venerdì 6 settembre 2013

LO CHIAMAVANO TRINITA’

Bud Spencer

Bud Spencer (il cui vero nome è Carlo Pedersoli), nasce a Napoli il 31 ottobre 1929 da famiglia benestante: il padre era un uomo d'affari che, malgrado i numerosi tentativi, non riuscì ad acquisire una vera ricchezza a causa soprattutto delle due guerre mondiali che influirono non poco sull'andamento dei suoi affari. Bud Spencer ha anche una sorella, Vera, anch'essa nata a Napoli.
Nel 1935 il piccolo Carlo frequenta le scuole elementari della sua città, con buoni risultati. Appassionato di sport, pochi anni dopo diventa membro di un club locale di nuoto, vincendo subito alcuni premi.
Nel 1940 la famiglia Pedersoli lascia Napoli per affari e si sposta a Roma. Il padre ricomincia da zero. Carlo inizia le scuole superiori ed entra contemporaneamente in un club di nuoto romano.
Completa gli studi con il massimo dei voti. Non ancora diciassettenne, passa un difficile esame all'Università di Roma e comincia a studiare Chimica. Nel 1947, però, i Pedersoli per ragioni di lavoro, si spostano in Sud America e Carlo è costretto a lasciare l'Università. A Rio lavora ad una catena di montaggio, a Buenos Aires come bibliotecario, ed infine come segretario all'ambasciata italiana in Uruguay.
Un club di nuoto italiano lo reclama a gran voce e Carlo torna in Italia, diventando campione italiano di nuoto a rana. In quegli anni (tra la fine degli anni '40 e l'inizio dei '50) vince il campionato nei cento metri stile libero ed è il primo italiano ad abbattere la soglia del minuto. Deterrà il titolo fino alla fine della carriera.
Carlo Pedersoli non dimentica però gli studi e si iscrive nuovamente all'Università, questa volta alla facoltà di Giurisprudenza. Contemporaneamente, per caso, gli si presenta la possibilità di entrare a far parte del mondo del cinema, grazie al suo fisico possente e scultoreo. Ha così modo di recitare per la prima volta in un film di produzione hollywoodiana, il celebre "Quo Vadis", nel ruolo di una Guardia Imperiale.
Intanto, nel 1952 partecipa alle Olimpiadi di Helsinki  e con la squadra di pallanuoto diviene campione europeo.
Dopo le Olimpiadi, con altri promettenti atleti viene invitato alla Yale University. Passa alcuni mesi negli Stati Uniti e  quattro anni dopo,  alle  Olimpiadi di Melbourne,  raggiunge un rispettabile undicesimo posto.
Dotato di una volontà di ferro, malgrado tutti questi numerosi impegni, riesce a laurearsi in Legge. Da un giorno all'altro decide però di cambiare vita, non sopportando più i massacranti e monotoni allenamenti in piscina.
Raggiunge il Sud America e, rivoluzionando davvero tutto il suo mondo e le sue priorità, lavora per nove mesi per una impresa americana intenta in quel periodo a costruire una strada tra Panama a Buenos Aires (strada diventata poi famosa come  "Panamericana"). Dopo questa esperienza, trova un altro lavoro per una ditta automobilistica di Caracas, fino al 1960 quando ritorna a Roma. Qui sposa Maria Amato, di sei anni più giovane, conosciuta quindici anni prima. Nonostante il padre di Maria sia uno dei più affermati produttori cinematografici italiani, Bud inizialmente non è interessato al cinema. Firma invece un contratto con la casa musicale RCA e compone canzoni popolari per cantanti italiani. Scrive anche qualche colonna sonora. L'anno dopo nasce Giuseppe, il primo figlio, mentre nel 1962 arriva la figlia Christiana. Due anni più tardi scade il contratto con la RCA e muore il suocero. Carlo è spinto a buttarsi negli affari, producendo documentari per la RAI italiana.
Nel 1967 Giuseppe Colizzi, suo vecchio amico, gli offre un ruolo in un film. Carlo accetta, dopo qualche esitazione. Suo partner di lavoro sul set è uno sconosciuto Mario Girotti, in procinto di diventare per il mondo il ben noto Terence Hill, scelto per sostituire Peter Martell (Pietro Martellanza) vittima di un incidente a cavallo durante alcune riprese. Il film è "Dio perdona... io no!", la prima pellicola di quella che diverrà la coppia più spassosa e divertente per questo nuovo genere western.
Le due star, però, nelle presentazioni in locandina, cambiano i nomi, considerati troppo italiani per la provinciale Italia di allora. Per fare colpo, per rendere più credibili film e personaggi, ci vuole un nome straniero ed ecco allora che Carlo Pedersoli e Mario Girotti diventano Bud Spencer e Terence Hill. Il cognome è scelto dallo stesso Carlo, che da sempre è un fan sfegatato di Spencer Tracy. "Bud", invece, che in inglese significa "bocciolo", è scelto per puro gusto goliardico, ma si intona perfettamente alla sua corpulenta figura.
Nel 1970 la coppia gira "Lo chiamavano Trinità", con la regia di E.B. Clucher (Enzo Barboni), un vero e proprio "cult" che non solo ebbe un enorme  successo in tutta Italia, ma è ancora oggi replicato sulle televisioni nazionali, sempre con ottimi indici di ascolto, a testimonianza dell'amore e del gradimento che il pubblico manifesta per i due. A detta degli storici del cinema, questo divertente western (a dispetto del titolo, si tratta di una spassosa commedia ambientata nel west che prende un po' in giro gli stereotipi del genere), segna la fine dei brutali "Spaghetti-western" precedenti.
L'anno successivo la consacrazione assoluta arriva con il seguito del film; "...Continuavano a chiamarlo Trinità", sempre con la regia di E.B. Clucher, che sbanca i botteghini del cinema europeo. Ormai Bud Spencer e Terence Hill sono vere e proprie star internazionali.
Finita l'ondata western, c'è il pericolo che la coppia non sfondi in altri generi cinematografici, ma presto questa ipotesi viene smentita e, tra il 1972 e il 1974, con "Più forte ragazzi", "Altrimenti ci arrabbiamo" e "Porgi l'altra guancia" di nuovo sono ai primi posti dei film visti nelle sale cinematografiche italiane.
Nel 1972 nasce Diamante, la seconda figlia di Bud che l'anno dopo gira il primo film della serie "Piedone lo sbirro", nato da una sua idea (Bud Spencer collaborerà alla stesura di tutti gli episodi seguenti).
Fra le varie passioni dell'attore c'è anche il volo (nel 1975 ottiene una licenza di pilota per l'Italia, la Svizzera e gli Stati Uniti), ma c'è anche la mai dimenticata canzone. Nel 1977, per il suo film "Lo chiamavano Bulldozer", scrive alcune canzoni: tra queste, una è cantata da lui stesso.
A sei anni di distanza dal successo dei due Trinità, Bud e Terence ritornano ad essere diretti da E.B. Clucher nel film "I due superpiedi quasi piatti", riscuotendo un buon successo di pubblico, mentre negli anni seguenti girano altri due film insieme: "Pari e Dispari" e il mitico "Io sto con gli Ippopotami" del compianto Italo Zingarelli.
Dopo vari progetti andati a vuoto per far riunire la coppia, Bud Spencer e Terence Hill si ritrovano sul set diretti dallo stesso Terence Hill per un altro western: "Botte di Natale", che non riesce a rinverdire i vecchi fasti.
Nel 1979 Bud Spencer ottiene il premio Jupiter come star più popolare in Germania, mentre nel 1980, a circa dieci anni di distanza dall'ultimo film western, torna al vecchio genere con il film "Buddy goes West".
La sua ultima pregevolissima interpretazione risale al 2003, nel film "Cantando dietro i paraventi" di Ermanno Olmi.
Nel 2010 ha pubblicato la sua biografia ufficiale, intitolata Altrimenti mi arrabbio: la mia vita, scritta con Lorenzo De Luca, già sceneggiatore in tre dei suoi serial-TV summenzionati, e curata dal biografo David De Filippi. Nel 2011, per il mercato tedesco, ha pubblicato la seconda parte della biografia,  ancora in collaborazione con Lorenzo de Luca.






