venerdì 1 marzo 2013

NAPOLI CHIOCCIA GENEROSA

Una felice mescolanza di popoli e razze



Napoli è stata sempre giudicata una città porosa, non tanto perché poggia su di uno strato di tufo, che possiede queste caratteristiche, quanto per l’innata capacità di amalgamare i vari popoli che nei millenni l’hanno conquistata, a partire dai Greci ai Romani, fino agli Spagnoli, agli Austriaci ed ai Francesi.
I risultati di questa ultra secolare stratificazione è stata la creazione dell’animus del napoletano: socievole, pronto a fare amicizia, disponibile ad aiutare il forestiero ed a favorirne l’integrazione nel tessuto sociale.
Miti e tradizioni hanno subito una trasformazione che ne ha fatto dimenticare i caratteri originari. Un solo esempio fra tanti: la festa di Piedigrotta che, da rito pagano orgiastico in onore del dio Priapo, è divenuta prima una festa religiosa per scatenarsi poi, soprattutto in epoca laurina, in un’esplosione gioiosa di energie primordiali tra maestosi carri allegorici, coppoloni, mano morte, schiamazzi e trasgressioni di ogni tipo.
Negli ultimi decenni il fenomeno migratorio ha assunto un andamento pluridirezionale: da un lato i giovani migliori, laureati e diplomati, prendono tristemente la via del Nord e dell’Estero, privando la città dell’energia vitale indispensabile per arrestare una decadenza ormai irreversibile e nello stesso tempo una marea di extracomunitari, in fuga da guerre e carestia, sceglie Napoli come meta di riscatto civile, sicura almeno di trovare il minimo per sopravvivere. E la città si dimostra impreparata rispetto al passato ad accogliere con un caloroso abbraccio questo “melting pot”, il quale diventa ogni giorno più pressante, rischiando di rompere gli argini come un fiume in piena.

Migranti

Campo rom

Percorrendo Piazza Garibaldi o Piazza Mercato siamo sommersi dai suoni ma principalmente dagli odori di una città multietnica: kebab, couscous, pizze fritte e piede di porco, pesci marinati e trippa. Ma la sera, scomparsi gli ambulanti, cominciano a confluire razze di ogni tipo: magrebini, cinesi, rumeni, polacchi, somali, nigeriani, che si posizionano senza alcun tentativo di instaurare un principio armonico di convivenza.
E questa situazione di cesura la percepiamo più distintamente se ci trasferiamo nelle favelas e nelle baraccopoli che costituiscono le dimore di questi poveri disperati ed il fenomeno può essere osservato chiaramente se prendiamo come punto di riferimento il parco fantasma della Marinella. Una vergogna nel cuore della città; laddove doveva sorgere uno spazio verde di 30000 mq. Ci sono soltanto baracche e veleni, dolore e lacrime, miseria ed abbandono, emarginazione ed una punta di razzismo, mentre si respira la puzza del pesce marcio e si avverte il fruscio di ratti che si aggirano spavaldi tra i cumuli di monnezza.

L’unica nota lieta è il sorriso dei piccoli rom che tornano sorridenti dalla scuola con lo zainetto sulle spalle.La Marinella è un girone dantesco per uomini e donne che hanno commesso il solo peccato di esistere e di cercare lontano da casa un’opportunità per sopravvivere in un ghetto dominato dalle regole dell’apartheid, dove ogni giorno si scatena una guerra per bande per il controllo del territorio, con gli zingari nel ruolo di sopraffattori.
Le baracche hanno invaso buona parte dell’area ed ogni giorno ne spunta una nuova facendosi largo tra le montagne di rifiuti, mentre tutt’attorno carcasse di animali ed un rudimentale pozzo nero che travasa facendo suppurare una melma putrescente paradiso delle zoccole.

Campo rom

Campo rom

I primi a colonizzare il luogo furono gli arabi, dopo poco scacciati dagli africani e con loro vi è anche un gruppo di ucraini senza permesso di soggiorno. Poi sono arrivati i nomadi che vivono rubando ferro e rame e 3-4 volte alla settimana bruciano pneumatici per estrarre il metallo ammorbando l’aria.
Gli unici volontari che si fanno vedere sono quelli della Caritas, portano marmellata e Nutella, ma la popolazione ha bisogno di cibo vero e si beffano gettandole via, ripetendo senza sapere che la storia si ripete ed il pane non si sostituisce con le brioche come al tempo della regina Maria Antonietta.

