lunedì 5 marzo 2012

IL SIMBOLISMO DA MOREAU A GAUGAIN E KLIMT

A FERRARA 18 FEBBRAIO - 20 MAGGIO - IN MOSTRA CENTO CAPOLAVORI

articolo pubblicato sabato 16 giugno 2007 su: "scena illustrata"


Fino al 20 maggio sarà possibile visitare a Ferrara, al Palazzo dei Diamanti, una delle mostre più importanti dell’anno, senza dubbio la più accattivante: una silloge esaustiva di un movimento, il Simbolismo, che, nato in pittura, ha pervaso altre espressioni artistiche, dalla musica alla letteratura ed al cinema, coprendo un lasso temporale che va, senza interruzione di continuità, dalle sofferte liriche di Charles Baudelaire alle estrose invenzioni di Federico Fellini.
Nel Novecento darà luogo poi ad un nuovo gusto, che assumerà una diversa denominazione nelle nazioni dove incontrerà successo: Art Nouveau in Francia e Belgio, Modernismo in Spagna, Liberty in Italia ed in Inghilterra.
Il 1886 viene considerato l’anno ufficiale di nascita del movimento simbolista con la pubblicazione del suo Manifesto sulle pagine del quotidiano Le Figaro ad opera del poeta Jean Moreas. Un anno emblematico, in cui vi sarà l’ultima esposizione collettiva degli impressionisti, esaltatori di immagini vive, vere e concrete, in antitesi al nuovo verbo, che si propone di indagare vasti orizzonti alla ricerca della vera ragione dell’essere.
Il nuovo pensiero creativo si avvale del genio di scrittori come Wilde e D’Annunzio e di pensatori del calibro di Schopenauer, Freud e Bergson e trova nutrimento in germi già appartenuti alla sensibilità romantica.
L’estetica del simbolismo riflette l’esigenza di una lettura criptica della realtà ed è ricerca di un’arte globale, in grado di comprendere assieme poesia, pittura e musica, sintesi che avrà solenne incarnazione nel melodramma wagneriano. La musica sarà tra le espressioni artistiche la più ammirata, perché in grado di realizzare il più limpido modello di libera creatività, grazie all’incorporea natura dei suoni che sgorgano potenti dal profondo dell’interiorità.
La fonte ispirativa alla quale attingono i pittori simbolisti è un mondo ambiguo e surreale dominato da belle e da bestie, da sfingi e da centauri, da sirene e da angeli, un regno fantastico ed oscuro dalle forme evanescenti. Si ritorna ad antichi simboli egizi e mesopotamici, a miti della cultura greca, a storie bibliche ed a leggende medievali. La natura viene vissuta come lo scontro tra potenze sotterranee e misteriose, dove male e bene sono due facce della stessa medaglia.
La figura della donna è vista in maniera antitetica, fragile, di una bellezza languida e sensuale, spesso destinata alla morte, altre volte peccatrice incallita e crudele, come la Salomè o la Giuditta, una rovina per l’uomo vittima della sua tentazione.
La natura nella fantasia dei pittori simbolisti è popolata da esseri ambigui, metà umani e metà bestia: centauri, sirene, sfingi, che simboleggiano l’irrazionale, il contatto dell’uomo con la sua parte più misteriosa, inconscia e dionisiaca.
Tra i dipinti esposti, la Sfinge di Fernand Knopff, l’artista trasforma l’antica creazione degli Egizi, per i quali era allegoria di potenza e vigilanza, in un animale dalla ferocia seduttiva, corpo di felino e testa di donna, incarnazione della lussuria. Nella celebre versione esposta in mostra la sfinge, nel cui volto il pittore ha ritratto incestuosamente la sorella, possiede una lunga coda avvolgente ed il corpo di un famelico leopardo, che simboleggia lo scatto repentino e travolgente delle passioni.
Le quattro stagioni di Hodler, artista svizzero ispirato dalla luce abbagliante delle Alpi, è una composizione onirica dominata dall’aspirazione spirituale alla comunione tra l’uomo e la natura ed è incentrata su una processione di donne, più o meno vestite tra un fiume di papaveri.
In Esiodo e la musa di Gustave Moreau il poeta greco viene consigliato da una fanciulla angelicata dalle ali imponenti sul cammino da seguire. Un’altra opera in mostra dell’artista è l’Apparizione, nella quale l’affollarsi di riferimenti esotici e la commistione tra misticismo ed eros rappresentano la più completa cifra stilistica del pittore francese.
Nel Bacio della sirena di Max Klinger l’uomo viene sedotto dalla bellezza devastante della sirena, che lo trascina poi nel fondo degli abissi per divorarlo. Le mitiche signore del mare, dalla bellezza conturbante e dal fascino misterioso, posseggono un canto irresistibile dal quale deve difendersi anche il più astuto degli uomini Ulisse. Raffigurano degnamente l’autodistruzione del desiderio ed il pericolo delle passioni sfrenate.
Ed infine troneggia maestoso lo Scherzo di Franz von Stuck, una composizione da cui emana prepotente una calda sensualità ed un morboso erotismo, tutta giocata sulla serrata dialettica tra maschio e femmina, tra innocenza e peccato, in una dimensione nella quale il corpo dell’uomo non è più separato dai suoi istinti naturali, ma libero di dare sfogo all’impeto delle pulsioni primordiali.
Von Stuck era un personaggio bizzarro, che godette in vita di un’immensa popolarità. Possedeva una splendida villa che, oltre a fungere da atelier, era un giardino pagano delle delizie con tanto di altare del peccato, dove si compivano frequenti riti al dio del sesso, propiziati da festini in costumi arcadici e dove spesso, completamente nuda, danzava la celebre Isadora Duncan, eccitando i componenti della combriccola, che si affrettavano a libare alle divinità dell’amore.
La storia letteraria ed artistica del Novecento può essere letta come una competizione tra coloro che hanno ceduto alle seduzioni del Simbolismo e coloro che le hanno avversate ed un colpo micidiale verrà inflitto da quel genio devastante di Picasso, che, con le sue audaci scomposizioni della materia ed il suo odio per le introspezioni psicologiche, fornirà all’Arte nuove coordinate e nuovi sconfinati orizzonti. Il mondo ambiguo ed immaginario fissato sulla tela dai pittori simbolisti, il dramma musicale di Wagner, i versi strazianti di Baudelaire, il tempo interiore di Bergson, cederanno il passo alle espressioni artistiche del XXI secolo.