LA VOCE DELLA PROTESTA

Antonio Lubrano

Antonio Lubrano, nato a Procida nel 1932, è un giornalista e conduttore televisivo molto noto ed apprezzato dal pubblico.
Professionista dal 1955, ha collaborato a diversi quotidiani e settimanali: Il Giornale, Il Giornale d’Italia, Oggi, Radiocorriere TV, TV Sorrisi e Canzoni, Il Mattino.
Dal 1987 ha curato Diogene, rubrica del Tg2 che metteva in guardia contro truffe e raggiri, antesignana della storica trasmissione di Rai3 Mi manda Lubrano, divenuta in seguito Mi manda Rai3.
Dal 2000, su Rai2, è tra gli autori e presentatori di Mattina in famiglia mentre per Rai1 conduce il programma di musica lirica, sua grande passione, All’opera. 
Nel 2004, con Pomeriggio di luglio, vince il Premio Cimitile. Nel marzo 2007 crea un blog dal titolo Lubrano risponde, nel quale risponde alle domande dei cittadini a proposito di problemi burocratici, diritti negati ed ingiustizie. 
Lubrano, che non ha perso l’accento napoletano ed ha un modo di gesticolare tipico dei suoi conterranei, è stato oggetto di molte simpatiche imitazioni tra le quali spicca quella di Neri Marcorè: ormai, tutti quelli che desiderano imitarlo, iniziano con l’ormai proverbiale “Salve!” e “La domanda sorge spontanea”.
Oltre al già citato Pomeriggio di luglio, Lubrano è stato autore di: 
Pronto, Diogene? Quando la Tv è dalla parte del cittadino, Milano, A. Mondadori 1990
Boccarriso, Napoli, Guida, 1991
Tranelli d’Italia. Viaggio semiserio nel paese più truffaldino del mondo, Milano, Sonzogno, 1993
Il tornaconto 1995. 365 giorni per vivere meglio e spendere meno, Milano, A. Mondadori, 1994
Consumario. Il dizionario dei consumi, con Anna Bartolini, Milano, Baldini & Castoldi,
Ci vorrebbe un’amica. La banca si offre. Ma lo è davvero? Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007
Falpalà. Favole per adulti, Napoli-Roma, Guida-RAI-ERI, 2007
Guida ai consumi contro la crisi. Dalla A alla Z, con Vauro, Chieri, Nuova Giudizio Universale, 2010
Più volte ho avuto il piacere di avere da Lubrano una risposta dettagliata alle mie lettere quando curava una rubrica settimanale su Il Mattino di Napoli.