Un altro problema parzialmente affrontato è il rispetto della libertà di culto per stranieri di fede diversa dalla nostra, soprattutto islamici. Il sindaco De Magistris ha promesso che saranno realizzati una nuova moschea ed un cimitero, ma fino ad oggi il luogo di preghiera è costituito, salvo una piccola moschea in Via Corradino di Svevia, dall’immensa Piazza Mercato dove il venerdì vi è una folla straripante che ascolta un Imam originario di Boscotrecase e convertitosi nel 1996, quando il ritrovamento di una moneta araba fu come una folgorazione e lo spinse a studiare Shari’a a Medina. Egli ritiene che solo l’Islam è la vera religione dei poveri e degli ultimi.
Osservare un migliaio di ragazzi stranieri radunarsi in uno dei punti più antichi della città, teatro dei principali episodi della sua storia, pregare sotto la guida di un Imam napoletano, mentre tutt’attorno si svolge il solito caos quotidiano ha fatto affermare a più di un visitatore che Napoli è la città araba più accogliente dell’Occidente.

Preghiera islamica

Preghiera islamica

martedì 26 febbraio 2013

Castelnuovo una superba fortezza

Maschio Angioino

Nel 1266 Carlo D’Angiò, quando conquistò Napoli, non trovò adeguata la residenza reale di Castelcapuano, nonostante Federico II l’avesse resa sfarzosa, per cui volle costruirsi un castello fortificato che affacciasse sul mare.
Scelse il “Campus Oppidi”, una località fuori dalle mura, dove sorgeva una chiesetta francescana, che venne demolita e ricostruita altrove.
Affidò i lavori a due architetti francesi, Pierre De Chaule e Pierre D’Angicourt, che, lavorando alacremente, la completarono in soli 56 mesi, dotandola di 4 torri di difesa, un profondo fossato ed un ampio ingresso, al quale si accedeva da un ponte levatoio.
Il re non riuscì mai ad abitarla perché impegnato nei Vespri Siciliani, scoppiati nel 1282, ed a sedare una sommossa popolare a Napoli.



Arco di Trionfo
Ne prese possesso nel 1285 suo figlio Carlo II, il quale provvide ad abbellirla, affidando le decorazioni interne a Pietro Cavallini e Montano D’Arezzo, mentre il suo successore Roberto D’Angiò, detto il “Saggio”, si servì anche del sommo Giotto, a Napoli dal 1328 al 1333, il quale affrescò le pareti della cappella palatina con scene del Vecchio e del Nuovo Testamento, di cui rimangono piccoli lacerti, ma che all’epoca furono molto ammirate, anche dal Petrarca, che le descrisse nell’”Itinerarium Syriacum”.
Il re fu grande amante delle lettere e delle arti per cui creò un vero e proprio cenacolo con pittori, letterati e poeti, oltre ad una rinomata scuola di giuristi: da Andrea D’Isernia a Bartolomeo Caracciolo e Cino da Pistoia.
Tra le mura di Castelnuovo si consumò anche il “gran rifiuto” di Celestino V, uno dei pochi precedenti, in 2000 anni di Chiesa, dell’abdicazione di Benedetto XVI.
Il 12 dicembre 1294, nella sala maggiore, da allora detta del “tinello”, il vecchio eremita, davanti alle alte cariche della Chiesa, lesse l’abiura, si sfilò l’anello, rimase in cotta bianca, benedì il popolo e si ritirò a vita privata.
Dieci giorni dopo, nella stessa sala, il conclave elesse pontefice Benedetto Caetani, il famigerato Bonifacio VIII, che Dante collocò nell’Inferno.

