da New York a Mosca, da Istanbul a Montreal, passando per il teatro Mercadante di Napoli dove, nel 2007,fu recitata dagli attori senza i costumi di scena per il solito sciopero che paralizzò l’allestimento.
Sono tre commedie in unache irridono all’ambizione dei “piccioli” che vogliono apparire altolocati,mettendo in guardia, allo stesso tempo, dai pericoli della frenesia amorosa.
Attualmente Toni, con il fratello Peppe, sta mettendo in scena una commedia di Eduardo, “Le voci di dentro”, nella quale protagonisti sono proprio due fratelli. Scritta nel 1948 dal grande commediografo, chiude un ciclo dopo “Napoli milionaria”, “Filumena Marturano” e “La grande magia”, affrontando, nello stesso tempo, il tema della babele dei linguaggi e la difficoltà, nella grande confusione che avvolge la vita, di distinguere la realtà dal sogno.
Al centro della vicenda è Antonio Saporito che, in sogno, molto chiaramente, assiste all’omicidio del suo vicino di casa. Nel sogno il protagonista identifica anche le prove che dimostrano chi sono i colpevoli. Egli denuncia gli assassini, che vengono arrestati, ma nell’armadio da lui indicato non vi è traccia dei famigerati documenti. Capisce allora di aver sognato, ma gli accusati, i Cimmaruta, non  reagiscono negando, bensì incolpandosi vicendevolmente. Mentre si svolge l’intreccio, il fratello di Antonio, zio Nicola, si chiude in un silenzio di protesta, esprimendosi  solo attraverso lo scoppio di rudimentali mortaretti.
Sembra di vedere in azione Estragone e Vladimiro, di beckettiana memoria, in un mondo in dissesto, dietro cui si nascondono le domande ultime dell’umanità.

07- Buccirosso e Servillo nel film La grande bellezza

08-La grande bellezza

09-Trilogia della villeggiatura

Toni e Peppe avevano già lavorato insieme  in “Sconcerto”, una performance dove parole e musica si confondevano, esaltando le rispettive competenze: recitative di Toni, sonore di Peppe, storico frontman degli Avion Travel, un’esperienza in comune che ha fatto rivivere ai due fratelli le esperienze giovanili trascorse all’oratorio dei Salesiani di Caserta e l’insegnamento del padre, che parlava sempre loro di Totò, Viviani, De Filippo e li invitava ad osservare le persone comuni, che si agitavano in quel meraviglioso palcoscenico a cielo aperto che è Napoli.