LA PITTURA NAPOLETANA ALL’ARRIVO DEL CARAVAGGIO


Chi volesse conoscere la situazione della pittura a Napoli sul far del Seicento dovrebbe semplicemente entrare nella chiesa di S. Maria la Nova, alzare gli occhi al cielo e contemplare lo splendido soffitto cassettonato, che da solo costituisce una splendida pinacoteca di quasi cinquanta dipinti ed una vera e propria antologia delle correnti pittoriche napoletane alla vigilia della venuta in città del Caravaggio ed all’affermarsi del suo verbo. Possiamo così ammirare la maniera dolce e pastosa e la cosiddetta riforma toscana in tutte le possibili declinazioni, oltre a parlate minori, che affollavano la temperie artistica del nuovo secolo. Al centro i giganteschi quadroni di Francesco Curia, di Girolamo Imparato e di Fabrizio Santafede, ai lati i siciliani Giovan Bernardino Azzolino e Luigi Rodriguez, il greculo Belisario Corinzio ed il fiammingo Cesare Smet.
Una seconda ghiotta occasione di approfondimento è costituita dal secondo piano del museo di Capodimonte, ove, un lunghissimo corridoio conduce, novella bussola, verso l’abbacinante luce che promana vigorosamente dalla “Flagellazione” del Caravaggio. Man mano che scorrono i secoli, sala dopo sala, ci si avvicina sempre più allo spettacolare capolavoro, che fa da spartiacque tra due modi di dipingere assolutamente antitetici.Raggiunta la meta, ecco a sinistra i primi seguaci partenopei del Merisi, degnamente rappresentati, da Battistello , Sellitto e Vitale. Si conclude così il nostro viaggio che andiamo ora a cominciare.
In occasione della memorabile mostra “Civiltà del Seicento a Napoli” non fu riservato spazio alcuno ai pittori tardo manieristi protrudenti nel “secolo d’oro”, anche se nei termini cronologici della rassegna,dal 1606 al 1705, sarebbero rientrati decine di artisti, alcuni di grande rilievo, i quali lavorarono indisturbati e pieni di committenze a carattere devozionale fino agli anni Quaranta, limitandosi al massimo ad “irrobustire gli scuri”.
Negli ultimi due decenni del Cinquecento si intrecciano più parlate sul panorama artistico napoletano. Tra queste le tre principali sono la maniera “dolce e pastosa”, proveniente da Roma e facente capo agli Zuccari ed ai loro seguaci tra cui Bartolomeo Spranger. Una corrente “barroccesca”, anche essa in arrivo dalla città eterna. Ed infine un innesto di riforma toscana rivisitato in chiave venezieggiante,che vede come esponente di punta Fabrizio Santafede e si rifà alle opere di Santi di Tito, del Passignano e del Cigoli.
Le figure rappresentate nei dipinti tardo cinquecenteschi sono di maniera, non certo copiate da un modello, come avverrà costantemente con il Merisi, che sceglierà i suoi personaggi tra la folla partenopea.
A partire dai primi anni del secolo, senza attendere il prorompente arrivo in città del Caravaggio, si avverte nell’aria che qualche cosa sta succedendo e lentamente tutti gli artisti, anche quelli di prestigio cominciano a rivedere le loro posizioni cercando di aggiornarsi. Il grande giubileo del 1600 ha condotto a Roma turbe di fedeli e tra questi, anche se non è documentato con precisione, sicuramente molti pittori, i quali non avevano difficoltà ad ammirare le principali opere del grande lombardo, in gran parte a collocazione pubblica.
Una lampante dimostrazione di quanto asserito è rappresentata da un disegno del Corenzio, conservato nel museo di Capodimonte, copia con varianti di una delle tele laterali della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi: ”La chiamata di San Matteo”. Il foglio risente ancora della fase manieristica di Belisario, un artista che notoriamente non venne influenzato dalle nuove mode e continuò imperterrito sulla sua strada, ras incontrastato nelle grandi imprese decorative a Napoli e nel vice regno fino al 1643, quando, ultra ottantenne, chiuse in gloria la sua attività, precipitando da imponenti impalcature nella chiesa dei Ss. Severino e Sossio.
Più volte la critica è andata alla ricerca di precursori meridionali del Caravaggio ed alcuni autori hanno creduto di trovare in alcune opere di Aert Mytens, un fiammingo conosciuto anche come Rinaldo Fiammingo, dai segni inequivocabili del nuovo verbo. In particolare un “Cristo deriso”, iniziato a Napoli e completato a Roma, certamente prima del 1602, anno di morte del pittore, presenta effetti chiaroscurali così manifesti ed un’azione drammatica talmente incalzante, da far credere ad occhi non smaliziati di trovarsi innanzi a sconvolgenti novità. L’effetto di lume notturno adoperato dal Mytens richiama però Luca Cambiaso e non è adoperato con fini naturalistici, mentre la carica di realtà rappresentata sulla tela è assolutamente generica. Ed inoltre il modo di contornare i personaggi con precisione disegnativa ci dimostra che la pittura del fiammingo è perfettamente in linea con i dettami del Manierismo internazionale di Spranger e di Goltius, uno stile di grande successo che imperversò all’epoca in tutta Europa.
Ma sarà soltanto la sconvolgente lettura diretta della realtà e la novità di una luce che viene dall’alto, a definire, con il magistrale gioco del chiaro scuro, i personaggi. L’arrivo in città di questa rivoluzione ci farà apparire all’improvviso ridicole caricature, ai limiti del grottesco, le opere degli artisti all’ora in auge in città, dal Curia all’Imparato, dal Rodriguez al Corenzio, dal Borghese all’Azzolino.
Tutti si convincono di colpo che il modo di rappresentare la pittura sacra ha subito una svolta definitiva e gli artisti cercano di correre ai ripari, calcando le ombre e dando agli sfondi una consistenza più tangibile, ma per i tardo manieristi partenopei è una battaglia persa in partenza. La ricchezza del mercato napoletano è però ampia e differenziata e molti pittori continueranno tranquillamente a lavorare a pieno ritmo fino a metà secolo, soddisfacendo decorosamente una committenza devozionale.