cortile, scala d'accesso Sala dei Baroni; capella di Santa Barbara


Sala dei Baroni
Alla morte di Roberto I il Saggio, il “Maschio” fu abitato da Giovanna D’Angiò, donna dai costumi disinibiti, che fece uccidere il marito, fratello del re d’Ungheria, scatenando le ire del popolo guidato da Tommaso De Jaca, che fu eliminato dall’amante della regina. A vendicare il fratello intervenne personalmente il sovrano magiaro, il quale saccheggiò il castello, senza però catturare la regina, scappata prudentemente in Francia.
Il maniero fu ridotto in uno stato pietoso a tal punto che alcuni storici raccontano che divenne una sorta di lupanare.
A consolidare questa leggenda collaborò anche la seconda regina di nome Giovanna, sorella di Ladislao, la quale consumò una serie frenetica di amplessi con giovani di ogni estrazione sociale, che, dopo la coniuxio, venivano eliminati attraverso una botola.
Nel 1442 vi fu un cambio di dinastia con la corona di Napoli cinta da Alfonso D’Aragona, detto il ”Magnanimo”, grande mecenate e protettore delle arti, sul modello di Lorenzo il Magnifico a Firenze. Fondò la celebre Accademia Pontaniana, che riunì i migliori ingegni del tempo, da Sannazaro a Summonte, fino a Masuccio Salernitano, autore del “Novellino”, una raccolta di novelle alla maniera del Boccaccio.
Il re fece imponenti lavori di consolidamento ed anche gli ambienti interni furono abbelliti da maestri spagnoli, quali Guglielmo Segrera, a tal punto che il pontefice Pio II paragonò il castello alla reggia di Dario.
La sala maggiore è un miracolo di statica architettonica con il soffitto a costoloni. Essa prese il nome di “Sala dei Baroni” perché nel 1486 il figlio di Alfonso, Ferrante D’Aragona, riunì tutti i nobili del regno, che gli erano ostili e, fingendo una tregua, diede ordine di arrestarli in massa.
Alfonso volle lasciare un messaggio ai posteri del suo ingresso in città e fece erigere uno spettacolare Arco di Trionfo che rappresenta una delle più belle opere del Rinascimento, al quale lavorarono Guglielmo Da Majano, Luciano Laurana, il Pisanello e Pietro Da Milano, i quali realizzarono un delicato equilibrio tra volumi e spazi, coniugando valori plastici ed architettonici in un insieme estremamente armonioso.
La realtà storica è alquanto diversa  perché Alfonso conquistò la città non attraverso una battaglia, bensì introducendosi con i suoi guerrieri attraverso una cloaca, sbucando da un pozzo in un cortile di Santa Sofia: a conferma della verità, vi è una pensione annua di 36 ducati alla portiera dello stabile, le cui ricevute sono conservate nella Tesoreria Aragonese.
Grande interesse rivestono le porte di bronzo del castello, attualmente conservate nel Museo Civico del Maschio Angioino, che presentano degli squarci: in uno di questi fa bella mostra di sé una palla di cannone. I sotterranei del castello presentano tetre prigioni corredate da catene arrugginite e porte cigolanti.
Durante gli scontri tra Spagnoli e Francesi, Carlo VIII saccheggiò il maniero che, piano piano, perse d’importanza, nonostante Carlo V vi soggiornasse nel 1535 e Don Pedro Da Toledo lo circondasse con un’ampia cinta bastionata.


volta Sala dei Baroni
I Borbone preferirono altre sfarzose residenze, anche se Ferdinando I provvide, con un agile ponte, a collegarlo al Palazzo Reale.
Nel secolo scorso la decadenza ha raggiunto l’acme quando fu trasformato in uffici, tra i quali la Direzione della Nettezza Urbana , e, soprattutto, la Sala dei Baroni, che aveva accolto Pontefici e Cardinali, Re e Regine, si trasformò in aula del Consiglio Comunale, dove gli eletti del popolosi abbandonavano ad insulti e scazzottate, mentre turbe di disoccupati esasperati lo assediavano reclamando il miraggio di un lavoro.