martedì 3 settembre 2013

LA BAD GIRL DELL’ARTE


Betty Bee

Betty Bee, al secolo Elisabetta Leonetti, può essere considerata, tra le signore dell’arte, una provocatrice, una bad girl, ironica, bella e dannata.
Pittrice e scultrice, ma in grado di esprimersi anche con video e foto, considera l’arte una forma di terapia.
Si è avvicinata alla ricerca espressiva per dare corpo ed anima a fantasie e desideri repressi, sempre nel segno dell’esibizionismo, per dimenticare un’infanzia infelice.
Un incontro fondamentale fu per lei quello con Luca Castellano che, facendo capolino tra le riunioni del gruppo degli Sfrattati, la conobbe, vide alcuni suoi lavori e le propose di partecipare ad una mostra dal titolo “La città del monte”, che stava organizzando. 
Era il 1991 e la nostra Betty era presa dall’esigenze del quotidiano per far quadrare pranzo e cena per lei e le sue figlie. Gelosa dei suoi primi lavori, se qualcuno chiedeva di poterli vedere, provava imbarazzo come se dovesse mettere a nudo la sua anima.
Decise di partecipare alla mostra cui era stata invitata presentando la foto del seno procace di un’amica, sul quale aveva dipinto il Vesuvio, simbolo della città di Napoli.
L’idea colpì i galleristi Raucci e Santamaria con i quali ha collaborato per dieci anni.
Il suo nome non era ancora quello di Betty Bee: lo pseudonimo glielo consigliò, nel 1993, Angelo Calabrese che, vedendo i suoi lavori e, soprattutto, come organizzava la vita con le sue figlie, le confidò che l’impressione era quella di parlare con un’ape.
Comincia ora una dimensione internazionale con esposizioni al Chelsea 
Art Museum di New York ed un soggiorno in India, dove si esprime costantemente su una tematica scottante: la violenza domestica sulle donne.
Suscita l’interesse d’importanti collezionisti come Stefano Gabbana, Diego Della Valle, Mario Testino fino all’incontro decisivo con Achille Bonito Oliva  che la porta con sé alla Biennale di Valencia, alla Certosa di Padula per gli Annali dell’Arte e favorisce la collocazione di una sua opera ad adornare la stazione Quattro Giornate della nuova metropolitana di Napoli.
L’esperienza a Nuova Delhi è fondamentale perché la denuncia della violenza sulle donne costituisce ora il filo conduttore delle sue creazioni, indipendentemente dal mezzo espressivo: fotografia, pittura, scultura, video, installazioni, performance, che varia secondo la sensibilità del momento.
Solo in pittura predilige ritrarre fiori e paesaggi, una metafora della sua necessità di protezione, che le fa considerare l’arte come una forma di terapia.
Attaccata alla sua città, se proprio dovesse trasferirsi, sceglierebbe Londra, città internazionale dove, è certa, il suo lavoro avrebbe ben altra considerazione e forse potrebbe ripetersi il suo sogno: una mostra assieme al suo idolo Matt Collishaw, con il quale ebbe già l’onore di un incontro nella galleria di Raucci e Santamaria.