10-Peppe e Toni Servillo,Le Voci di Dentro

11-Le voci di dentro

12-Le voci di dentro

13-Avion Travel


sabato 11 maggio 2013

Un grande progetto per rilanciare la Campania



L’ultima speranza per Napoli e la Campania di invertire il senso di marcia che ci sta conducendo verso il baratro e proiettarsi verso il futuro è legata ai 19 progetti finanziati con 5 miliardi, il cui scopo è far decollare ambiente, infrastrutture, turismo e banda larga per internet.
Le risorse, in passato diluite in mille rivoli, saranno concentrate unicamente su grandi assi strategici.
Come giustamente è stato definito dal governatore Stefano Caldoro, si tratta di un “Piano Marshall” per la nostra regione.
Le opere più qualificanti sono il completamento della linea 6, che unirà in pochi minuti la Mostra d’Oltremare con Piazza Municipio; la realizzazione della tratta del metrò, che collegherà Piscinola e Secondigliano con Capodichino, creando un anello ferroviario completo con la linea 2, che quanto prima raggiungerà Piazza Garibaldi e, con altre fermate, il Centro Direzionale, il Tribunale, Poggioreale e l’Aeroporto di Capodichino; la riqualificazione ed il disinquinamento del fiume Sarno, cui è collegato il risanamento ambientale dei laghi dei Campi Flegrei e dei Regi Lagni, con l’obiettivo di far ottenere la bandiera blu al litorale domizio, ed infine la costruzione del Polo Fieristico Regionale con strutture congressuali a livello internazionale, che avrà come fiore all’occhiello la Mostra d’Oltremare, dove dovrebbe svolgersi il famigerato Forum delle Culture, del quale, fino ad ora, molto si è parlato, ma non se ne è ancora stabilita la data.
In ambito portuale, lo scalo marittimo napoletano, attraverso nuove infrastrutture al servizio delle imprese e con fondali adeguati all’attracco delle supernavi da crociera e mercantili, incrementerà il traffico merci e passeggeri, mentre il porto di Salerno punterà sull’approdo delle meganavi da crociera e sul movimento dei containers che trasportano principalmente automobili.
Con internet superveloce, grazie alla diffusione della banda larga in tutti i comuni della regione, si colmerà il gap digitale che permetterà ai cittadini un più semplice accesso ai servizi ed alle imprese di svilupparsi in maniera moderna.
Per la zona di Bagnoli è previsto un grande parco urbano che preservi il ricordo dell’acciaio attraverso la conservazione di esempi di archeologia industriale.
Ma il progetto più affascinante è quello che si propone di far tornare a pulsare vigorosamente il cuore antico di Napoli: dalle porte della città storica ai decumani, il centro diventerà un museo a cielo aperto che attirerà turisti e migliorerà la vivibilità dei residenti, in linea con le direttive dell’Unesco, che da tempo ha posto sotto la sua tutela il centro antico più vissuto e frequentato del mondo.
Utopia o realtà?
Molto dipenderà dall’impegno di tutti i cittadini che saranno arbitri del proprio destino: una gloriosa rinascita o una decadenza inarrestabile.

Il Teatro Margherita e il Cafè-Chantant

01-manifesto del Salone Margherita

Possiamo cominciare questo capitolo con la fine della passeggiata per Via Toledo, magistralmente descritta da uno scrittore straniero innamorato di Napoli, la quale costituiva l’antipasto prima del divertimento, che aveva il suo tempio nella Galleria dove si trovavano i più celebri Caffè-Chantant.
Alla fine del percorso possiamo immaginare che stia scendendo la sera, la luce dei lampioni a gas, le insegne dei negozi: si illumina la scena. E possiamo “vedere” la duchessa Caffarelli che passeggia con due gentiluomini, il conte Perrone che esce dalla pasticceria Pintauro, alcune donne che conversano allegramente concedendosi prolungate risate: sono le demi-mondaines, giovani donne che si concedono solo agli uomini facoltosi. Con le loro toilettes, ma più ancora con la loro bellezza, gareggiano con dame aristocratiche. Dai negozi si entra e si esce sorridenti, coppie di innamorati passeggiano scambiandosi sguardi languidi, schiocchi di frusta sollecitano i cavalli. E’ l’ora della vita, è l’ora del cicaleccio, è l’ora dell’amore, è l’ora in cui Toledo offre il gran finale del suo meraviglioso spettacolo. (Alexandre Dumas)
Sul finire del XIX secolo, quando Parigi divenne il simbolo del divertimento e della vita spensierata, i cafè-chantant valicarono le Alpi per essere importati anche in Italia. La novità esplose a Napoli, dove l’epoca d’oro del caffè-concerto coincise con quella della canzone napoletana. Nel 1890per merito dei fratelli Marino, che capirono l’importanza di un’attività commerciale redditizia da unire al fascino della rappresentazione dal vivo, venne infatti inaugurato l’elegante SaloneMargherita, incastonato nella Galleria Umberto I. 
L’idea fu vincente e ricalcò totalmente il modello francese, persino nella lingua utilizzata: non solo i cartelloni erano scritti in francese, ma anche i contratti degli artisti e il menu. I camerieri in livrea parlavano sempre in francese, così come gli spettatori: gli artisti, poi, fintamente d’oltralpe, ricalcavano i nomi d’arte in onore ai divi e alle vedettes parigine. E’chiaro come la clientela che affollasse il Salone Margherita non fosse gente del popolino: in ogni caso, per i più disparati gusti, sorsero altri cafè-concert come l’elegante Gambrinus, l’Eden, il Rossini, l’Alambra, l’Eldorado, il Partenope, la Sala Napoli ed altri ancora che ricalcavano spesso, anche nel nome, i cafè-chantant parigini. Anche altri bar di Napoli, che in passato non presentavano spettacoli, si adattarono al gusto del momento presentando numeri di varietà misti a canzoni.
Solitamente gli spettacoli proposti erano presentati in successione, con un intervallo tra primo e secondo tempo del susseguirsi di rappresentazioni. Solo verso la fine del primo tempo qualche personaggio noto appariva in scena ma il clou veniva raggiunto al termine, quando il divo eseguiva il suo numero. Importanti e famosi artisti che iniziarono la loro carriera proprio nei caffè-concerto furono Anna Fougez, Lina Cavalieri, Lydia Johnson, Leopoldo Fregoli, Ettore Petrolini, Raffaele Viviani.
Il cafè-chantant divenne in Italia non solo un luogo ed un genere teatrale, ma anche qui, come in Francia, il simbolo della bella vita e della spensieratezza, nel pieno della coincidenza con la Belle èpoque.
Al successo della canzone napoletana si accompagna la nascita del caffè-chantant con l’inaugurazione del Salone Margherita, una settimana dopo l’apertura della Galleria Umberto I, che in breve diverrà il cuore pulsante della cultura e della mondanità cittadina. Il nuovo locale occuperà gli spazi sotterranei ed ottenne in breve lasso di tempo un successo internazionale, grazie al coraggio imprenditoriale dei fratelli Marino, che sul loro palcoscenico fecero sfilare le più celebri vedettes internazionali, come la Bella Otero o Cleo de Mérode, alle quali si affiancarono non meno brave ed affascinanti prime donne indigene, che, pur sfoggiando modelli e pseudonimi francesi, in onore del paese dove era nato quel tipo di spettacolo, erano originarie del Vasto o del Pallonetto.