porta bronzea


DISCORSO TENUTO IN OCCASIONE DELLA VISITA DEL MINISTRO DELLA SALUTE BALDUZZI AL GRUPPO UNIVERSITARIO DI REBIBBIA




Signor Ministro, direttore, professori, colleghi, sono Achille della Ragione, divenuto qui più semplicemente: 90159, sono medico, specialista in Ostetricia e Ginecologia ed in Chirurgia Generale, già docente di Fisiopatologia della riproduzione nell’Università di Napoli. Nello stesso tempo sono gravemente ammalato, affetto da una ventina di patologie, per cui costituisco l’osservatorio ideale per tracciare un quadro della situazione sanitaria nel penitenziario, di cui sono ospite da 18 mesi.
Prima di entrare nel merito dei numerosi disservizi, comuni, ma qui aggravati, a quelli di tutti i cittadini, in un momento di grave crisi economica come quello che stiamo attraversando, vorrei fare una precisa denuncia dell’abuso di psicofarmaci, i quali vengono elargiti in cospicua quantità, pur di tenere calmi i detenuti e che in breve tempo trasforma gli stessi in automi disarticolati, in pallidi ectoplasmi, in marionette impazzite.
Un altro prodotto che viene distribuito a richiesta è la tachipirina, un antipiretico, che viene utilizzato per curare le più svariate affezioni: dal raffreddore al mal di testa, dai dolori muscolari alle bronchiti, una vera panacea se non si trattasse di un semplice placebo.
I tempi di attesa per una visita specialistica interna sono di mesi, per un’indagine esterna, superano spesso un anno.
Le procedure burocratiche per far entrare un consulente esterno sono macchinose e defatiganti e durano costantemente molti mesi.
La permanenza in carcere peggiora tutte le patologie, anche nei più giovani, immaginiamo gli effetti devastanti che possono avere in pazienti, spesso anziani, affetti da cardiopatie gravi, crisi ipertensive, Aids in fase terminale, diabete scompensato e tante altre affezioni che conducono in breve tempo al decesso.
Un discorso a parte meritano i numerosi tossicodipendenti, che dovrebbero essere, prima che puniti, curati in apposite strutture.
Potrei dilungarmi, ricordando i tanti morti, l’ultimo meno di un mese fa e l’epidemia di suicidi, che andrebbe contrastata con un’inesistente assistenza psicologica. Ma vorrei trattare brevemente dei non meno importanti mali dell’anima: la solitudine, la malinconia, la sofferenza, la nostalgia. Conosco un rimedio infallibile per combatterli: rimanere in contatto con i propri familiari, anche solo per telefono. In tutta Europa i detenuti (a loro spese) sono liberi di fare quante telefonate desiderano. Perché dobbiamo costantemente essere il fanalino di coda della civiltà?
Signor Ministro le auguro di far parte del nuovo governo e La invito, in accordo col nuovo Ministro della giustizia di cercare di ovviare ai gravosi problemi che Le ho brevemente esposto, i quali, se trascurati, più che alla giustizia terrestre, gridano vendetta davanti a Dio.
Grazie Achille della Ragione

lunedì 25 febbraio 2013

Allegoria sulla vita e sull’immortalità



Nel ventre di una donna gravida dialogano due feti.
- Tu credi nella vita dopo il parto? 
- Certo, qualcosa deve esserci dopo il parto, sicuramente siamo qui per prepararci a vivere nel mondo esterno. 
- Sciocchezze! Non c’è vita dopo il parto, come sarebbe questa vita? 
- Non lo so, ci sarà più luce, cammineremo con le nostre gambe e mangeremo con la bocca. 
- Ma è assurdo! Camminare? E mangiare dalla bocca? Ridicolo! Il cordone ombelicale serve a nutrirci ed è troppo corto per permetterci di uscire. 
- Invece io ne sono certo che ci sarà qualcosa di diverso. 
- Però nessuno è tornato dopo il parto a raccontarcelo. Con il parto finisce la vita, la quale non è altro che una angosciante esistenza al buio che ci porta al nulla. 
- Sicuramente vedremo la mamma e lei si prenderà cura di noi. 
- Mamma? Tu credi che esista e dove è ora? 
- Dove? Noi siamo nel suo ventre, grazie a lei vivremo. 
- Eppure non ci credo! Non ho visto la mamma e perciò non esiste. 
- Ok, ma quante volte, mentre siamo in silenzio riusciamo a sentire il battito del suo cuore e percepiamo quanto è premurosa per la nostra salute. Io sono sicuro che ci sia una vita che ci aspetta, per la quale ci stiamo preparando: cammineremo, mangeremo, penseremo e saremo a volte felici ed a volte tristi.