Betty Bee fotografata da Aristide Gagliardi


UNO SCRITTORE CRISTIANO

Mario Pomilio

Mario Pomilio, grande giornalista e scrittore, ingiustamente dimenticato, nacque ad Orsogna (Chieti) nel 1921 e si spense a  Napoli nell’aprile del 1990 dopo una lunga malattia.
Trascorse l'infanzia prima ad Orsogna e poi ad Avezzano dove frequentò il liceo classico. Nel 1945 si laureò in Lettere, alla Scuola Normale di Pisa, con una tesi sulla narrativa di Luigi Pirandello. Proseguì i suoi studi all’estero specializzandosi nelle università di Bruxelles e Parigi. Ebbe, infine, la nomina come insegnante di Lettere in un liceo napoletano.
Un breve soggiorno a Teramo, in veste di Commissario agli Esami di Stato, gli ispirò il suo primo romanzo, L'uccello nella cupola, pubblicato nel 1954, che lo porrà subito all'attenzione della critica e del grande pubblico con la vittoria nel Premio Marzotto, opera prima. Ancora a Teramo sarà ambientato, dieci anni dopo, La compromissione, romanzo dal forte contenuto politico, non privo di contenuto autobiografico, che in qualche modo racconterà della sua crisi di intellettuale di sinistra di fronte alle vicende politiche del 1948; il romanzo accese un ampio dibattito che provocò l'intervento degli intellettuali degli opposti schieramenti. L'impegno politico lo portò anche ad un periodo di militanza nel Partito Socialista.
La conversione di Pomilio alla fede cattolica lo portò a schierarsi in politica su questo fronte. Va ricordato, al riguardo, che fu anche deputato al Parlamento europeo eletto come indipendente nelle liste della Democrazia Cristiana.
Intensa fu l'attività di saggista, critico e  storico della letteratura con la pubblicazione di studi su Italo Svevo, Luigi Pirandello, Benvenuto Cellini, Edoardo Scarfoglio.
Con Michele Prisco e Domenico Rea fondò a Napoli, nel 1960, la rivista Le ragioni narrative. Fu redattore del giornale Il Mattino di Napoli.
Nel corso della sua attività ricevette numerosi premi e riconoscimenti tra i quali, oltre al già citato Premio Marzotto “opera prima” del 1954, il Premio Napoli 1959 per Il nuovo corso e 1975 per Il Quinto Evangelio ed  i Premi Strega e Fiuggi 1983 per Il Natale del 1833.
Fu membro di numerose giurie di premi letterari.
Tra le sue opere più importanti ricordiamo:
L'uccello nella cupola, Milano, Bompiani, 1954; 
Il testimone, Milano, Massimo, 1956;
Il nuovo corso, Milano, Bompiani, 1959;
La compromissione, Firenze, Vallecchi, 1965;
Contestazione, Milano, Rizzoli; Il cimitero cinese, Milano, Rizzoli, 1969;
Il quinto evangelista, Milano, Rusconi, 1974;
Il quinto evangelio, Milano, Rusconi, 1975;
Il cane sull'Etna, frammenti d'una enciclopedia del dissesto, Milano, Rusconi, 1978;
Scritti cristiani, Milano, Rusconi, 1979;
La formazione critico-estetica di Pirandello, L'Aquila, M. Ferri, 1980;
Opere saggistiche di Mario Pomilio, L'Aquila, M. Ferri, 1980;
Il Natale del 1833, Roma, Gabriele e Mariateresa Benincasa, 1983;
Edoardo Scarfoglio, Napoli, Guida, 1989;
Una lapide in via del Babuino, con un saggio di Giancarlo Vigorelli, Milano, Rizzoli, 1991, (Avagliano Editore, Roma, 2002);
Emblemi, poesie 1949-1953, a cura di Tommaso Pomilio, Napoli, Cronopio, 2000;
Abruzzo la terra dei santi poveri, raccolta di scritti abruzzesi, a cura di Dora Pomilio e Vittoriano Esposito, L'Aquila, Ufficio stampa del Consiglio regionale dell'Abruzzo, 1997.
Quando la terza pagina dei quotidiani costituiva il fiore all’occhiello di un giornale, Pomilio  collaborò a lungo con Il Mattino, contribuendo al rapporto tra gli intellettuali e la città.
La più feconda parentesi di Mario Pomilio al quotidiano Il Mattino si colloca tra due dei suoi maggiori scritti cristiani a ridosso del suo romanzo capolavoro Il quinto evangelio (1975) ed alla vigilia della raccolta di saggi Scritti cristiani (1979). Era la fine degli anni Settanta e quell’ingresso  in redazione era il coronamento della sua affermazione come critico letterario, il critico redattore de Le Ragioni narrative, l’allievo di Battaglia.
 Pomilio era l’autore dei saggi militanti Contestazioni (1967), conosciuto anche per gli studi sul verismo e sul suo declino e, soprattutto, narratore pluripremiato con L’uccello nella cupola (1954), Il testimone (1956), Il nuovo corso (1959), La compromissione (1965) ed Il cimitero cinese (1969).
Recensore, editorialista, spesso coordinatore di una pagina ancora più specifica (che appariva a cadenza mobile) dal titolo Nel mondo della letteratura, era approdato in una testata che si fregiava di firme come Domenico Rea, Mario Stefanile, Clotilde Marghieri, Luigi Compagnone e tanti altri protagonisti della vita culturale napoletana e nazionale. Era ancora un giornalista esordiente che si cimentava, quasi inesperto, con la stampa quotidiana e mostrava un volto inedito, attento alla cultura partenopea e meridionale con una partecipazione che spesso acquisiva i toni della velata, e sempre discreta, polemica.
Tra gli autori più frequentemente trattati dal Pomilio giornalista, naturalmente Matilde Serao. In occasione del cinquantesimo anniversario della morte della scrittrice, appare una pagina monografica, dove, oltre ad un articolo di Aldo Vallone ed uno di Michele Prisco, a tre colonne domina l’intervento pomiliano. E’ una lettura della Serao attraverso la lente del Paese di cuccagna, opera che più rappresenta Napoli con l’insieme delle sue virtù e, se si vuole, dei suoi difetti.
A Il Mattino Pomilio è  il critico che scende nel suo tempo e nei suoi luoghi, ne legge le pieghe, ne cerca i sensi, ne interroga i destini. Molti gli articoli dedicati agli amici partenopei. Oltre al suo primo intervento su Prisco nel 1970, ricordiamo il ritratto di Mario Stefanile ad un anno dalla morte, apparso il 19 febbraio 1978. Del critico de Il Mattino, dell’intellettuale e saggista, Pomilio ama sottolineare il profilo di scrittore e, naturalmente, lo studioso e teorico della napoletanità «affrancata da ogni tradizionalismo cartolinesco e inserita in posizione di tutto rispetto nella geografia poetica del nostro secolo». Ad un altro amico caro come Luigi Incoronato dedica un ricordo che poi sarebbe confluito con il titolo Impegno, silenzio nel volume curato insieme a Compagnone, Prisco e Rea Luigi Incoronato quattordici anni dopo (1981). E’ un Incoronato insolito, che si affianca al più conosciuto scrittore del crudo realismo. Il racconto Le pareti bianche, alla luce della morte dell’autore, diventa metafora di una tentazione di morte che vi serpeggia. Non è un semplice profilo biografico: Incoronato è visto come “emblema” di una generazione: «Per paradossale che possa sembrare, dietro i suoi stessi esiti umani ed esistenziali, si configura quella medesima crisi letteraria che coinvolse la più parte dei narratori a lui coetanei, anche se poi lui fu il solo a scontarla così in fondo».