02-Anna Fougez

03-Lina Cavalieri

04-Bella Otero

05-Cléo de Mérode


Assursero a grande notorietà anche molti comici come Gill, Pasquariello e Maldacea o magnifiche cantanti, tra le quali spiccava il nome di Elvira Donnarumma, la prediletta di Libero Bovio.
Sciantosa deriva dal francese chanteuse che vuol dire cantante, ma anche primadonna, attrazione, fantasia: quella che oggi si definirebbe una star.
Sull’esempio del cafè-chantant di Parigi, negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, a Napoli furoreggiò il caffè-concerto, con protagonista, appunto, le sciantose. Per essere il più possibile simili alle colleghe d’oltralpe, le indigene adottavano nomi d’arte francesizzanti e gli autori di canzoni ironizzavano volentieri su questa moda. Nacquero così  “A frangesa” di Mario Costa nel 1894, “Lily Kangy” del 1905 (la macchietta di successo di Nicola Maldacea) e infine la famosa “Ninì Tirabusciò”, un nome ed un cognome certo più eleganti di Nina Cavatappi. Questa leggendaria figura fu creata nel 1911 da Califano e Gambardella e negli anni Sessanta il ritornello, che fu il cavallo di battaglia di Gennaro Pasquariello, venne rilanciato in televisione e al cinema da Monica Vitti in veste di sciantosa. In epoca più vicina a noi le gustose  tiritere di Ninì Tirabusciò sono state rivisitate da Mirna Doris, autentica vedette dell’avanspettacolo, dalla dosata ironia  e dal gustoso piglio popolaresco.
Il successo del cinema fu tale che anche il mitico Salone Margherita fu costretto ad inserire, all’interno della programmazione serale, alcuni minuti di proiezione di un film. Una consuetudine che si ripeterà dopo circa 50 anni con l’avvento della televisione: infatti, a dimostrazione che ogni nuovo mezzo espressivo cerca di scalzare il precedente, il giovedì  sera tutti i cinematografi interrompevano la pellicola in corso per permettere al pubblico di seguire la puntata di “Lascia o raddoppia” con un allora giovanissimo, ma già irresistibile, Mike Bongiorno.
Poco tempo dopo l’inaugurazione della Galleria Umberto I, al suo interno fu aperto il Caffè Calzona. Ben presto i napoletani impararono a conoscerlo per le serate di gala e i luculliani banchetti ufficiali che vi si tenevano.
Fu qui che, al ritorno da Parigi, fu festeggiata Matilde Serao per il successo raccolto in terra francese e fu al Calzona che, per la prima volta sul palcoscenico di un Cafè-chantant napoletano, ancor prima che al Salone Margherita, si esibirono le girls. Era la mezzanotte del 31dicembre 1899, quando 12 bellissime ragazze, con il loro balletto, un po’ osè per quei tempi, salutarono l’Ottocento come il secolo d’oro appena concluso e diedero il benvenuto al neonato Novecento.
Ma gli spettacoli di varietà nel Caffè della Galleria non costituivano un avvenimento eccezionale: erano in programma ogni sera. Il piccolo palcoscenico, posto proprio al centro e rivolto verso Via Santa Brigida, fu calcato da personaggi dello spettacolo rimasti famosi, in particolare dalla coppia Scarano-Moretti, cioè il padre e la madre di Tecla Scarano. Gli spettacoli del Calzona avevano tale successo di pubblico che anche i giornali dell’epoca, spesso, ne pubblicavano le recensioni. Di solito, i critici dei quotidiani seguivano solo le prime dei lavori in scena nei numerosissimi teatri napoletani.
Anche il Caffè della Galleria, per i prezzi particolarmente bassi che praticava e per gli spettacoli gratuiti e di buon livello, era divenuto un punto d’incontro tra le classi ricche e quelle meno abbienti. Con la spesa di soli tre soldini si prendeva il caffè seduto al tavolino e si poteva trascorrere l’intera serata a godersi lo spettacolo.
C’era chi, più fortunato, poteva assistere dalle finestre del suo ufficio al primo piano. Era il caso di Matilde Serao che, dalla redazione del Il Giorno, tra uno scritto e l’altro, volgeva volentieri lo sguardo verso il piccolo palcoscenico del Calzona.