MOSTRA SU TAMARA DE LEMPICKA



pubblicato venerdì 20 ottobre 2006 su: "scena illustrata"


al PALAZZO REALE DI MILANO una MOSTRA SU TAMARA DE LEMPICKA
dal 5 ottobre al 14 gennaio 2007


Presso il Palazzo Reale di Milano si sta svolgendo una delle più interessanti mostre dell’anno su di una artista Tamara Gorska, in arte de Lempicka, dal cognome del primo marito, polacca, che fu donna famosa per la sua vita mondana, oltre che per l’ abilità del suo pennello. Fu conosciuta per la sua eccentricità portata agli estremi e per il mirabile connubio di bellezza e perversione.
Durante la rivoluzione d’ottobre si trasferì col marito a Parigi dove visse una vita ribelle e dispendiosa, tra lussi e legami affettivi disinibiti sia maschili che femminili.. Si dedicò alla pittura sotto la guida di Maurice Denis ed amò l’uso di colori brillanti e caldi dopo aver praticato il disegno con un tocco raffinato ed elegante. Da Andrè Lothe, un originale cubista, derivò il gusto per la scomposizione dei volumi. Ritrasse personaggi dell’alta società in ambienti lussuosi e tra questi lei stessa in un celebre autoritratto, che fece da copertina alla più diffusa rivista tedesca, mentre è al volante di un’automobile da sogno, una Bugatti verde, bella, fascinosa, ricca ed annoiata, dallo sguardo assente ed impenetrabile.
Nel 1927 fu invitata al Vittoriale da D’Annunzio, il quale, celeberrimo conquistatore di donne fatali, con la scusa di chiederle un ritratto, mise il moto tutto il suo fascino, ma, a quel che raccontano le cronache, senza successo, anzi la fanciulla, ventenne descrisse il vate, sessantenne, come un nano vestito da soldato, affetto da pestifera alitosi e probabilmente da ingravescente sifilide.
Nel 1934 si risposò, divenendo baronessa, e continuò la sua vita mondana nell’alta società, ammirata per il suo fascino e per la sua bellezza sfolgorante. Si trasferì poi in America e cambiò il suo stile, eseguendo quadri astratti ed utilizzando una tecnica a colpi di spatola, senza però incontrare consenso nella critica.
Morì più che ottantenne e per sua volontà le sue ceneri vennero disperse dalla figlia Kizette sulla vetta del vulcano Popocatepetl, disperdendo al vento in mille luoghi la sua inesausta vitalità, che per anni aveva dimorato nel suo splendido corpo.

fig. 1

Nel dipinto Ritmo (fig.1), eseguito nel 1925 ed esposto subito a Milano e l’anno successivo a Parigi al Salon des Independants, appaiono tutti gli elementi che caratterizzano lo stile di Tamara, dall’influsso di Lhote a quello fondamentale di Ingres, oltre alla conoscenza dei manieristi italiani, in primis il Pontormo e di alcuni pittori coevi, tra cui Casorati, autore del Concerto (fig.2), conservato presso la sede Rai di Torino, un quadro da cui deriva tangibilmente quello della Lempicka.

fig. 2
Le donne che affollano il dipinto, nelle loro smaglianti nudità, fremono di una vitalità inebriante, da protagoniste di un anticonformismo femminile che osa esprimersi in maniera sfacciata, con pose ardite ed inconsapevoli del volume e del peso dei propri corpi. Sono donne che vogliono esprimere in tutti i sensi la loro eccentrica sensualità, sfiorando, con la vistosa muscolatura, quella sottile ambigiutà che le rende ancora più affascinanti e misteriose. Sono donne che osano spogliarsi completamente, senza pudore e senza compromessi, né inutili moralismi, fiere dei loro enormi corpi modellati che assurgono a prototipo di una moderna femminilità.
I seni sono spavaldi e rappresentano le frecce della loro stupenda giovinezza, che le rende simili alle irragiungibili stelle di Hollywood. Essi intonano un soave concerto ed ogni seno presenta una particolare vibrazione musicale che fuoriesce dal capezzolo, alcuni producono un suono delizioso e frivolo, altri danno luogo ad inflessioni acute e dissonanti, i più ampi le note alte, i più piccoli le note basse. Cercano disperatamente un abile direttore d’orchestra che, titillandoli dolcemente, ne sappia trarre una straziante melodia della carne, in un fantastico proscenio attraversato da sapienti sfumature di luci ed ombre.