In questo linguaggio colloquiale, davvero insolito per il “normalista” Pomilio, si esprime il crinale anche autobiografico e questa pagina su Incoronato si fa, per Pomilio, autobiografia. Gli esempi da addurre potrebbero essere tanti. Qui basti osservare che Il Mattino ci restituisce il volto inedito, o almeno insolito, di un autore ancora dimenticato che ha patria a Napoli, si direbbe, molto più di quanto i suoi saggi in volume ed i suoi romanzi non mostrino. Il Mattino restituisce a Napoli un autore che è “suo”.
Mario Pomilio nel 1975 scrisse un breve ma suggestivo dramma intitolato Il Quinto Evangelista, testo poi raccolto con altri di genere diverso, ma tutti inerenti la riflessione sul cristianesimo e su Gesù, poi raccolti con il titolo Il Quinto Evangelo.
Apparentemente il dramma ricalca Processo a Gesù di Diego Fabbri ma i toni e lo svolgimento sono meno prevedibili dell'illustre precedente.
L'azione è ambientata nel 1940 in Germania. In una sala parrocchiale un sacerdote sta svolgendo una conversazione sul tema di Gesù, ma ad un certo punto, essendo giunto alla fine del suo intervento, chiede se ci siano domande ed osservazioni e da qui prende avvio l'azione scenica. Subito si delineano i personaggio del dramma: l'avvocato Schimmel è il caparbio razionalista, che pone domande provocatorie e non si lascia convincere da ingenue motivazioni, il dottor Ehrart è il protestante riformato che di continuo fa riferimento all'autorità stessa delle Scritture, la signora Kuyper rappresenta il fedele cattolico semplice, certo delle verità che la tradizione della Chiesa gli ha insegnato, da ultimo lo studente Toepfer, che rappresenta le nuove generazioni scettiche rispetto a tutto ciò in cui credono i padri.
La discussione verte su chi sia Gesù, sulla personalità e sulla vicenda umana del Cristo riportata a noi dagli evangelisti, di cui talvolta si notano le incongruenze e le diversità in una lettura affrontata e critica. I fatti che più animano i protagonisti sono proprio quelli della Passione.
Romanzo complesso e difficile di un autore messo ormai da parte nel nostro panorama letterario, Il quinto Evangelio è un’opera particolare, che raccoglie attorno ad una cornice vari documenti attribuiti ad epoche diverse: raccolte di lettere, frammenti, novelle, storie o rifacimenti di storie, una professione di fede. Ciascun testo è preceduto da una presentazione esplicativa.
A tutt’oggi è una delle opere più innovative nella struttura e nell’uso della lingua.
Romanzo, saggio, raccolta antologica, ricerca religiosa e filosofica nello stesso tempo, Pomilio viene catalogato come scrittore cristiano, definizione che, negli anni, è diventata motivo per sottostimarlo ed escluderlo dal Novecento letterario italiano. In un certo senso, oggi scrivere di lui è andare controcorrente. Mario Pomilio è, invece, uno dei molti autori che vanno ritrovati e riletti perché le sue pagine possono sempre, anche oggi, farci compagnia e suggerirci punti di vista particolarmente lucidi, capaci di liberare visioni ed idee irregolari sui resti dell’uomo contemporaneo; la lettura di Pomilio è utile soprattutto a quanti non si arrendono alla trasformazione della “sacra volta” in una cupola di plexiglass da centro commerciale.
Inoltre troveranno la lettura delle pagine di Pomilio particolarmente interessanti quelli che credono che la letteratura sia un mezzo per scortare se stessi nei cammini esistenziali che si vogliono intraprendere senza necessariamente escludere il “Mistero e senza girare invano intorno ad un introvabile sé. Mario Pomilio è riconosciuto come scrittore di grande rigore stilistico, cosa che gli derivava dall’avere un vero e proprio culto della parola. Ma non nel senso della bella parola di tipo dannunziano. Cercava la pulizia della lingua italiana e rifuggiva dalla comuni contaminazioni con il dialetto e le lingue straniere. In un’epoca come la nostra, così ossessionata da estremi localismi e giganteschi globalismi, quella sua attitudine è una lezione da ritrovare con complicità. E’ di recente diffusione il dato secondo cui l’italiano ha subito un incremento del 773% di parole di origine straniera e segnatamente quelle anglosassoni.
Questo fa di noi un paese globalizzato ma fortemente inglobalizzato: si parla ormai di “itanglese”. Ed è solo il caso di accennare ai localismi imbarazzanti di cui siamo preda. Pomilio, invece aveva una cura scrupolosa per uno scrivere che non disdegnava la cura della parola,  convinto com’era che ogni ricerca intellettuale e spirituale vada portata avanti con lo strumento linguistico ben circoscritto nelle sue valenze essenziali, pena l’inconsistenza. Il questo modo ha sempre evitato estremismi, partigianerie ed ideologie, rimanendo sempre nei pressi del cuore dei problemi affrontati.
Arrivò fino a misurarsi con una sofferta e lacerante indagine, complice Manzoni, sul significato del dolore nel mondo, sullo scandalo della sofferenza che attraversa la storia umana, che fece nascere Il Natale del 1833 con il quale vinse il Premio Strega 1983. Mi fermo qui, invitando il lettore a ritrovare l’opera di Mario Pomilio. 
Chiudo dicendo che c’è un momento più spiacevole di quando si dimentica qualcuno, uno scrittore in questo caso, che nelle sue esperienze letterarie ha offerto buona parte di sé, del suo percorso esistenziale, delle sue energie, dei suoi dubbi. Tracce utili a chi sente forte la necessità di cercare oltre i sentieri battuti, per afferrare qualcosa di sé e del mondo, setacciando materiali oltre se stesso, confrontandosi con altro da sé. 