06-Armando Gill
07-Gennaro Pasquariello
08-Nicola-Maldacea
Il Caffè, con la sua attività di spettacoli e con il suo pubblico eterogeneo, fornì lo spunto ad una macchietta, inventata dal cronista mondano del Mattino Ugo Ricci. La interpretò l’attore Nicola Maldacea nel vicinissimo Salone Margherita. Nel dialogo si magnificavano le caratteristiche del locale: <In fatto di cafè, presentemente, non v’è di meglio d’ ‘o CafèCalzona…/ Questa è la mia modesta opinione: sempre secondo il mio modo  ‘e vedè>.
In realtà qualcosa di meglio doveva esserci  se è vero che pian piano il Calzona perse la parte più consistente della sua clientela in favore di altri locali, in particolare, a beneficio dei  solitiGambrinus e Salone Margherita.
In questi anni, dopo Ninì Tirabusciò, nata dalla penna prolifica di Aniello Califano, Ferdinando Russo firma il primo fascicolo della Piedigrotta e, grazie alla casa discografica Polyphon, annunzia l’ambizioso progetto di esportare la canzone napoletana in tutto il mondo.
Giungeranno così per i siti più lontani la poetica del nostro animo sognante, l’idea di un mare divino, di un sole ammaliante, della nostre armonie gentili ed accattivanti.
Il fenomeno dei cafè-chantant napoletani fu tale che in breve tempo cominciò ad espandersi nelle altre grandi città italiane. La prima città ad introdurli a sua volta fu Roma. Il perché di tale diffusione non deve stupire: così come a Napoli, anche a Roma, a Catania, a Milano, a Torino ed in molte altre città letterate d’Italia si riunivano spesso, nei bar e nelle trattorie, cantanti e poeti che, nel corso di riunioni semiprivate, si dedicavano al canto ed alla declamazione di poesie. Questa forma artigianale di spettacolo fu il fertile terreno su cui si basò il successo dei caffè-concerto, che negli ultimi anni del 1800 aprirono anche nella Capitale.
Sempre i fratelli Marino, già proprietari del Salone Margherita di Napoli, inaugurarono nella Capitale due nuovi locali: un altro Salone Margherita e, successivamente, il Teatro Sala Umberto. A questi seguirono numerosi altri cafè-chantant dai nomi altisonanti ed esotici (non proprio tutti: il primo caffè-concerto della città, aperto in Via Nazionale, portava il poco allegro nome di “Cassa da morto”).
Vorremmo concludere delineando la figura di Ersilia Sampieri, al secolo Ersilia Amorosi, la prima diva del cafè-chantant.