sabato 23 febbraio 2013

Il pesce Nicolò e la leggenda del coccodrillo


Nicolò Pesce


Le leggende napoletane sono numerose e molte sono legate al mare, come quella del “Pesce Nicolò”, nota da tempo immemorabile, della quale si rischia di perdere il ricordo perché non vi è più traccia, in Via Mezzocannone, del bassorilievo di epoca classica rappresentante Orione, venuto alla luce durante gli scavi per le fondamenta del Sedile di Porto, murato nel settecento, ricordato poi da una lapide.
Il bassorilievo, cui accenna anche Benedetto Croce, raffigura un uomo coperto da un vello con in mano un coltello. Il nome del protagonista è “Cola Pesce” o “Pesce Nicolò”.
La storia prende spunto da un'antica leggenda siceliota in cui si parla di un ragazzo, maledetto dalla madre, che, a furia di nascondersi tuffandosi nel mare ed a vivere tra i flutti, assume le sembianze di un vero e proprio pesce che, per lunghi spostamenti, si serve del corpo di grossi “Collegni”, dai quali si fa inghiottire per poi tagliarne il ventre, una volta giunto a destinazione.
Da questo illustre progenitore prese origine una confraternita di sommozzatori, che venivano iniziati ad un culto marino in onore di Poseidone, con lo scopo di prendere possesso delle ricchezze poste nelle grotte più profonde del golfo. Essi adoperavano delle alghe che, trattate con una formula segreta, erano in grado di aumentare considerevolmente il tempo di resistenza in apnea, pari o superiore ai sommozzatori dotati di bombole.

Taluni di questi si accoppiavano con dei rarissimi sirenoidi, oggi scomparsi dal golfo di Napoli ed è bello pensare che le rare foche monache, che ancora si scorgono al largo di Capri, siano gli antichi discendenti di questi accoppiamenti ibridi.
Sembrerebbe che uno degli ultimi di questi soggetti sia stato utilizzato dagli Alleati, in assoluta segretezza, per ricerche sottomarine nel golfo di Napoli.
La leggenda di Colapesce si diffuse per tutto il Regno ed in Sicilia si racconta che uno di questi esseri, sceso nelle acque più profonde, resosi conto che uno dei tre pilastri  che reggevano l'Isola stava cedendo, si sacrificò per sostituirsi nell'opera di sostegno.
Gli ultimi discendenti di questi mitici personaggi possono essere considerati quei ragazzini che ancora oggi, tutti nudi sempre abbronzati d'estate e d'inverno, si tuffano per raccogliere con la bocca le monete gettate a mare da turisti ammirati  e, nello stesso tempo, preoccupati per la lunga apnea di quegli esili corpicini, più volte immortalati dal grande scultore Vincenzo Gemito.

Giovanna I d'Angiò
Giovanna I d'Angiò
Giovanna I d'Angiò


Un'altra leggenda famosa è quella di un famelico coccodrillo che, forse, al seguito di qualche nave, dopo aver percorso tutto il Mediterraneo, trovò alloggio nei sotterranei del Maschio Angioino, dove i castellani, accortisi della sua presenza, pensarono di utilizzarlo per sopprimere sbrigativamente i condannati a morte.
Sebbene poco credibile, la storiella trovò accoglienza dai napoletani a tal punto che a lungo un coccodrillo impagliato fu appeso all'ingresso del Maschio Angioino.
E qui si innesta una seconda leggenda secondo la quale i suoi pasti più sostanziosi erano costituiti dai numerosi amanti che la regina Giovanna, dopo l'amplesso, faceva precipitare giù, attraverso una botola, fino all'alloggio del famigerato coccodrillo.
Ma, dobbiamo chiederci, questa assatanata regina Giovanna è mai esistita?
Gli storici conoscono due sole regine: Giovanna D'Angiò e Giovanna di Durazzo, entrambe dai costumi sessuali alquanto disinibiti.
A risolvere la querelle fu Benedetto Croce, secondo il quale la Giovanna della leggenda va ricercata nella sovrapposizione delle due Giovanne realmente esistite e miscelate, aumentando i difetti dell'una e dell'altra, fino a creare un terzo orripilante personaggio.