domenica 1 settembre 2013

L’UOMO DELLO SPAZIO


Luigi Gerardo Napolitano


Luigi Gerardo Napolitano, nato nel 1928 a Ponticelli (all’epoca comune della provincia di Napoli), dove il padre era medico condotto,è stato uno dei più grandi scienziati italiani del secolo scorso, avendo ideato e diretto alcuni importanti esperimenti realizzati durante le missioni del laboratorio spaziale europeo.
Frequentò la scuola del paese e fin da giovanissimo fu appassionato di musica. Per gli studi superiori si trasferì a Napoli, iscrivendosi al liceo classico Giuseppe Garibaldi. In quel periodo l’amore per il teatro lo portò ad organizzare compagnie di recitazione tra gli studenti. Nel 1947 tornò a vivere con i genitori a Ponticelli e si iscrisse alla Facoltà di Ingegneria Meccanica dell’Università Federico II di Napoli, dimostrando subito bravura in matematica ed interesse per il volo. Tra i docenti ebbe il generale Umberto Nobile, eroe della trasvolata sul Polo Nord con il  dirigibile Norge, diventandone uno degli allievi prediletti. Laureatosi nel 1951, insegnò per un breve periodo matematica al liceo Elena di Savoia di Napoli.In seguito, con Gino Pascale, altro discepolo di Nobile, darà vita alle scuole napoletane di Spazio ed Aeronautica.
Desiderando approfondire la preparazione nel campo aeronautico, si specializzò presso la Facoltà di Ingegneria Aeronautica dell’Università di Roma La Sapienza, guidata da Luigi Broglio.
Rientrato a Napoli, grazie ai suggerimenti di Nobile, riuscì ad ottenere l’assegnazione della Fu lbright studet scholarship, prestigiosa borsa di studio messa a disposizione nel dopoguerra dagli americani agli studenti più meritevoli. Nell’autunno 1953 si imbarcò da Napoli, con destinazione New York, sulla motonave Vulcania, dove incontrò James e Milly Harford di ritorno dal viaggio di nozze. Harford, futuro segretario esecutivo dell’American rocket society di New York, fu in seguito per Napolitano un costante punto di riferimento.
Obiettivo del soggiorno a New York fu il master degree in ingegneria alla Polytechnic University. Inizialmente pensò di specializzarsi nella tecnologia degli elicotteri ma l’incontro con Antonio Ferri – che negli anni Trenta aveva diretto gli studi sull’alta velocità nel centro di ricerche aeronautiche di Guidonia e poi, fuggito dall’Italia nel 1945, era divenuto direttore dell’Aerodynamics Laboratory – lo indirizzò verso le ricerche di aerodinamica. Al Politecnico di New York condivise gli studi con un gruppo di altri scienziati italiani, fra cui Massimo Trella e Carlo Buongiorno. Nel giugno 1955 discusse la tesi di dottorato, quindi ritornò a Napoli, dove nel 1960, diventò professore ordinario di aerodinamica all’università partenopea.
Il 13 giugno 1961 sposò Liliana Boccolini da cui ebbe tre figli: Clementina, Alba e Fernando Flavio.
Napolitano, eclettico pioniere nel campo dell’aerodinamica ipersonica e propugnatore dell’utilizzo della Microgravità come ambiente di ricerca (quella che lui stesso definiva “quarto ambiente”),condusse anche indagini di acustica, scienze della vita e fisica dei fluidi, rivelando di quest’ultima alcune proprietà sconosciute, sulle quali si sarebbero poi concentrate le sue ricerche nelle condizioni spaziali di microgravità. 
Intorno a lui si raccolsero una serie di figure che dettero vita prima al Dipartimento di Scienze dello Spazio della Facoltà  di Ingegneria e poi ad un vero e proprio Corso di Laurea in Ingegneria Aerospaziale.
Gli studi condotti con Ferri gli garantirono notorietà scientifica e nel 1965 venne invitato a tenere un ciclo di lezioni all’Università della California a Berkeley. Due anni dopo diventò docente alla Sorbona di Parigi, collaborando in particolare con Marcel Barrère dell’ONERA (Office national d’études et de recherches aérospatiales), uno dei maestri francesi della propulsione a razzo. Tenne successivamente lezioni sullo strato limite in volo ipersonico anche al Von Karman Institute di Bruxelles. Dal 1966 al 1968 fu presidente della IAF (International astronautical federation), primo italiano eletto a questo vertice mondiale dell’esplorazione cosmica. Dal 1970 al 1974 fu direttore del Dipartimento di meccanica dei fluidi del CISM - International centre for mechanical sciences di Udine e nel 1972 venne eletto per la seconda volta presidente della IAF, rimanendovi per altri due anni. Di nuovo tornò a insegnare all’estero nel 1974, con una cattedra all’École nationale supérieure de mécanique et d’aérotechnique di Poitiers, in Francia. Intanto approfondì gli studi di fisica dei fluidi in ambiente spaziale e nel 1979 diventò segretario generale dell’ELGRA (European low gravity research association) che contribuì a creare e della quale nel 1981 venne eletto presidente, rimanendo in carica fino al 1986. Dal 1983 al 1991 riassunse la carica di direttore dell’Istituto di aerodinamica Umberto Nobile.
In quest’arco di tempo condusse importanti esperimenti a bordo dello Spacelab dell’European space agency, trasportato dallo shuttle della NASA: durante i voli orbitali delle missioni Spacelab-1 (STS-9 Columbia), del 1983, e Spacelab D-1 (STS-61-A Challenger), del 1985, con il suo strumento Flui dphysics module dimostrò il comportamento dell’effetto Marangoni che permette, in assenza di gravità, la costruzione «di ponti liquidi considerevolmente più alti che sulla Terra» (Marangoni convection in space microgravity environments, in Science, vol. 225 [13 July 1984], pp. 197 s.), un fenomeno prezioso ai fini dello sfruttamento delle condizioni spaziali per produrre nuovi materiali.
Organizzò in seguito una serie di Columbus Symposiums nei paesi europei per esplorare le nuove possibilità finalizzate alle ricerche che si sarebbero condotte sul modulo Columbus, l’elemento dell’ESA agganciato in permanenza alla stazione spaziale internazionale ISS. Per incrementare l’attività di ricerca in Italia fondò a Napoli, unendo gli interessi dell’Università di Napoli e della società Alenia Spazio, il MARS (Microgravity advanced research and support center). Nel 1990 l’Accademia nazionale dei Lincei lo nominò socio.
In parallelo Napolitano si impegnò a livello sociale proponendo e lavorando alla costituzione del MIT (Mediterranean institute of technology), nell’ambito di un parco tecnologico dove università e industrie avrebbero dovuto unire le loro possibilità per stimolare lo sviluppo economico del Meridione. In questo ruolo diventò presidente del comitato scientifico di Innovare e si batté fortemente per la costituzione del Centro italiano ricerche aerospaziali (CIRA), a Capua, di cui diventò presidente all’inizio di luglio 1991.
Morì improvvisamente il 23 luglio 1991, a Estes Park, in Colorado, dove, in qualità di presidente dell’ESA, si era recato per un meeting  del gruppo dei paesi utilizzatori della stazione spaziale (Space station users panel) dell’ente con la Nasa.
Per ricordarlo, l’Università Federico II gli ha intitolato  l’Istituto di Aerodinamica mentre, dal 1993, annualmente è bandito un premio  per giovani scienziati che porta il suo nome.
Dopo la prematura scomparsa di Napolitano, in Campania le attività e le ricerche relative allo spazio hanno vissuto alterne vicende fino ai giorni nostri.
La svolta è avvenuta nei primi anni del XXI secolo con la creazione di una serie di consorzi a carattere aerospaziale tra i quali Chain e Ali (Aerospace Laboratories for Innovative components), quest’ultimo responsabile dello sviluppo della capsula di rientro Irene (Italian Re-Entry Nacelle) per conto dell’ASI (Agenzia Spaziale Italiana), collaudata recentemente con successo presso la galleria ipersonica Scirocco del CIRA.
Ai lettori che volessero  approfondire la conoscenza di Luigi Gerardo Napolitano, si consiglia il libro di Giovanni Caprara  Lo spazio, il quarto ambiente.