09-Elvira Donnarumma

10-Libero Bovio

11-Ninì Tirabusciò, la donna che inventò la mossa - attrice protagonista Monica Vitti
Torinese di nascita e napoletana di adozione, usò la sua fama e la sua ricchezza per aiutare i bisognosi. Era orfana dei genitori, che le lasciarono un solo capitale: una prorompente bellezza ed una bella voce. Dopo aver lavorato in una compagnia di bambini, la Lillipuziana, in breve si trovò ad esibire nei locali del lungomare di Marsiglia. A Napoli si trasferì a 17 anni e, con il nome di Piccola Andalusa, si esibiva alla Birreria dell’Incoronata, cantando in napoletano, francese e spagnolo. Divideva il palco con giovani di grande talento come Elvira Donnarumma ed il macchiettista Davide Tatangelo. Alla fine girava col piattino per le offerte, facendo intravedere il seno. Passò poi al Caffè Scotto-Jonno e da lì spiccò il volo per esibirsi nei locali italiani più rinomati con puntate anche all’estero.
Nel 1901, quando i fratelli Marino la scritturarono al Salone Margherita, era già una diva.Vi rimase sei anni, alternando esibizioni a Parigi e Londra, dove venne definita la “Sarah Bernhard del caffè-concerto”, mentre Edoardo Scarfoglio preferiva l’epiteto di “la Fenice della Fenice”.
Gli impresari le misero a disposizione un secondo camerino, dove procurava lavoro, trovava  un letto in ospedale, facilitava permessi ed esoneri ai militari: tutto soloper umanità.
Su di lei circolavano svariate leggende: amante di un rampollo di casa Savoia o membro della massoneria.
Di lei si innamorò perdutamente Libero Bovio, che le dedicò una struggente poesia.
Nel 1907 sposò Mister Muscolo, un lottatore acrobata gelosissimo, che le vietò le attività benefiche e la portò in breve alla separazione ed alla solitudine.
A Parigi fece innamorare un petroliere e durante una tournée in Medio Oriente, conquistò un pascià disposto a follie pur di averla nel suo harem.
Resse la scena fino ai 45 anni e piano piano, finiti i risparmi, per sopravvivere si improvvisò chiromante con studio a Roma. Resistette 12 anni, poi finì all’ospizio dove si spense a 78 anni nel 1955.
La sua voce è giunta fino a noi grazie ai dischi della Phonotype, che ci permettono di riascoltare i suoi cavalli di battaglia: “ I te vurrìavasà”, “Voglio siscà” e “Donna Fifì”.

12-Ferdinando Russo

13-Ersilia Sampieri

14-il Cafè-chantant in un disegno di F.Galante

15-manifesto collezione Mele


mercoledì 8 maggio 2013

Lettera aperta al ministro Cancellieri



Illustre Signor Ministro della Giustizia,

mi permetto di darLe qualche consiglio per migliorare la situazione nelle carceri e, soprattutto, per non cadere negli errori del Suo predecessore che, nonostante le pur lodevoli intenzioni, non ha risolto il drammatico problema del sovraffollamento e dell’invivibilità.
Per primo,proceda ad una modifica sostanziale del regolamento penitenziario che, attualmente, rappresenta il crepuscolo del diritto e della dignità umana.
Consenta ai tanti detenuti anziani e affetti da gravi patologie di poter scontare la pena ai domiciliari, faccia che i drogati, prima che puniti, vadano curati in apposite strutture, faciliti il lavoro esterno, aumenti il numero delle telefonate con i familiari, abbia il coraggio di introdurre skype, che non è un pericolo, bensì il modo, a costo zero, con cui decine di migliaia di detenuti stranieri, che non hanno alcun contatto da anni con i propri cari, possano veder crescere i figli, che vivono a migliaia di chilometri di distanza. 
Conosco un solo rimedio, infallibile, per curare mali dell’animaquali solitudine, malinconia, sofferenza, nostalgia che dilagano tra i detenuti e spesso sono alla base dell’epidemia di suicidi: rimanere in contatto costante con i propri affetti, che patiscono, senza colpa, le nostre pene.
Faccia che l’Europa non ci consideri il fanalino di coda della civiltà.
Se poi il Parlamento troverà un accordo, ben venga un provvedimento di clemenza, l’unico veramente in grado di sfollare i penitenziari che rischiano di scoppiare.
Con la speranza di un Suo autorevole intervento, invio distinti saluti. 