fig. 3

Nel 1941 Tamara esegue Donna nel palco (fig.3), oggi in collezione privata a Berlino, una tela nella quale la perfezione tecnica si coniuga felicemente alla luminosità cromatica. I seni della giovane ed elegante signora sono celati quel tanto che basta ad eccitare il desiderio di scoperta degli uomini, i più grandi estimatori di un prodotto che non conosce crisi né saturazioni. Una prima all’Opera è un’occasione preziosa per signore e signorine, per mostrare sul mercato il più appetibile degli attributi femminili. Che profusione, che quantità, che ostentazione; tagli birichini e scollature abissali, sembra una gara per esibire allegramente il frutto proibito, pronto ad essere addentato e gustato. I seni che svettano orgogliosi nei palchi sono alteri e pomposi e quando sono molto affascinanti producono una strana vertigine negli uomini e qualcuno tra i più sensibili ed incauti è addirittura precipitato in platea, fracassandosi la testa. Giovani ed attempate li espongono con disinvoltura, producendo maldicenze e pettegolezzi infiniti: “La marchesa Tizio veniva incontro a tutti con una scollatura profonda, che evidenziava in maniera spettacolare le sue tette; la contessina Sempronio non era attenta allo spettacolo ed era unicamente impegnata ad offrirli a destra ed a sinistra; la manager Pinco li ostentava con più impudicizia della più lasciva delle meretrici ed infine la baronessa Pallino li esibiva sul vassoio del suo corsè e trascinava nel bacia mano gli uomini cerimoniosi ad un contatto ravvicinato nella profondità della sua scollatura”. Oltre sessanta dipinti arricchiscono la rassegna su Tamara, una donna fatale in anticipo di decenni sui suoi tempi, prototipo ed immarcescibile vessillifera dell’emancipazione femminile.

LA PINACOTECA DELLA COLLEZIONE PAGLIARA

Presso l’Università Suor Orsola Benincasa a NAPOLI


La pinacoteca, frutto di una donazione di un raffinato collezionista, musicista e poeta vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, Rocco Pagliara, è conservata presso l’Università Suor Orsola Benincasa e rappresenta uno dei tanti luoghi negati alla visita di Napoli, infatti, nonostante la presenza di circa 100 dipinti, alcuni di autori di rilievo internazionale, la raccolta è sconosciuta a napoletani e forestieri ed anche molti studiosi non hanno mai avuto l’opportunità di vederla. Assurdità di un’antica capitale, troppo ricca di tesori artistici da trascurare un programma di corretta fruizione che farebbe da volano alla rinascita culturale e turistica della città.
Manca anche un catalogo delle opere, perchè una vecchia pubblicazione, oramai rara a trovarsi, contiene troppe attribuzioni incerte o completamente stravolte dal progredire delle nuove acquisizioni. Il percorso si snoda in vecchie celle monacali e segue un itinerario cronologico dal Cinquecento all’Ottocento. Ogni ambiente è arredato con gusto con mobili ed oggetti coevi ai dipinti esposti e la visita, privilegio per pochi eletti, è una gioia per gli occhi e per lo spirito.
Ci accompagna la professoressa Penta, responsabile del museo, alla cui squisita disponibilità dobbiamo gran parte delle notizie sulle opere d’arte.
L’opera più importante della prima sala è senza dubbio una tempera su tavola di piccole dimensioni, ma di grande qualità, raffigurante le Stimmate di San Francesco, firmata e databile al 1570, eseguita da El Greco, celeberrimo pittore, durante il suo soggiorno a Roma. Sul retro il nome del committente, monsignor degli Oddi, appartenente ad una nobile famiglia perugina.
Altro autore straniero, di grande livello è Claude Lorrain, illustre paesaggista, presente con un piccolo tondo raffigurante Tobiolo e l’angelo. Una scoperta della professoressa Penta, che ci ha segnalato il pendant in collezione Longhi a Firenze. Molto bella anche una Madonna col Bambino e san Giovannino, firmata e datata 1601, che ci permette di conoscere un abile quanto sconosciuto pittore tardo manierista: Andreas Arjecurt.
Nella sala successiva ci accoglie una splendida tela di grandi dimensioni, una Sacra famiglia, attribuita a Francesco Fracanzano, intorno al 1635, una data importante per la pittura napoletana, che cominciò da allora a risentire della rivoluzione cromatica tendente ad addolcire il chiaro scuro caravaggesco. Il dipinto, a nostro parere, va assegnato a Cesare Fracanzano per le stringenti analogie con i suoi due quadri, firmati, conservati al Pio Monte della Misericordia.
Di estremo interesse anche una Vanità e Saggezza, assegnata in passato ad Angelo Caroselli, caravaggista convertito poi al classicismo romano; in seguito il Bologna ha pensato ad Antiveduto della Grammatica, pittore toscano tardo manierista divenuto poi convinto caravaggesco, attivo nella nostra città nel secondo decennio del XVII secolo nel convento dei Camaldoli. Le ultime acquisizioni sull’artista hanno però escluso l’autografia di molte delle opere conservate a Napoli che gli venivano attribuite e questa circostanza invita alla riflessione sulla paternità della tela in esame.
Una Santa Cecilia contornata da angeli, attribuita nel vecchio catalogo ad ignoto artista, suggestionato dai modi di Lorenzo Vaccaro è senza dubbio opera del Vaccaro, ma di Andrea naturalmente.
Vi è poi un David vincitore festeggiato dalle ragazze ebree, assegnato in passato al Fracanzano e più recentemente al Maestro degli Annunci ai pastori, pur mancando del suo caratteristico “tremendo impasto”. Per quanto di eccellente qualità è più opportuno che rimanga nel limbo degli ignoti, anche se di lusso.
Tra i capolavori, noti da tempo agli studiosi, svetta uno dei migliori dipinti giovanili di Bernardo Cavallino: Ester ed Assuero, definito da Raffaello Causa “un’aulica scena di seduzione cortese” e collocato cronologicamente dal De Rinaldis intorno al 1642; viceversa, la padronanza nel trattamento cromatico con il prevalere della tonalità scura e la distribuzione delle figure in fila su uno sfondo architettonico, indicano una esecuzione antica, verso la metà degli anni Trenta. Il dramma e l’emotività, la dolcezza estenuata ed il tenero languore, caratteristiche patognomoniche di questo raffinato artista sono il fulcro attorno al quale scorre la composizione, che fissa il culmine della narrazione nel momento dello svenimento di Ester al cospetto del re Assuero.
Di Luca Giordano si conserva il bozzetto per la pala della chiesa del Rosariello alle Pigne, animata da colori brillanti e luminosi, derivati dall’arte del Baciccio. L’opera del 1692, secondo il Giannone fu eseguita nel corso di una sola notte, leggenda che concorse alla fama della rapidità giordanesca, da cui il nomignolo di Luca fa presto. La Madonna è raffigurata come una statua portata in processione, una idea berniniana, bizzarra ed originale che fu ripresa da altri pittori nel secolo successivo.
La sala dedicata alla natura morta contiene dipinti settecenteschi di mediocre qualità e quasi tutte le attribuzioni tradizionali sono azzardate, in particolare le tele assegnate a Francesco Fioravino, detto il Maltese, sono certamente di un modesto seguace. Il Settecento è rappresentato degnamente con molti artisti famosi da Leonardo Coccolante, presente con cinque tele, alcune molto belle, autografe, altre di bottega, a Francesco Liani, che ritrae, nel 1758, un rampollo della nidiata Borbone (per vedere fratelli e sorelle recarsi al museo Campano di Capua). Vi è poi un autoritratto di Paolo De Maio ed una pittrice, Agnese la Corcia, che ritrae il cavalier Tagliafanti. Orazio Solimena che, influenzato dal Traversi, ci fornisce un potente ritratto di nobildonna, affetta da artrite reumatoide, e Giuseppe Bonito, che immortala il volto rubizzo e rubicondo di Niccolò Jommelli. Tra gli ignoti, l’artista autore di re Ferdinando, è, senza ombra di dubbio, il sorrentino Carlo Amalfi, mentre la scena carnascialesca è vicina ai modi pittorici del Celebrano. Infine un’altra