Giovanna Durazzo

coccodrillo al Maschio Angioino di Napoli


venerdì 15 febbraio 2013

Un record di chiese sconsacrate a Napoli

Napoli: chiesa di San Giovanni Maggiore


E’ da tempo che a Napoli si parla di restituire alla pubblica fruizione le tante chiese del centro storico, che versano in completo stato di abbandono e di degrado, sdegnate persino dai ladri che hanno asportato spesso anche statue ed altari. La Curia nel 2011 ha emesso un bando: “ Chiese da riaprirsi” con l’obiettivo di affidare ad associazioni il compito di restituire alla città, alla cultura e all’artigianato luoghi da decenni non più accessibili.
Ma fino ad ora solo poche sono state assegnate: tra queste la basilica di San Giovanni Maggiore, affidata all’Ordine degli Ingegneri, che organizza concerti, conferenze e convegni, lasciandola libera la domenica per attività di culto. Da allora quel tratto di via Mezzocannone ha riacquistato una vitalità ed un fermento culturale incidendo positivamente anche sul contesto sociale ed economico.
Il terremoto del 1980 inferse un colpo mortale al patrimonio artistico napoletano. Da allora molte, moltissime chiese, anche di primaria importanza, sono negate alla fruizione del pubblico e dei turisti.
Le chiese di una città sono la testimonianza del suo glorioso passato, ma soprattutto possono costituire un potente volano di sviluppo perché in grado di attirare, come ai tempi eroici del Grand Tour, un esercito di forestieri.
Il calendario realizzato con tanto amore dal fotografo Listri e sponsorizzato dalla Sovrintendenza può determinare uno scatto d’orgoglio e può far capire, anche al grande pubblico, la necessità di provvedere all’incuria che si trascina con tracotanza ormai da troppo tempo.
E’ un grido di dolore che si leva disperato affinché questi sacri templi possano tornare alla stupefatta ammirazione dei visitatori.
Si tratta di edifici più o meno noti come Sant’Agostino alla Zecca o Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, come la Sapienza o Santa Maria del Popolo agli Incurabili, ma anche le altre, prima di essere depredate ed abbandonate a vandali e ladri, hanno costituito un tassello fondamentale nella storia della città: Sant’Aspreno ai Crociferi, l’Immacolata a Pizzofalcone, San Giuseppe a Pontecorvo, la Scorziata, la Disciplina della Croce, i Santi Severino e Sossio, i Santi Cosma e Damiano ai Banchi Nuovi, Santa Maria Vertecoeli.
Bisogna mobilitarsi per salvare e soprattutto bisogna fare presto.
Su queste chiese che dovranno ospitare attività sociali aleggiano leggende e miti, con vergini e draghi che vogliamo rammentare assieme a cenni su quando e da chi furono edificate.
Partiamo da quella già assegnata, San Giovanni Maggiore, che nel I secolo fungeva da tempio pagano, fatto erigere dall’imperatore Adriano in onore di Antinoo. Nel IV secolo poi l’imperatore Costantino trasformò il tempio in chiesa che volle dedicare a San Giovanni Battista per essere poi arricchita da quadri e suppellettili.
La chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli sorge su una piccola altura dove vi era un boschetto utilizzato spesso per le sfide a duello e dove molti pensavano che vi fosse la tomba della sirena Partenope, fondatrice della città e conosciuta dal popolino come “’a capa ‘a Napule”.
Un’altra leggenda ci parla di un’edicola votiva pendente da un albero, davanti alla quale una donna sterile venne ad impetrare la grazia di un figlio, che dopo poco nacque e venne battezzato col nome di Agnello, in vernacolo Aniello, il quale da grande ascese alla gloria degli altari. Questa chiesa verrà destinata a Centro per informazioni turistiche.
Alla stessa destinazione verrà adibita anche la chiesa dei Santi Cosma e Damiano ai Banchi Nuovi, entrambi medici. Essa venne edificata nel 1616 dall’associazione dei barbieri e la cosa non deve destare meraviglia, perché a quell’epoca e per lungo tempo questi artigiani svolgevano anche attività sanitarie.
Trecento vergini di nome Immacolata frequentavano nel ‘500 una chiesetta denominata del Rosario, sulla collinetta di Pizzofalcone, frequentata dai soldati spagnoli lì acquartierati. Nel 1850 il re Ferdinando II la fece completamente riedificare ed in ricordo dell’antica frequentazione le impose il nome di Immacolata a Pizzofalcone. Essa verrà adibita a centro polifunzionale per fornire servizi ai Quartieri Spagnoli.
Orefici e gioiellieri, quasi tutti genovesi, fondarono nel 1857 in via Medina una chiesa, San Giorgio dei Genovesi. Oltre a questi artigiani molto ricchi vi era una vasta colonia di liguri, abilissimi nell’attività di ristoratori. Infatti ai napoletani piaceva molto la carne alla genovese. Cuochi e camerieri si recavano a pregare nella cappella dell’infermeria di Santa Maria la Nova prima dell’edificazione della loro chiesa, la quale divenne famosa perché sull’altare maggiore troneggiava un dipinto raffigurante San Giorgio mentre trafigge un drago. A breve diverrà sede di una biblioteca pubblica.
In via Medina si trova anche la celebre chiesa della Pietà dei Turchini, fondata nel 1592, a cui era annesso un orfanotrofio i cui componenti erano avviati allo studio della musica indossando un abito talare di colore turchino. Tra gli allievi vi fu il grande Alessandro Scarlatti e nella chiesa fu dato l’ultimo saluto ad Aurelio Fierro. Nella sede del vecchio conservatorio è prevista la nascita di un laboratorio musicale.