Roma, 8 maggio 2013Achille della Ragione
Carcere di Rebibbia

MOSTRA DI ARTEMISIA GENTILESCHI A PISA


In esame il periodo napoletano



“Artemisia, la musa Clio e gli anni napoletani” è il titolo della mostra, curata da Roberto Contini e Francesco Solinas, che si potrà ammirare a Pisa, Palazzo Blu, fino al 30 giugno.
I napoletani dovranno recarsi al nord per vedere un’esposizione dedicata ad una pittrice(Fig.01), che, salvo brevi intervalli, trascorse oltre trenta anni, dal 1627 fino alla morte, all’ombra del Vesuvio, il periodo della maturità, fatto di scambi reciproci con i tanti colleghi che lavoravano in città.
Il capolavoro in mostra, normalmente nelle raccolte di Palazzo Blu, è la spettacolare Clio(Fig.02), firmata e datata 1632, appartenente alla sua prima fase di soggiorno a Napoli.
Tutti conoscono il suo drammatico esordio nel processo intentato da suo padre contro Agostino Tassi, accusato di averla stuprata.
Pochi sanno che, iscurendo la tavolozza, Artemisia espresse il meglio di sé proprio nella capitale vicereale(Fig.03) e gli undici quadri esposti ce ne forniscono una visuale alquanto parziale. Solo due rappresentano delle novità, mentre altri tre sono poco noti in Italia.





I curatori del catalogo ci forniscono un’immagine nella quale la Gentileschi rappresenta il fulcro attorno al quale si sono adeguati i suoi colleghi, come se il suo pennello, prestigioso come un richiamo, avesse determinato il corso dell’intera Koiné napoletana. Un’asserzione che non ci trova concordi, alla luce degli ultimi studi, che ci hanno permesso di accrescere le nostre conoscenze sulla sua figura di artista e di donna. Ella fu molto amata dai pittori napoletani, ma gli scambi avvennero su un piano di perfetta parità(Fig.04-05-06).
Fino a poco fa la sua prima opera era considerata L’Annunciazione(Fig.07), conservata a Capodimonte, firmata e datata 1630. I suoi più importanti lavori sono: Le cinque tele con storie di Giovanni Battista, realizzate tra il 1633 ed il 1634, per il Cason Del Buen Retiro a Madrid, commissione alla quale collaborano Stanzione e Finoglia ed i grossi dipinti per il coro della cattedrale di Pozzuoli, dove Artemisia lavora assieme a Stanzione, Lanfranco, Beltrano, Finoglia ed i fratelli Fracanzano. Tale opera costituisce una vera antologia delle tendenze artistiche a Napoli nel quarto decennio del Seicento. A lei spettano: I Santi Procolo e Nicea, San Gennaro nell’anfiteatro e L’Adorazione dei Magi.
Ritornando alla mostra ci sono due chicche che da sole meritano la visita: Un Sinite Parvulos, a lungo nei depositi del Metropolitan ed oggi presso La Congregazione della chiesa romana di San Carlo al Corso, donata da un anonimo collezionista, da collocare ai primissimi anni napoletani, intorno al 1627. L’altra importante novità, che si aggiunge prepotentemente al catalogo dell’artista è un David con la testa di Golia(Fig.08), oggi in una raccolta privata e descritta nello studio della pittrice nel 1631 da Joachim von Sandrat. Raffigura un giovane sfrontato che fissa con arroganza lo spettatore, mentre con una gamba accavallata, poggia il braccio destro sulla testa tagliata al gigante Golia, dopo averlo tramortito con un sasso fiondato al centro della fronte.
Un mix prodigioso di naturalismo caravaggesco e di potenza cromatica di matrice prettamente partenopea.
Una esposizione che farà da stimolo per gli studiosi ad approfondire non solo Artemisia, ma anche quel crogiuolo di artisti che fecero del Seicento il secolo d’oro della pittura napoletana.