Ignoto - Venere

pittrice, Angelica Kauffmann, ritrattista di corte, che imprime un tocco di delicatezza alle sembianze della regina Carolina.
Tra le statue, una Venere di ignoto, dal sorriso accattivante e dalle terga poderose. La collezione Pagliara possiede numerosi artisti ottocenteschi, da Corot a Gigante, da Morelli a Vinelli, oltre a Mancini, Vetri, Dalbono, Toma e tanti altri, ma al momento non vi è niente in mostra, ad eccezione di un espressivo ritratto di Gaetano Forte, un salernitano in grado di operare una profonda introspezione psicologica sui soggetti da lui raffigurati.
La pinacoteca Pagliara è, come abbiamo visto, uno scrigno prezioso, nascosto a studiosi e visitatori, che merita di essere valorizzato, perchè può costituire un fiore all’occhiello del panorama museale napoletano.

domenica 4 marzo 2012

MOSTRA DI TIZIANO



articolo pubblicato mercoledì 22 marzo 2006 su: "scena illustrata"

La mostra su Tiziano, che si inaugura a Napoli il 24 aprile, si preannuncia come la più importante della stagione per il numero e la qualità delle opere esposte. Non soltanto un’antologica sul sommo pittore veneziano, ma anche una rassegna sul ritratto storico da Raffaello ai Carracci. Poco meno di 100 i dipinti esposti provenienti dai più prestigiosi musei del mondo, tra i quali numerosi per la prima volta in Italia.
Ed a confermare lo spessore internazionale dell’esposizione basta sapere che in autunno essa si trasferirà a Parigi al museo del Luxembourg. Alle grandi mostre i napoletani sono oramai abituati, da quando il compianto sovrintendente Raffaello Causa cominciò a portare nel mondo il nome della nostra città e del nostro illustre passato figurativo con le memorabili Civiltà del Seicento e del Settecento. Il testimone ereditato da Nicola Spinosa è stato tenuto ben alto e lentamente i turisti hanno imparato che Napoli non è solo Scampia o Secondigliano, con la loro cieca violenza ed il loro disperato degrado, ma anche le ampie sale del museo di Capodimonte con i loro tesori, gioia per gli occhi e per lo spirito, documento e testimonianza di un glorioso passato.
Tiziano è uno dei più grandi pittori di tutti i tempi, presente in grande evidenza nei musei di tutto il mondo, straordinario ritrattista e fautore di una rivoluzione cromatica alla quale si sono abbeverati per secoli generazioni di artisti. Vissuto quasi novanta anni ed operoso fino alla fine dei suoi giorni, ha prodotto una notevole quantità di quadri, di qualità quasi sempre molto alta e quando un Tiziano non è bello non è lui l’autore, come nel caso del ritratto di Pier Luigi Farnese col cappello, conservato a Palazzo Reale, che, ostinatamente, viene ancora ritenuto autografo.

Paolo III

Proveniente dall’eredità che Carlo di Borbone ereditò dalla madre Elisabetta Farnese, la nostra pinacoteca possiede un cospicuo nucleo di suoi dipinti, che costituiscono lo zoccolo duro della rassegna, dal memorabile ritratto di Paolo III e dei suoi nipoti, che troneggia solenne nella grande sala Tiziano, un colloquio senza parole frutto di una serrata indagine dell’animo umano trasferita sulla tela, alla sensuale Danae, restituita di recente da un accorto restauro allo splendore dei suoi colori originali.