copertina del libro Lo spazio, il quarto ambiente


IL MAESTRO DEI MAESTRI DELLA SCACCHIERA

Giorgio Porreca

Giorgio Porreca, nato a Napoli nel 1937, ivi scomparso nel 1988, è stato per oltre 30 anni il maggiore punto di riferimento per tutti gli scacchisti partenopei: a qualunque categoria appartenessero, con tutti era prodigo di consigli tecnici ed incoraggiava chiunque avesse talento e voglia di progredire.
Grande teorico, fu redattore, sin dalla fondazione nel 1970, della rivista Scacco, nata per iniziativa di Gennaro Siviero, collaborazione che diventerà sempre più intensa sino a quando, nel 1980, ne assumerà la direzione, elevandone il livello con  articoli profondi e minuziose traduzioni dal russo.
Alla rivista si affianca un’intensa attività editoriale con la pubblicazione di libri scritti o tradotti dal russo dallo stesso Porreca. Tra questi ricordiamo Anatolij Karpov, La partita di re e La variante Paulsen.
Fu maestro internazionale della FIDE  e della ICCF. 
Nel gioco a tavolino partecipò a diversi tornei internazionali e da tre olimpiadi scacchistiche con la squadra italiana: Dubrovnik nel 1950 in terza scacchiera, Helsinki nel 1952 in prima scacchiera ed Amsterdam nel 1954 in seconda scacchiera con il risultato di (+17=11-15). Fu campione italiano nel 1950 a Sorrento (dopo spareggio tecnico con Engalicew) e nel 1956 a Rovigo. Nel 1960 vinse il torneo di Imperia. Vinse tre volte il campionato italiano a squadre: nel 1960 con la squadra dell’Accademia Scacchistica Napoletana, nel 1969 e 1970 con la squadra del Circolo Scacchistico Centurini di Genova.
Fu sette volte campione italiano nel gioco per corrispondenza (ASIGC-Associazione Scacchistica Italiana Giocatori per Corrispondenza):nel 1957 e poi consecutivamente, dal 1966 al 1973, risultato mai raggiunto da altri. Conseguì un prestigioso quinto posto nel IX Campionato Mondiale per Corrispondenza e partecipò a numerosissimi incontri internazionali.
Professore di Lingua e Letteratura Russa, nel 1961 effettua un soggiorno di studi a Mosca che si rivelerà particolarmente utile per lo sviluppo degli scacchi in Italia. Oltre ad inviare  brillanti articoli  all’Italia Scacchistica ed un entusiasmante commento  del match tra Tal e Botvinnik, Porreca viene a conoscenza non solo della vasta letteratura sull’argomento ma soprattutto dei metodi di allenamento della scuola scacchistica sovietica, la più importante del mondo.
Negli anni successivi diverrà un tramite basilare attraverso indovinate traduzioni o rielaborazioni per la divulgazione nel nostro Paese di una letteratura scacchistica avanzata.
Già nel 1959 aveva dato alle stampe, in collaborazione con Adriano Chicco, per l’editore Mursia, il Libro completo degli scacchi sul quale hanno compiuto i primi passi verso il nobile gioco generazioni di neofiti.
Seguì una monografia sulla Partita ortodossa, un’antologia Studi scacchistici ed il celebre Manuale teorico pratico delle aperture, tutti editi da Mursia, fino ad arrivare alla Partita Italiana e, di nuovo in collaborazione con Chicco, all’esaustivo Dizionario enciclopedico degli scacchi, mentre tra le traduzioni dal russo ricordiamo La carriera di Mikhail Tal di Koblenz, I finali di scacchi di Grigorjev ed Il centro dipartita di Romanovskij.
Ha curato a lungo una rubrica settimanale su Il Tempo e L’Espresso.
Ebbi modo di incontrarmi più volte con Porreca, non sulle 64 caselle, ma nella sua bella casa di via Tasso, in compagnia dei maestri Giacomo Vallifuoco ed Ernesto Jannaccone: Porreca possedeva una splendida biblioteca specializzata, che ha lasciato alla Biblioteca Nazionale di Napoli e, la parte più cospicua,  alla Lega Campana Scacchi.
Avendo avuto modo di apprezzare l’uomo, più che lo studioso, vorrei ricordarne la serietà, il rigore morale, la spiccata sensibilità uniti ad un profondo attaccamento alla famiglia ed alla sua  professione di docente.
La presenza di Porreca nel mondo scacchistico italiano è stata, senza dubbio, tra le più significative del secolo scorso e lascia stupefatti per la vastità dell’impegno che ha toccato tutti i settori del gioco, risultando fondamentale per lo sviluppo tecnico e culturale nel nostro Paese di questa  disciplina  giustamente denominata “Il gioco dei re ed il re dei giochi”.