P.S.
BLU | Palazzo d’Arte e Cultura
tel. 050.220.46.50
mail: info@palazzoblu.it

sabato 4 maggio 2013

Un animale da palcoscenico

Peppe e Concetta Barra

La tradizione musicale e teatrale partenopea annovera dei giganti, al cui confronto i loro colleghi contemporanei impallidiscono; in ogni caso vi sono delle figure, attualmente in attività, che portano ancora in giro per l’Italia e nel mondo lo spirito immortale della napoletanità e tra questi personaggi spicca Peppe Barra, il figlio prediletto dell’indimenticabile Concetta.
La sua casa napoletana somiglia ad un sacrario pop contaminato alla perfezione con una  wunderkammer barocca. Infatti, in bella mostra, dappertutto vi sono statuine raffiguranti anime purganti tra le fiamme sotto lo sguardo severo di Madonne sotto vetro, idoli della tradizione cubana e feticci trafitti della macumba.
Sua nonna, che ricorda con nostalgia, aveva degli splendidi occhi blu, mentre Peppe ha ereditato i suoi occhi saraceni da quella gitana di Concetta, madre adorata ed a lungo compagna di palcoscenico.
Peppe parla con grande tenerezza di nonna Michela con la quale è cresciuto, mentre i suoi genitori erano spesso assenti per motivi di lavoro.
Il suo debutto a tre anni in uno spettacolo per la Croce Rossa con un pubblico costituito da soldati feriti, sia americani che italiani. Entrò in scena subito dopo l’imitazione di Charlot di papà Giulio: mentre l’orchestra di Armando Trovajoli intonava un frenetico boogie woogie, vestito da pupazzetto tirolese, si muoveva veloce come una trottola; alla fine del ballo fece un inchino e la folla, mentre applaudiva, lanciava stecche di sigarette, cioccolata e caramelle.
Fu un trionfo concluso in braccio ad una crocerossina americana.

Peppe Barra

Peppe Barra

 Peppe Barra

Quindi la famiglia Barra si trasferisce a Procida, quando il turismo non aveva ancora contaminato l’isola di Arturo, un’oasi di tranquillità lontana mille miglia dalla Napoli cupa, descritta magistralmente da Curzio Malaparte ed Anna Maria Ortese.
Ritornati in città, Peppe frequenta la scuola di recitazione della mitica Zietta Liù, che ben ricordano coloro che hanno solo capelli bianchi. Egli faceva da jolly e quando, indifferentemente un bambino o una bambina si ammalavano, li sostituiva, con le sarte impegnate a trasformargli gli abiti in uno sfolgorio di strass e paillettes.
L’incontro che creò una svolta decisiva nella sua carriera fu quello con Roberto De Simone, il quale cercava voci per la Nuova Compagnia di Canto Popolare.
Era il 1966 e stava per esplodere un indimenticabile revival di folk popolare, che entusiasmò lo stesso Eduardo De Filippo, categorico come sempre con il suo “fujtevenne”, che infatti li fece esordire, grazie ad un’amicizia con Romolo Valli, al “Festival dei due mondi”  di Spoleto, che tenne a battesimo la prima rappresentazione della “Gatta Cenerentola”, a tutt’oggi uno degli spettacoli più importanti del teatro italiano. Tra gli intellettuali che si innamorarono del capolavoro vi fu Fellini, che lo guardava ogni giorno, per poi cenare con Giulietta Masina e De Simone ed esternare le sue emozioni sempre diverse.
Un altro spettacolo importante nella sua carriera fu ”Ppèmùseca”, un collage di musiche barocche, che debuttò nell’auditorium di Castel Sant’Elmo e, naturalmente, “La cantata dei pastori” con le scenografie di Lele Luzzati, un appuntamento costante delle feste natalizie a Napoli.
Un racconto cui tiene molto Peppe è quando con la mamma  si recò negli Stati Uniti  a trovare le due zie: una,  Nella, compagna di Harry Belafonte,  viveva in Florida, mentre zia Maria risiedeva a Columbus in Nebraska.
Le tre sorelle negli anni quaranta avevano costituito il Trio Vittoria, che si esibiva per le truppe al fronte e quando si incontrarono dopo tanti anni di lontananza, dopo abbracci, baci e lacrime, intonarono all’unisono “Ba, ba, baciami piccina sulla bo, bo, bocca piccolina”, un successo degli anni trenta.
Personalmente ho avuto ripetutamente occasione di ammirare Peppe Barra dal vivo, dalla prima indimenticabile rappresentazione della Gatta Cenerentola alle sue numerose riproposizioni, orfane della mitica Compagnia di Canto Popolare, nel frattempo trasformatasi in tanti piccoli big, fino all’ultima volta, due anni fa, a Villa Pamphili a Roma, quando, visibilmente invecchiato, conservava intatto il ruggito del leone.
L’ultimo, almeno per il momento, incontro fondamentale è quello con John Turturro, che lo scelse tra gli interpreti fondamentali del film “Passione”, uno straordinario song movie sulla canzone napoletana, un vero e proprio monumento ad una tradizione musicale unica al mondo e, lo confesso, l’unico film, a parte pellicole di Totò, che ho visto ben tre volte. 
Peppe Barra