Allocuzione del marchese del Vasto alle truppe

Tra i capolavori in arrivo da altri musei segnaliamo la Flora, proveniente dagli Uffizi, dalla sfolgorante bellezza e dalla palpabile carica erotica, che costituisce il logo della mostra e la copertina dell’esaustivo catalogo, il ritratto dell’antiquario Jacopo Strada dal Kunsthistoriches di Vienna, una spietata introspezione psicologica di un mestiere al quale è legata la stessa attività di ogni artista, il celebre autoritratto di Tiziano, già vecchio, prestito della Gemaldegalerie di Berlino, l’Allocuzione del marchese del Vasto alle truppe, dal Prado, che ci restituisce l’immagine solenne di uno dei più famosi nobili napoletani, Alfonso d’Avalos, che mostrò il suo valore nella battaglia di Pavia. Ed inoltre, vanto del Louvre, il Francesco I, protagonista assoluto della politica europea della prima metà del Cinquecento, re di Francia dal 1515 al 1547 ed il ritratto di gentiluomo, proveniente dall’Alte Pinakothek di Monaco, dominato da un sofisticato gioco di contrasti tra luci ed ombre, in grado di evidenziare lo stato d’animo e gli stessi pensieri dell’effigiato.

Galeazzo
Oltre alle tele di Tiziano si svolge una monografica sul ritratto di corte da Raffaello ai Carracci ed è l’occasione di ammirare, in rapida successione, l’opera di artisti più o meno noti, da giganti come Sebastiano del Piombo, El Greco, il Ghirlandaio, il Tintoretto, il Parmigianino, il Pontormo e tanti altri, a pittori meno noti ma non meno abili, come Pietro Negroni, presente con un incisivo ritratto di giovane della Galleria Borghese o Wenzel Cobergher, un fiammingo a lungo attivo a Napoli, che ci fornisce l’immagine di uno sconosciuto cardinale, dal volto emaciato e dal prepotente pallore, indagato con un realismo sconcertante.

Flora
Non mancano pittrici come Sofonisba Anguissola e Lavinia Fontana, rare esponenti di un momento storico in cui la penna poteva a volte essere femmina, ma il pennello doveva essere maschio.
Anche in questa mostra nella mostra vi è un nucleo importante di quadri normalmente esposti a Capodimonte, ma purtroppo i napoletani sono pigri e tanto ricchi di opere d’arte, nelle chiese e nei palazzi, che si recano al museo solo in occasione di grandi eventi e così perdono l’occasione di ammirare tante opere che tutto il mondo ci invidia.
Per questa straordinaria occasione proponiamoci di avvertire i nostri parenti ed i nostri amici fuori Napoli ed invitiamoli a visitare l’importante rassegna. Faremo un favore a loro, che potranno godere di quasi cento splendidi dipinti ed alla nostra sfortunata città, la quale ha disperato bisogno di un presentabile biglietto da visita.

IL SENO NELLA PITTURA DEL RINASCIMENTO


In epoca moderna, a partire dal XV secolo, gli artisti, dopo i secoli di buio oscurantismo medioevale, non hanno mai cessato di interessarsi al seno femminile nelle sue svariate sfaccettature: scoperto o maliziosamente velato, innocente o peccaminoso, pubblico e privato, disponibile e proibito, senza tener conto delle forme e dei gusti anatomici, che nel tempo hanno subito sostanziali variazioni.
Dal seno efebico a quello prorompente, dalle forme opulente ed ipercolesterolemiche, glorificate nel Cinquecento e nel Seicento, ai seni a goccia o a pera, cari sia ai pittori pre-rinascimentali che alle avanguardie del Novecento. Una carrellata affascinante alla ricerca di una chiave di lettura, di una impossibile quadratura del seno, l’instabile oggetto del desiderio nel quale, pittori e scultori di ogni tempo hanno travasato le follie, i sogni, le ossessioni, i giochi fantastici, i pensieri di milioni di uomini, ansiosi di trovare una impossibile risposta alle loro ansie ed alle loro chimere.

Jean Fouquet: Madonna col Bambino


Jean Fouquet, uno dei massimi protagonisti del fecondo dialogo tra Settentrione e Mezzogiorno che domina la pittura europea del Quattrocento, ci dà una interpretazione della Madonna col Bambino maliziosa ed innocente nello stesso tempo, nella tavola oggi ad Anversa nei Musees Royaux des Beaux Arts. La sferica mammella sinistra della Vergine, che fuoriesce generosa, debordando dall’abito, richiama a viva voce i seni siliconati di una chirurgia estetica di basso rango, ma, stupefacente, è carne vera, che si mostra impudica all’osservatore con la silenziosa approvazione degli angeli, dipinti di un rosso fuoco, incerti tra incredulità e stupore. L’artista, che dipinge nel 1450, ben prima dei furori iconografici controriformisti, riproduce nei tratti della Madonna il viso e la bellezza devastante di Agnes Sorel, la favorita di Carlo VII, morta giovanissima in quello stesso anno.


Piero Di Cosimo: ritratto di Simonetta Vespucci


Piero Di Cosimo, segna il passaggio della pittura toscana dal primo Rinascimento al Cinquecento. Artista dalla precisione fiamminga e dalla fertile vena creativa nel ritratto di Simonetta Vespucci, eseguito nel 1480, oggi nel museo Condè a Chantilly, ci offre un seno lieve, pallido, appena accennato, sul quale striscia minaccioso un elegante serpente, già presago della prossima prematura morte della bellissima fanciulla, dal fascino misterioso e dalla profonda malinconia, accentuata dallo studiato effetto di contrasto della nube scura che incornicia il volto, dominato da una splendida quanto preziosa acconciatura.