LA SPERANZA NELLO SVILUPPO



Il Professor Adriano Giannòla, presidente dello Svimez, propugna, sin dai tempi dei fondatori dell’Istituto Donato Menichella e Pasquale Saraceno, una tradizione da seguire: “Ancora oggi non è possibile capire il Sud senza il Nord. E nemmeno il Nord senza il Sud. Perché le dinamiche civili, politiche ed economiche sono troppo intrecciate. L’infrastrutturazione come base della politica cavouriana riguarda il Nord come il Sud. Nel dopoguerra l'industrializzazione è ritenuta dall’élite lo strumento migliore per la crescita economica e civile dell'intero Paese.
Tutta l'Italia, nel 1861, è un Paese non industriale. Il problema è capire perché vi sia una differenziazione costante degli indicatori economici. E questo, nonostante il parziale recupero del Mezzogiorno nella prima parte della nostra storia. Recupero ridotto, se non bruciato, dal fascismo e dalla seconda guerra mondiale.
Ma l'Italia resta una e una sola. L'acciaio prodotto al Sud è essenziale per l'industria del Nord. Non solo per la meccanica e l'auto. Pure per la chimica di base e la plastica. I giovani del Sud si trasferiscono nelle fabbriche del Nord. Anche questa è una interconnessione profonda.
A parte l'assalto dei partiti ai grandi gruppi pubblici, nei primi anni Settanta si registrano la fine degli equilibri di Bretton Woods e lo shock petrolifero. L'Italia adotta svalutazioni competitive, che avvantaggiano il tessuto settentrionale di piccole e  medie imprese, e rinuncia a ogni idea di politica industriale, vitale per il Mezzogiorno. È allora che il Sud è lasciato a se stesso”.
Laureatosi in Economia e Commercio presso l’Università di Bologna, il prof. Adriano Giannòla ha conseguito successivamente la specializzazione in Economia dello Sviluppo presso il Centro di Ricerche Economico-Agrarie per il Mezzogiorno di Portici. Stimato come uno dei più valorosi tra i giovani economisti, ha svolto attività di ricerca presso la Ford Foundation dell’Università di Harvard ed il Massachussets Institute of Technology di Cambridge Massachussets. E’ stato nominato in seguito professore ordinario di Economia presso l’omonima Facoltà dell’Università Federico II di Napoli.
Significativa e particolarmente incisiva è stata la presenza del prof. Giannòla nelle più prestigiose istituzioni economiche. E’ stato membro del Comitato Scientifico dell’Osservatorio sulle Piccole Imprese di Capitalia e presidente della Sezione Campana della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale. E’ membro del direttivo dell’Associazione Italiana per gli Interessi del Mezzogiorno. Intenso è stato anche il contributo dato allo studio ed alla gestione delle istituzioni economiche: Giannòla, infatti, è membro della Commissione culturale della sezione dell’UNESCO, nonché Presidente dell’Istituto Banco di Napoli – Fondazione sin dal febbraio 2000. 
Il prof. Giannòla è autore di numerose pubblicazioni unanimemente apprezzate anche in ambito internazionale, nelle quali l’autore rivela l’interesse costantemente coltivato per i temi della macroeconomia attraverso un’indagine coerentemente rivolta ai profili teorici ed empirici della disciplina, dedicando particolare attenzione ai problemi dell’economia duale. 
Fondamentali risultano i suoi studi sul Mezzogiorno e, principalmente, sui profili del credito nel Sud Italia, nonché sui rapporti banche/imprese. L’eminente studioso ha anche reso alle istituzioni il contributo pieno e coerente del proprio impegno scientifico. Basterà citare in proposito, oltre che la sua appartenenza al Consiglio di Amministrazione del Banco di Napoli S.p.A., il ruolo che ha svolto, per incarico della Regione Campania,  nel Comitato Tecnico Scientifico e nella Commissione “ Federalismo fiscale e Mezzogiorno “nella qualità di coordinatore.
L’idea  cui il prof. Giannòla sta lavorando da qualche tempo è quella di creare una rete tra gli storici istituti di assistenza di Napoli per costruire un soggetto di grande rilevanza in grado di raccogliere fondi per il sociale, valorizzare il centro storico, promuovere Napoli non come fatto puramente commerciale ma come attrattore culturale in Italia e nel mondo. 
 “Quella della rete – spiega Giannòla – è una dichiarazione d’intenti, ancora non abbiamo le strutture amministrative nè abbiamo messo mano ad uno statuto. Però il progetto c’è ed è mosso dalla consapevolezza che Napoli sia una città ricchissima di tutto, solo che non se ne rende conto. Le nostre istituzioni sono il vero patrimonio emettendoci insieme potremmo costruire un soggetto di grande rilevanza con diversi scopi, tra cui l’assistenza sociale”. 
Giannola pensa, per esempio, al Pio Monte della Misericordia, alla Fondazione con il Sud, alla Fondazione di Comunità da lui presieduta, alla Fondazione del Teatro San Carlo. 
La storia dell’Istituto Banco di Napoli è strettamente correlata alla storia dell’omonimo Banco. Assistenza sociale, ricerca, formazione, beni culturali: sono solo alcuni dei settori in cui opera da secoli. In particolare, nel rispetto della propria tradizione, svolge attività nei settori della ricerca scientifica, dell’istruzione e formazione nelle discipline umanistiche ed economiche, della sanità per il potenziamento di attrezzature, della tutela e valorizzazione del patrimonio artistico. La metamorfosi storica dell’Istituto si ha nel 1991, quando il Banco di Napoli è la prima banca pubblica a trasformarsi in società per azioni con la denominazione di Banco di Napoli spa. Alla neonata società toccò il ruolo di svolgere attività prettamente bancaria. Ciò che invece  restava del Banco di Napoli Istituto di diritto pubblico, non potendo più esercitare impresa bancaria, continuò ad operare nel sociale e nella promozione dello sviluppo economico e culturale delle regioni meridionali. “Oggi l’Istituto è attivo in diversi campi – continua Giannòla – ma sono tre i settori principali d’intervento: la ricerca, la formazione e l’assistenza sociale. Su tutti i terreni le attività sono no-profit. Abbiamo intrecci con le associazioni di volontariato: sosteniamo ad esempio gli ospedali in difficoltà attrezzandoli dei macchinari di cui hanno bisogno, cerchiamo di intervenire – nei limiti delle nostre possibilità – laddove ce n’è bisogno”. 
Ogni mese arrivano all’Istituto numerose richieste di finanziamento di progetti nel campo del sociale. Non tutte vengono accolte per mancanza di fondi. Ai progetti approvati viene fornito non solo supporto economico, ma anche sostegno nelle fasi successive della realizzazione. “Tutto questo – tiene a sottolineare Giannòla – senza alcun contributo pubblico”. 
Le attività nel settore del sociale vengono svolte soprattutto attraverso la Fondazione Comunità del Centro Storico, nata nel marzo 2010 su iniziativa di un comitato promotore guidato dalla Fondazione Banco di Napoli. Nel 2012 sono stati erogati 354mila euro per 14 progetti: dalla Comunità di Sant’Egidio, per la quale è stata organizzata una raccolta fondi al fine di sostenere le attività ordinarie di assistenza agli anziani, alla giovane associazione “Un Uovo Mondo”, comunità di mamme della scuola media Oberdan che, con il sostegno della Fondazione, ha dato vita ad attività pomeridiane autogestite all’interno della scuola, fino alla Fondazione Massimo Leone, una delle realtà territoriali più attive nell’accoglienza dei senza fissa dimora, ed al Consorzio Borgo Orefici, con il quale è stato realizzato un percorso formativo per orafi rivolto a minori a rischio.