Peppe Barra

gli occhi saraceni di Peppe Barra

Peppe Barra

Peppe Barra

Peppe Barra


mercoledì 1 maggio 2013

Il crepuscolo dei diritti e della dignità umana



(1^ puntata)
L’odissea delle consulenze mediche esterne e delle udienze


Molti penitenziari, anche di primaria importanza, si trovano per lungo tempo sforniti di figure fondamentali quali il chirurgo, l’ortopedico, il neurologo per cui i pazienti vengono inviati all’esterno per la consulenza medica necessaria che dovrebbe avvenire presso l’ambulatorio, riservando solo ad indagini strumentali, quali TAC o risonanza magnetica (per le quali vi è un’attesa media di un anno) i pazienti che ne hanno bisogno.
Spesso si tratta di pazienti che versano in gravi condizioni di salute e qui comincia l’odissea, ma sarebbe più opportuno parlare di inferno, del trasferimento del detenuto verso il nosocomio.
Si appongono le manette e si viene stipati in blindati con uno spazio a disposizione inferiore al mezzo metro quadrato dove si trascorrono ore ed ore in condizioni disumane per raggiungere l’ospedale, eseguire l’accertamento ed attendere che tutti terminino i propri.
Tra partenza ed arrivo spesso trascorrono 4-5 ore durante le quali si è costretti ad attendere in una scatola di ferro priva di luce dove la temperatura a volte supera i 40 gradi.
E si tratta di cardiopatici, malati anziani, a volte incontinenti.
Quale giudizio si può esprimere: nessuno, se non rabbia, indignazione, impotenza.
Un discorso a parte è la partecipazione dei detenuti alle udienze: sveglia alle 6, alle 7 si viene smistati nelle celle di attesa, quindi, ammanettati a due a due, si comincia il lungo viaggio, a volte di ore, stipati in quattro in cubicoli sempre di un metro quadrato. Ancora nuova, interminabile attesa di ore prima di essere ammessi davanti alla corte, senza nemmeno il tempo di potersi consultare con l’avvocato, né, tanto meno, consegnare importanti documenti processuali.
L’udienza dura pochi minuti ed a quelle del tribunale di sorveglianza non può assistere il pubblico: una vera e propria caricatura della giustizia che, in nome del popolo italiano, in pochi minuti, decide il destino di una persona.
Il tribunale di sorveglianza si è trasformato in un vero e proprio 4° grado di giudizio che, applicando con insindacabile severità ogni questione, ha vanificato i provvedimenti sfollacarceri emanati dal precedente governo con detenuti a pochi mesi dal fine pena che non hanno mai usufruito di un permesso perché giudicati pericolosi o bisognevoli di ulteriore osservazione che dovrebbe durare sei mesi, ma spesso copre tutto il periodo da espiare

(continua)