Hans Memling: Betsabea al bagno

Pochi anni dopo Hans Memling, campione nordico della pittura a carattere religioso e devozionale, si confronta e lo farà una sola volta con il nudo femminile nella Betsabea al bagno, conservata a Stoccarda nella Staatgalerie. Il dipinto è uno dei rarissimi esempi di nudo muliebre nella pittura neerlandese del Quattrocento e come tale ha risvegliato l’interesse degli studiosi. Il Memling, rifacendosi ai raffinati modi pittorici del van Eyck, ha impresso un vivace senso di movimento alla figura della donna dai contorni di un’astratta bellezza. L’incarnato lucentissimo, alabastrino ci dà l’idea del marmo, ma di una marmo caldo, palpitante di vita e di desiderio. I seni sembrano assecondare la descrizione ideale che Ugo de Fouillot, celebre cantore della bellezza femminile ne fece in un suo sermone di commento al Cantico dei Cantici:” belli sono infatti i seni che sporgono di poco e sono modicamente tumidi...trattenuti, ma non compressi, legati dolcemente senza che ondeggino in libertà”.

Lucas Cranach il vecchio:Venere ed Adone

Nel 1506, ad inizio secolo, Lucas Cranach il vecchio, sensibile interprete della pittura rinascimentale tedesca, ritorna sul tema di Venere ed Adone, già trattato altre volte, ma in questa tela, conservata a Roma nella Galleria Borghese si esprime ad un livello qualitativo mai più raggiunto. L’iconografia è tratta dal mondo pagano, una miniera inesauribile per gli artisti ansiosi di sovrapporre alla narrazione il motivo del nudo, che prima di Cranach nella pittura tedesca era stato affrontato soltanto dal Durer.

Nei primi anni del XVI secolo l’ideale di bellezza era legato ai principi di proporzione ed armonia, certamente infranti dall’artista, che ci offre una Venere anticonformista, dalle gambe lunghissime e slanciate e dal corpo impudicamente esposto, mentre un velo ai limiti della trasparenza e leziosamente tenuto dalla dea tra le mani accentua maggiormente lo splendido corpo, al quale fa da corona un elegante cappello, calzato con spavalderia. Il seno, appena accennato e pur solenne, gotico, di vichinga altezzosità risplende nel biancore dell’incarnato porcellanato ed ammicca maliziosamente l’osservatore, incurante dello sguardo innocente dell’amorino, che ai suoi piedi le reca in dono un favo di dolcissimo miele.

Venere del Giorgione

Il Cinquecento inaugura la spettacolare serie delle Veneri nude con la più sensuale e misteriosa delle creazioni del Giorgione, il quale, nel 1509, ci fa dono dell’ immagine immortale di una placida fanciulla che sogna e ci fa sognare. Il quadro, conservato nella Gemaldegalerie di Dresda, ci mostra la novella Venere, dalle forme tornite ed appetibili, immersa in un ampio e tranquillo paesaggio, con il corpo ignudo spavaldamente esposto, ad eccezione del pube, dove poggia guardingo il palmo della mano. Il volto sereno, senza ombra di turbamento, irradia una serena beatitudine, mentre la ragazza è teneramente abbandonata nel sonno e si identifica con la calma serafica della natura circostante, ma sembra felice di poter essere contemplata, orgogliosa del suo seno sapientemente offerto, grazie al braccio poggiato con astuzia dietro la testa, che amplifica ed innalza i carnosi pomi dorati con le deliziose ciliegine.


Venere del Tiziano

Alla Venere del Giorgione fa eco la Venere del Tiziano, tra i capolavori dell’artista, realizzata nel 1538 e conservata a Firenze nella Galleria degli Uffizi. Uno splendore di carni sanamente nude ed un anelito a fissare per l’eternità un archetipo di bellezza fisica femminile, in un periodo storico impregnato di un simbolismo neoplatonico, che affonda le sue radici in una rilettura ficiniana della mitologia. Non più l’ideale divinizzato del Botticelli, che, succube dei deliranti sermoni del Savonarola, ritiene che la bellezza risplenda tanto più luminosamente quanto più si avvicina alla bellezza divina, bensì l’esaltazione di una donna vera, libera ed appagata, resa con colori vividi, ambrati. Una dorata e morbida beatitudine, folgorata da improvvise accensioni di luce e penetranti bagliori, che il malizioso pennello del pittore imprime nella tela con felicità. Lo sguardo languido sembra invitare lo spettatore a godere, con la vista e la più sfrenata fantasia del giovane corpo, nel quale due piccoli seni rifulgono come due boccioli di rosa, impalpabili ed esposti con orgoglio all’ammirazione.

Palma il Vecchio: donna discinta

A metà secolo, nell’arco di pochi anni, vediamo all’opera sul tema del nudo femminile alcuni degli artisti più illustri, da Palma il Vecchio al Bronzino, fino allo stesso Raffaello. Il primo divise con Giorgione e Tiziano l’onore e l’onere di modernizzare e rigenerare l’arte veneziana, portando a saturazione alcuni temi del primo Cinquecento. Le sue donne sono creature floride, matronali, fulgide e ci appaiono sempre come se si trovassero davanti ad uno specchio, in contemplazione soddisfatta e vana di se stesse, bandiere senza anima di una bellezza rigogliosa. Nel ritratto di donna discinta del museo Poldi Pezzoli di Milano l’artista entra in sintonia con le esuberanti forme anatomiche della modella, nell’abbondanza delle straripanti chiome biondo rossastro, delle morbide carni, delle soffici vesti, che lambiscono il seno e pare vogliano accarezzarlo. I capelli, foltissimi, sono di quel biondo tiziano che vira verso il rosso, una tonalità di colore di gran moda a Venezia in quegli anni, ottenuta grazie a raffinate quanto segrete tinture La donna sembra voglia rappresentare solo se stessa in un delirio di narcisismo e desidera l’ammirazione delle sue curve opulente. Il seno, con malcelata malizia, diventa il punto focale della composizione con la camicetta che scopre e nasconde nello stesso tempo, eccitando l’occhio incantato dell’osservatore.