martedì 12 febbraio 2013

Viaggio tra le grotte dove San Michele sconfisse il male



     
Nei primi secoli di affermazione del Cristianesimo in numerose grotte del meridione si veneravano ancora divinità pagane.
Per arginare queste tradizioni nelle popolazioni locali, la Chiesa si attivò per sostituire questi antichi riti con il culto della Madonna e dei Santi. 
Tra questi venne scelto San Michele, l’Arcangelo che simboleggia la vittoria contro gli angeli ribelli capitanati da Satana, che, sconfitti, vennero precipitati negli inferi.
Egli presentava molte delle caratteristiche possedute dalle precedenti divinità pagane, come Anubi, Apollo, Mercurio e Mithra.
Il culto di San Michele, originario dell’ Asia minore, si diffuse poi ad Alessandria d’Egitto per essere poi introdotto in occidente dai bizantini.

grotta di Avella
Approdò inizialmente sul Gargano, insediandosi nella grotta di Monte Sant’Angelo, dove il Santo apparve nel 490, nel 492 e nel 493, mentre in precedenza vi si veneravano Calcante e Podalirio, divinità legate al culto delle acque miracolose.
La duplice presenza delle forze del bene e del male, secondo alcuni racconti popolari, si protrasse per molti secoli.
In seguito il culto di San Michele si diffuse in tutto il mondo occidentale grazie ai longobardi, che lo elessero a patrono nazionale, dopo la loro conversione al cristianesimo avvenuta alla fine del VII secolo.
La grotta di Monte Sant’Angelo divenne così la capostipite di tutte le cavità legate al culto micaelico e la sua fama divenne tale da diventare, insieme al sepolcro di Gesù a Gerusalemme, alle tombe degli apostoli Pietro e Paolo a Roma ed al santuario di Santiago de Compostella in Spagna, uno dei centri della cristianità più frequentati e tappa obbligatoria per i pellegrini che si recavano in Terra Santa.
In Campania numerose sono le grotte dedicate al culto di San Michele, tra le più belle va annoverata quella ad Olevano sul Tusciano, che mostra subito il suo utilizzo nel corso dei secoli, a partire dall’età del ferro come dimostrano vasellame e selci del periodo preistorico.
La parte più importante è composta da sei cappelle, collegate tra loro da camminamenti, visitate da Gregorio VII nel 1614.
ingresso dell'antro
Nella più importante sono conservati affreschi bizantini di pregevole fattura risalenti all’VIII – IX secolo. Vi è anche un passaggio che conduce ad un ramo laterale noto come il rifugio del brigante Nardantuono.
Sempre nel salernitano, nei monti Alburni, a Sant’Angelo a Fasanella, vi è un ipogeo sorprendente che, attraverso un portale con due leoni stilofori, immette in un vasto antro, frequentato già nel paleolitico, in cui si conservano un altare dedicato all’Immacolata con una pregevole tela del 1600 e, in un corridoio, due statue di Vergini con Bambino.
Infine ad Avella, in provincia di Avellino, la cosa più bella della grotta è la cappella dedicata a San Michele, dominata da un grande baldacchino in stile barocco del 1816, che ospita una statua del seicento con il santo che schiaccia un Lucifero ringhiante.

Santuario Sant'Angelo a Fasanella