Bronzino: Allegoria di Venere

Il Bronzino fu un abile manierista e seppe interpretare perfettamente il gusto di un’aristocrazia vuota, circondata di fasto e di apparenza. I suoi personaggi erano studiati più nelle pose che nelle fisionomie e nei suoi ritratti, realizzati con una tavolozza fredda e disincantata, mescolava con rara abilità il soggetto mitologico con complesse allegorie, come nel suo capolavoro: un’Allegoria di Venere conservata alla National Gallery di Londra, un inno pagano, un cantico solenne all’amore lussurioso ed al pieno soddisfacimento dei sensi. La tela, databile al 1545 e destinata a Francesco I di Francia, è impregnata di un profondo simbolismo variamente interpretato dagli studiosi, ma, al di là dei sottintesi, prorompente è la carica di viva sensualità che gronda dal ritmico articolarsi delle spettacolari anatomie, che si intrecciano soggiogate dal desiderio, spinto fino agli estremi di un irrefrenabile erotismo. Il ritmo narrativo è filtrato dal frigido intellettualismo che sottende alla sottile dialettica del sentimento amoroso, cara alle dissertazioni pseudo filosofiche del Cinquecento, ma la forza erotica che promana potente dalla tela, vince ogni vana discussione allegorica, con il corpo della dea che anela a fondersi con l’irresistibile Cupido dal culetto protrudente, abile titillatore di zone erogene. Attorno al seno di Venere, ambiguamente abbracciata al suo stesso figlio, si compie il rito della seduzione e della più perfida lussuria, con il capezzolo turgido, eccitato dalla palpitante carezza del Cupido, il quale cerca nel bacio divino il premio per la sua consumata perizia di seduttore. I corpi di un incarnato lucente, porcellanato sono fissati per l’eternità in una raffinatissima sintesi scultorea, che bene esprime l’acme della voluttà.

Un insuperato capolavoro dell’erotismo e della potente carica di seduzione del più fascinoso attributo femminile.

giovedì 1 marzo 2012

Sanremo impazza. I neomelodici stravincono



Mentre il Festival di Sanremo conquista audience, le tristi canzoni dei neomelodici napoletani raggiungono record nelle vendite, ma soprattutto apici nelle visualizzazioni su YouTube superiori a quelli delle star nazionali.
Considerati dalla critica cantanti di periferia, provinciali, hanno viceversa un bacino di ascolto vastissimo, che comprende non solo la Puglia e la Calabria, la Lucania e la Sicilia, antichi possedimenti del Regno di Napoli, ma trovano fans anche tra tanti ragazzi romani e milanesi di origine meridionale.
Nei quartieri popolari dilagano dai bassi con le radio al massimo volume, spandendo allegria tra i vicoli e costituiscono spesso la base delle suonerie dei cellulari.
I manager, che hanno tra le mani un mercato di decine di migliaia di euro, hanno superato astutamente anche il problema delle falsificazioni, invadendo direttamente il mercato con copie pirata. 
Le loro canzoni, trasmesse a ritmo continuo sulle radio libere, compaiono con il numero di telefono dell’interprete o del suo agente, così da poter facilmente essere ingaggiati per comunioni, matrimoni e feste di paese, con cachet da fare invidia alle più note popstar.
I loro testi raccontano il quotidiano: sentimenti, amore, tradimenti, temi universali, facilmente condivisibili dalla gente del popolo.
Alla base delle loro tematiche vi è l’esaltazione del consenso e della violenza, con eroi, che entrando nella camorra ne accettano le ferree regole di una consorteria in lotta contro la legalità ed il potere dello stato.
Tra le canzoni più antiche del repertorio malavitoso la più celebre è “Guapparia”, seguita da Mario Merola con la sua “Serenata calibro 9”, che ha avuto anche una fortunata versione cinematografica.
In epoca recente molte melodie hanno affrontato il tema della latitanza e dei pentiti, descritti come il male assoluto da combattere con ogni mezzo.
Lisa Castaldi in “Femmina d’onore” tratta il ruolo assunto dalle donne nella camorra, mentre Gianni Vezzosi ci fornisce un ritratto reale quanto spietato del killer.
Da questi cantanti dai capelli colorati, dal petto depilato e dal volto sempre abbronzato si potrà pure sorridere, ma dai loro testi, intrisi di malinconia e di esaltazione, si può apprendere della napoletanità più che da decine di editoriali scritti da giornalisti paludati ma spesso poco informati. 

O’ killer
Accomencio a ‘jurnata
facenn male
a chesta città.
‘Ncopp a motocicletta
co’ casco mise
e pronto a ‘ sparà,
u’ sang fridd
e senza pietà
me siente stanco
bastardo e perduto già
(Gianni Vezzosi)

Il mio amico camorrista
E’ n’ ommo
chine e’ qualità,
che ca’ paura
e co’ curaggio
a braccetto se ne và.
Rischia vita e libertà
ma’ pa’ gente
e miezz’a’ via 
na carezza nun ce stà
(Lisa Castaldi)